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Giurisprudenza

Bancarotta fraudolenta: sul rapporto con il reato di appropriazione indebita (o truffa) e sulla condotta distrattiva da lavoro “nero”

12 Febbraio 2018

Marianna Geraci, Trainee Lawyer presso Studio Legale Silvestri di Roma e Dottoranda di Ricerca in Diritto Penale presso l’Università Mediterranea di Reggio Calabria

Cassazione Penale, Sez. V, 11 ottobre 2016, n. 47561 – Pres. Palla, Rel. Settembre

Di cosa si parla in questo articolo

A seguito della condanna impartita in primo grado e poi confermata dalla Corte d’Appello di Lecce per bancarotta fraudolenta continuata e aggravata in relazione al fallimento della società, l’amministratore unico (poi Presidente del C.d.A.) e l’amministratore di fatto della medesima società hanno proposto ricorso per Cassazione.

I difensori di entrambi gli imputati – ai quali sostanzialmente venivano attribuite le distrazioni di due consistenti importi di denaro mai consegnati alla nuova dirigenza della società né al curatore, oltre che le conseguenti anomalie contabili – hanno principalmente evidenziato, quale comune doglianza, il fatto che una delle contestate distrazioni fosse in realtà consistita nel trattenere illegittimamente quanto residuato da un finanziamento ricevuto dal Comune per la ristrutturazione del campo da calcio; importo, quello risultante dalla differenza tra quanto ricevuto e quanto effettivamente speso, che sarebbe confluito nel patrimonio della società controllante. Da tali circostanze – secondo la ricostruzione della difesa – sarebbe dovuto più correttamente discendere l’inquadramento della condotta nella fattispecie di truffa o appropriazione indebita (e non invece in quella di bancarotta), anche alla luce della considerazione che la somma in questione, riversata nella controllante, sarebbe comunque rimasta nel perimetro patrimoniale del gruppo finanziatore dell’intera gestione societaria.

I Giudici della V Sezione respingono i rilievi della difesa poc’anzi riferiti, rammentando, da un lato, come il delitto di bancarotta per distrazione sia qualificato dalla violazione del vincolo legale che limita, ai sensi dell’art. 2740 c.c., la libertà di disposizione dei beni dell’imprenditore che destini questi ultimi a fini diversi da quelli propri dell’azienda sottraendoli ai creditori; dall’altro, come in tema di reati fallimentari e precisamente ai sensi dell’art. 216 L. Fall., debbano intendersi per beni del fallito tutti quelli che fanno parte della sfera di disponibilità del suo patrimonio, indipendentemente dalla proprietà e dalla modalità di acquisto degli stessi. 
Tali beni possono, quindi, essere stati ottenuti anche con sistemi illeciti come, per esempio, e in particolare, la consumazione di condotte di appropriazione indebita (o truffa). La Suprema Corte, richiamando altri arresti giurisprudenziali sul punto, coglie allora l’occasione per specificare che l’obiettività giuridica del reato da ultimo citato e quello di bancarotta è diversa, “in quanto l’iter criminoso del primo si esaurisce con l’acquisto di beni mentre la sottrazione degli stessi è successiva e si ricollega ad una nuova ed autonoma azione, con la conseguenza che i due reati possono concorrere”, così concludendo per il rigetto della pretesa di stabilire un rapporto di esclusione tra l’appropriazione indebita (o la truffa) e la bancarotta patrimoniale.

Rispetto alla deduzione difensiva riguardante, invece, il trasferimento della somma de qua nel medesimo perimetro patrimoniale rappresentato dal rapporto tra la società controllata e quella controllante, i Giudici – sottolineando come l’appartenenza al medesimo gruppo societario non possa desumersi dalla sola e parziale coincidenza dell’assetto proprietario – affermano che in ogni caso uno strutturato assetto societario non possa legittimare la libera circolazione dei capitali tra le diverse entità del gruppo, “a prescindere dall’esistenza di vantaggi compensativi per la controllata”.

Nella pronuncia in analisi, ulteriore censura comune alle due difese è poi quella relativa alla seconda delle somme di denaro di cui è contestata la distrazione che, in quanto destinata al pagamento “in nero” di tecnici e calciatori, avrebbe quindi avuto – secondo quanto prospettato nel ricorso – una destinazione conforme all’oggetto sociale, configurando al più una bancarotta preferenziale, peraltro nel caso di specie oramai prescritta.

Anche tale assunto difensivo, ad avviso degli Ermellini, è privo di fondamento, in quanto la costruzione di rapporti di lavoro al di fuori della contabilità ordinaria costituisce un fatto illecito che non solo lede le norme previste a tutela dei lavoratori ma altresì viola la regolarità dell’intera attività contabile della società, rendendone impossibile il controllo e sovrapponendo la gestione personale dei singoli amministratori a quella degli organi sociali. Il lavoro “nero”, concludono i Giudici, costituisce “oggettivamente una modalità di gestione alternativa delle risorse sociali, attraverso la quale, in contrasto con la legge e con le norme statutarie, viene impiegata forza lavoro, non assunta dalla società, ed integrante una vera e propria forma di distrazione perché la retribuzione viene effettuata con capitali sociali non regolarmente registrati” (così Cass. n. 26636/2004) e, pertanto, in esso rientrano anche le somme erogate a tecnici e calciatori di una squadra di calcio al di fuori delle regole derivanti dalla gestione ordinaria della società e secondo le valutazioni e gli interessi personali dell’amministratore.

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