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Attualità

Riciclaggio, possesso di denaro ed “indici sintomatici”: la Cassazione detta i limiti

26 Marzo 2021

Enrico Di Fiorino, Partner, Chiara Biglieri, Trainee, Fornari e Associati

Di cosa si parla in questo articolo

1. Premessa

La sentenza n. 32112/2020 (Pres. Cervadoro, Rel. De Santis), emessa dalla Seconda Sezione della Corte di Cassazione, fornisce alcune importanti indicazioni in materia di riciclaggio, perimetrando i presupposti giuridici per l’accertamento del reato presupposto e per l’individuazione della condotta tipica. La pronuncia chiarisce – in definitiva – come non possa essere validamente contestata l’ipotesi di reato in parola unicamente sulla base di “indici sintomatici”, pur in mancanza di una identificazione della fonte dei proventi oggetto di laundering e di un comportamento attivo, che non si riduca al mero possesso.

2. Sentenza

Il Tribunale di Messina rigettava la richiesta di riesame avanzata avverso il decreto con cui il Pubblico Ministero aveva convalidato il sequestro preventivo, operato dalla Polizia Giudiziaria, di ingenti somme di denaro, genericamente riferibili a condotte di riciclaggio punite dall’art. 648-bis c.p. In particolare, il giudice del riesame considerava determinate circostanze – quali il possesso di una ingente somma di denaro contante, le modalità di occultamento dei beni, i precedenti penali dei possessori di tali somme, lo stato di indigenza in cui gli stessi versavano e l’incapacità di dimostrare la provenienza del denaro – come sufficienti a ritenere sussistente il fumus del reato di riciclaggio, confermando di conseguenza la legittimità del sequestro operato.

La difesa degli indagati proponeva ricorso per cassazione, lamentando un difetto di motivazione in merito all’individuazione della fattispecie di reato a cui riferire l’asserita provenienza illecita delle somme di denaro sequestrate. Secondo i ricorrenti, le circostanze valorizzate dal Tribunale non avrebbero, infatti, legittimato l’addebito di riciclaggio, in quanto risultava completamente assente uno specifico riferimento al reato presupposto.

La Suprema Corte accoglie il ricorso, dichiarandolo fondato.

Si presentano due piani distinti, sui quali appare opportuno soffermarsi: (i) quello attinente all’accertamento dell’esistenza del reato pregresso, necessario per colorare d’illiceità i proventi su cui interviene l’attività di “lavaggio”; (ii) quello relativo all’individuazione delle modalità di manifestazione concreta del reato, il quale non può essere integrato da condotte puramente omissive.

3. Il reato presupposto

Come noto, la giurisprudenza ritiene che – in sede di riesame di misure cautelari reati – sia precluso al giudice un sindacato sulla concreta fondatezza dell’accusa, dovendosi il magistrato limitare all’astratta possibilità di sussumere il fatto attribuito ad un soggetto in una determinata ipotesi di reato, da ricercarsi attraverso una verifica, al tempo stesso provvisoria ed incidentale, delle risultanze processuali (così Cass. pen., S.U., n. 4/1993, Gifuni).

Nel caso de quo, la Corte precisa che – pur nei limiti dettati dal predetto orientamento largamente maggioritario – il giudice del riesame non possa ritenersi esonerato da (i) la descrizione della condotta provvisoriamente contestata, (ii) la sua sussumibilità sotto una fattispecie incriminatrice, (iii) l’individuazione della natura dei beni da sottoporre a misura e l’indicazione della relazione tra res e reato, non essendo invece sufficiente la mera indicazione della norma violata.

La Seconda Sezione, nell’accogliere le doglianze del ricorrente, riconosce che non risulterebbe “nemmeno ipotizzato il reato presupposto del riciclaggio, avendo il collegio cautelare esaurito la verifica del fumusnel rilievo di carattere meramente congetturale circa la plausibile derivazione illecita del danaro sequestrato sulla base della quantità del contante, delle modalità di occultamento e delle condizioni soggettive degli indagati”.

Così operando, il giudice del gravame si pone in palese contrasto con i principi già da tempo elaborati dalla Suprema Corte, per la quale “il mero possesso di un’ingente somma di denaro non può giustificare, in assenza di qualsiasi riscontro investigativo circa l’esistenza o meno di un delitto presupposto (od anche solo l’esistenza di relazioni con ambienti criminali, ovvero la precedente commissione di fatti di reato, o l’avvenuto compimento di operazioni di investimento, comunque, di natura illecita), l’elevazione di un’imputazione di riciclaggio” (tra le altre Cass. Pen., Sez. II, n. 39006/2018).

