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Giurisprudenza

Sull’azione di responsabilità del curatore nei confronti di amministratori e sindaci

24 Marzo 2020

Francesco Pezone

Cassazione Civile, Sez. III, 7 novembre 2019, n. 28617 – Pres. Amendola, Rel. Cricenti

Di cosa si parla in questo articolo

In tema di azione di responsabilità contro i membri degli organi sociali esercitata dal curatore ai sensi dell’articolo 146 della legge fallimentare, l’irregolarità delle scritture contabili legittima la liquidazione del danno in via equitativa, ricorrendo al criterio del c.d. deficit fallimentare, dato dalla differenza tra il passivo accertato e l’attivo liquidato.

La vicenda in commento trae origine dall’azione di responsabilità esercitata dal curatore nei confronti di amministratori e sindaci della società fallita: ai primi veniva contestata la riduzione del patrimonio sociale a seguito dell’accumulo di passività e del compimento di atti di distrazione dell’attivo, mentre ai secondi si contestava l’omessa vigilanza sull’operato dell’organo gestorio. Pronunciata la condanna in primo grado e confermata la stessa in appello, ricorrevano per Cassazione solo due dei tre membri del collegio sindacale.

In via preliminare, i ricorrenti censurano l’individuazione del dies a quo del termine di prescrizione dell’azione di responsabilità nella pronuncia della sentenza dichiarativa di fallimento. A questo proposito, la Corte chiarisce che, quando l’azione di responsabilità di cui all’articolo 2394 c.c. è esercitata dal curatore, si presume iuris tantum che il termine di prescrizione quinquennale dell’azione cominci a decorrere dalla data della dichiarazione di fallimento.

La ratio di tale presunzione va individuata nell’onerosità della prova che altrimenti graverebbe sul curatore. Difatti, quando l’azione ex articolo 2394 c.c. è esercitata dai creditori durante societate, il termine di prescrizione quinquennale decorre dal momento in cui l’incapienza del patrimonio sociale rispetto alla soddisfazione del credito sia oggettivamente conoscibile – e non da quando sia effettivamente conosciuta – da parte dei creditori e tale momento, a sua volta, non coincide necessariamente con lo stato di insolvenza. In sede concorsuale, pertanto, si assiste ad una parziale inversione dell’onere della prova, in forza della quale spetta ai membri degli organi sociali citati in responsabilità provare, sulla base di fatti sintomatici di assoluta evidenza, che lo stato di incapienza patrimoniale è sorto prima dell’apertura della procedura fallimentare.

Per quanto concerne la liquidazione del danno in via equitativa, la Corte reputa legittimo l’utilizzo del criterio del deficit fallimentare, a condizione che questo risulti logicamente plausibile alla luce delle circostanze del caso concreto e che l’attore abbia allegato un inadempimento idoneo, quantomeno astrattamente, ad impedire l’accertamento degli specifici effetti dannosi riconducibili alla condotta contestata. Integra tale inadempimento l’irregolare tenuta delle scritture contabili, che nel caso specifico aveva impedito un puntuale calcolo del danno.

Tuttavia – precisa la Suprema Corte in conclusione – il deficit fallimentare è un dato dinamico, destinato a mutare nel corso della procedura. Pertanto, qualora il giudice di primo grado, nel determinare il quantum del risarcimento, abbia utilizzato come base di calcolo il deficit accertato al momento della pronuncia della condanna e, successivamente, ma prima della decisione di secondo grado, vengano recuperati dalla curatela alcuni crediti, accertati con sentenza definitiva passata in giudicato, il giudice d’appello deve tener conto della variazione del patrimonio fallimentare, riducendo corrispondentemente l’ammontare del danno.

 

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