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Editoriali

A vent’anni dal Testo Unico della Finanza

9 Maggio 2018

Andrea Perrone

Professore ordinario di diritto commerciale, Università Cattolica del Sacro Cuore

1. Nel 1998 il sistema finanziario era in grande fermento. Il mercato dei capitali contendeva la scena mondiale alla tradizionale attività bancaria; l’Unione europea mirava a integrare il suo sistema finanziario con la moneta unica e un aperto favore per la concorrenza tra intermediari; nel nostro Paese, la recente stagione delle privatizzazioni sollecitava un nuovo approccio alla società per azioni.

Di questo contesto il Testo Unico della Finanza (TUF) era uno specchio fedele. Per la prima volta in Italia, il mercato dei capitali riceveva una disciplina organica; in coerenza con la scelta europea per misure di armonizzazione minima, un approccio principle-based e ampi spazi per l’autonomia privata caratterizzavano le regole primarie; una corporate governance costruita sul paradigma economico degli agency problems faceva il suo ingresso nella disciplina della società per azioni.

2. Poi vennero le frodi societarie di inizio secolo, la crisi finanziaria globale e, nell’Unione europea, la crisi del debito sovrano.

Le prime conseguenze sul TUF furono un forte ridimensionamento dell’autonomia privata e un inasprimento degli apparati sanzionatori. Nel tempo, però, è stata la stessa rilevanza del testo unico a essere messa in discussione. Sotto la crescente spinta dell’Unione europea verso una centralizzazione del governo dell’economia a tutela dell’euro, il TUF è stato progressivamente “espropriato” da provvedimenti europei di armonizzazione massima, realizzati con il crescente ricorso a regolamenti,technical standards e interventi di soft law da parte delle autorità europee di settore. Così, per esempio, buona parte delle regole sulle infrastrutture di mercato e la disciplina amministrativa sul market abuse sono oggi contenute in regolamenti europei; le norme primarie e secondarie su servizi di investimento e gestione collettiva del risparmio sono redatte mediante la riproduzione testuale delle corrispondenti norme delle direttive, quando non addirittura con un rinvio tout court alle previsioni dei regolamenti delegati europei; la prima parte del TUF è diretta per lo più a individuare l’autorità domestica competente all’applicazione della disciplina uniforme europea. Le norme squisitamente italiane sono limitate ad alcuni aspetti della disciplina di corporate governance, all’offerta fuori sede e alla consulenza finanziaria, ai portali per la raccolta di capitale e alla disciplina penalistica.

In questa prospettiva, il senso di un testo unico sembra, quindi, essere in larga parte venuta meno, tanto più se si considera che la tradizionale sistematica “emittenti – intermediari – mercati” è oggi messa in discussione dalle innovazioni organizzative e tecnologiche degli intermediari che tendono ad assommare le tre funzioni.

3. Altre sono, di contro, le urgenze con cui pare necessario misurarsi.

3.1. L’ipertrofia del diritto europeo, una tecnica normativa di qualità discutibile e l’assenza di adeguate categorie sistematiche rendono il diritto del mercato dei capitali difficilmente accessibile.

Urgente appare, pertanto, un intervento di semplificazione: nelle forme di un compendio che ordini la disciplina applicabile alle singole materie, sul modello dell’Handbook predisposto dalla Financial Conduct Authority inglese e con l’ausilio intelligente di piattaforme online dedicate; o, se si volesse essere più coraggiosi, un codice, che, nella fedeltà al diritto europeo, riconduca la disciplina vigente a un numero limitato di categorie dogmatiche capaci di ordinare le singole disposizioni di dettaglio.

3.2. In attesa delle possibili evoluzioni in materia di vigilanza pubblica, prospettate dal piano della Commissione europea sulla Capital Markets Union e inevitabilmente condizionate dallo scenario successivo alla Brexit, altrettanto necessaria risulta la riflessione sull’enforcement domestico. La giurisprudenza sul “risparmio tradito”, i processi penali su “scalate”, derivati e crisi bancarie, alcune discusse sentenze delle Sezioni Unite in materia di servizi di investimento e la recente “ribellione” di alcune banche italiane alle decisioni dell’Arbitro per le Controversie Finanziarie, sono indici evidenti di una significativa incidenza dell’attuazione coattiva delle norme in materia di finanza sugli equilibri economici e sociali italiani del nostro Paese.

Non sempre, peraltro, le decisioni dimostrano un’adeguata conoscenza del fenomeno regolato e della sua disciplina. Di qui la possibilità di ragionare su eventuali sezioni specializzate, istituite presso gli organi giudiziari ordinari, valorizzando, se del caso, la previsione costituzionale che consente di integrare il collegio dei decisori con «cittadini estranei alla magistratura».

3.3. L’emersione del Fintech sollecita, infine, una disciplina che affronti l’evoluzione digitale nel mercato dei capitali con lo sguardo in avanti.

La scelta operata da altri ordinamenti di creare “zone libere” per l’innovazione tecnologica risponde alla comprensibile idea di attrarre il business secondo il tradizionale approccio di regulatory competition. L’impostazione è assai sensata e lascia pochi margini di discussione. Nella consapevolezza che l’evoluzione tecnologica porta con sé rilevanti conseguenze distributive, più completa appare, nondimeno, un’impostazione puntuale nel precisare le regole del gioco: favorendo una interazione stretta e trasparente tra innovatori digitali e controllo pubblico, che possa mitigare, nel contempo, rischi significativi per gli investitori e tentazioni di regulatory empire-building per le autorità di vigilanza.

4. Un’ultima considerazione, di carattere più generale, è suggerita dal recente successo dei piani individuali di risparmio (PIR).

Dopo lunghi anni di discussione sulle modalità per favorire l’accesso delle piccole e medie imprese al mercato dei capitali, il boom dei PIR pare dimostrare la necessità di un approccio che integri diritto privato, diritto amministrativo e diritto tributario. Per un effettivo sviluppo del finanziamento non bancario alle imprese, non basta, in altre parole, l’impianto del TUF; occorre, di contro, che le tradizionali regole sull’accesso ai mercati siano accompagnate da scelte di politica economica e da conseguenti norme fiscali capaci di indirizzare il risparmio privato. In tempi difficili come quelli attuali, una ragionevole partnership tra disciplina del mercato e scelte pubbliche di indirizzo appare, insomma, richiesta da elementari esigenze di realismo.

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