I giudici della Suprema Corte hanno, perciò, precisato che il considerevole importo della somma, le modalità di occultamento, e le condizioni soggettive degli indagati sono “indici sintomatici” suscettibili di provare, al più, un ingiustificato possesso di denaro, ma “privi di specificità in ordine alla derivazione della disponibilità oggetto di espropriazione”.

La Corte conclude, quindi, affermando che “ai fini della legittimità del sequestro preventivo di cose che si assumono pertinenti al reato di riciclaggio di cui all’art. 648-bisc.p., pur non essendo necessario la specifica individuazione e l’accertamento del delitto presupposto, è tuttavia indispensabile che esso risulti, alla stregua degli elementi di fatto acquisiti e scrutinati, almeno astrattamente configurabile e precisamente indicato, situazione non ravvisabile quando il giudice si limiti semplicemente a supporne l’esistenza, sulla sola base del carattere asseritamente sospetto delle operazioni relative ai beni e valori che si intendono sottoporre a sequestro”.

Appare chiaro come l’individuazione del reato presupposto potrebbe rivelarsi in alcuni casi complessa, tanto da non rendere possibile una contestazione di riciclaggio: trattasi, tuttavia, di un’attività ineludibile, certamente non sostituibile con meccanismi di natura presuntiva.

La non necessarietà di un previo accertamento giudiziale del reato presupposto, da cui deriva il potere incidentale del giudice di procedere – anche attraverso un ragionamento indiziario – alla valutazione della sussistenza dello stesso, non può dunque legittimare la mancata individuazione della commissione di un delitto, peraltro di natura necessariamente dolosa.

In definitiva, l’apparente alleggerimento dell’onere probatorio connesso alla rilevanza di un qualsiasi reato presupposto doloso non può costituire un comodus discessus, tale da permettere all’accusa di non indicare tout court la provenienza delittuosa, secondo lo schema – non applicabile nel nostro ordinamento – dell’”all crimes approach”.

4. La condotta

Secondo elemento di doveroso chiarimento offerto dalla sentenza in commento attiene alla condotta tipica, richiesta per contestare validamente il reato di cui all’articolo 648-bis.

Come noto, la fattispecie di riciclaggio si articola in tre diverse ipotesi fattuali: (i) sostituzione, (ii) trasferimento, nonché (iii) qualsiasi altra operazione distinta dalle precedenti che sia tale da porre un ostacolo all’identificazione del denaro, dei beni o di altre utilità di provenienza illecita. Si tratta dunque di una norma a più fattispecie, dove ogni condotta rappresenta una possibilità di commissione del reato.

La circostanza che il reato possa perfezionarsi attraverso plurime modalità non significa che l’accusa possa esimersi dall’individuare – alternativamente – almeno una delle condotte tipizzate: il riciclaggio appare infatti realizzabile unicamente con modalità commissive, come del resto conferma il dato letterale, che àncora la tipicità al “compimento” delle altre operazioni. Ragionando diversamente, si darebbe invece vita ad un delitto di mero sospetto, o di posizione, quale era il vecchio reato di “possesso ingiustificato di valori” (art. 708 c.p.), dichiarato incostituzionale, che puniva il soggetto trovato in possesso di valori non confacenti al suo stato, e di cui non potesse giustificare la provenienza.

Nel caso de quo, secondo la Corte, i fatti oggetto di contestazione – declinabili in termini di (i) possesso ingiustificato di una somma di denaro di considerevole importo, (ii) modalità di occultamento, (iii) status personale dei soggetti, con riferimento alla condizione di impossidenza e ai precedenti penali – non sono con ogni evidenza riconducibili ad alcuna delle tre ipotesi previste dal delitto di laundering.

La Suprema Corte contesta dunque al giudice del gravame la mancanza di una specificazione della condotta tipica del reato di riciclaggio contestato, “non potendo essere considerata tale quella del mero possesso di denaro, inidonea ad integrare l’attività diretta alla “sostituzione, al trasferimento, o ad altre operazioni” intese ad occultare la provenienza delittuosa del denaro”.

Anche per tale motivo, il ricorso degli indagati è stato accolto ed è stato disposto l’annullamento con rinvio del provvedimento impugnato, per un nuovo esame.

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