Il presente contributo esamina il regime fiscale della rinuncia a crediti per dividendi deliberati ma non riscossi da soci persone fisiche non imprenditori, alla luce della Risposta n. 59/2025 dell’Agenzia delle Entrate. In particolare, attraverso un confronto tra la nozione di incasso giuridico e l’interpretazione dell’art. 88, comma 4-bis, TUIR mette in luce l’incertezza applicativa della disciplina vigente e l’esigenza di un intervento normativo chiarificatore.
1. Premessa
La risposta ad interpello n. 59 pubblicata dall’Agenzia delle Entrate il 3 marzo 2025 in materia di rinuncia a crediti per dividendi deliberati ma non riscossi da parte di soci persone fisiche non imprenditori (la “Risposta 59/2025”) consente di analizzare la tematica del rapporto tra la disposizione di cui all’articolo 88, comma 4-bis, del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (il “TUIR”) e la c.d. tesi dell’“incasso giuridico” di matrice ministeriale, sia in termini generali sia nel contesto della crisi d’impresa. Da una parte, l’amministrazione finanziaria ritiene che l’ammontare del credito rinunciato non debba essere assoggettato a tassazione presso la società debitrice, ma piuttosto in capo al socio rinunciante sulla base del citato principio dell’incasso giuridico. Dall’altra parte, la dottrina e la giurisprudenza più recente – operandosi esclusivamente nell’alveo dell’articolo 88, comma 4-bis– ritengono che il ripristino del principio di simmetria fiscale debba essere verificato agendo sul valore fiscale del credito rinunciato. Sul punto, si anticipa che entrambe le posizioni non risultano totalmente appaganti e rendono necessario un intervento normativo finalizzato a modificare la natura del citato articolo 88, comma 4-bis, del TUIR.
2. Il difficile connubio tra la teoria dell’incasso giuridico e le previsioni dell’articolo 88, comma 4-bis, del TUIR
Per contestualizzare la questione occorre premettere che, ai sensi dell’articolo 88, comma 1, del TUIR, si considera sopravvenienza attiva «la sopravvenuta insussistenza di […] passività iscritte in bilancio in precedenti esercizi». Rappresenta un’eccezione a tale principio generale la disposizione di cui al comma 4 dell’articolo 88, del TUIR, laddove esclude dalle sopravvenienze attive i versamenti in denaro o in natura fatti a fondo perduto o in conto capitale alle società dai propri soci.
Innestata nel solco normativo tracciato dai commi 1 e 4 dell’articolo 88, del TUIR, la teoria dell’incasso giuridico fu introdotta dall’amministrazione finanziaria a seguito dell’approvazione del D.L. 30 dicembre 1993, n. 557, il quale modificando l’articolo 55, comma 4 (ora articolo 88, comma 4), del TUIR, ha esteso l’irrilevanza fiscale delle sopravvenienze attive derivanti dalla rinuncia dei soci ad ogni forma di credito verso la società partecipata, a prescindere dalla natura di tale credito (e.g., finanziaria ovvero commerciale). Alla luce della modifica normativa in parola, la circolare ministeriale n. 73 del 1994 (la “Circolare n. 73/1994”) ebbe modo di specificare che:
- tutti i crediti ai quali il socio rinuncia vanno portati ad aumento del costo della partecipazione e non costituiscono sopravvenienza attiva in capo alla società esdebitata, e
- la rinuncia ai crediti correlati a redditi che vanno acquisiti a tassazione per cassa (quali, ad esempio, i compensi spettanti agli amministratori e gli interessi relativi ai finanziamenti dei soci) presuppone l’avvenuto incasso giuridico del credito, e quindi l’obbligo di sottoporre a tassazione il loro ammontare, anche mediante applicazione della ritenuta d’imposta.
Ancorché non esplicitamente chiarito nella Circolare n. 73/1994, l’amministrazione finanziaria avrebbe fondato tali conclusioni sul fatto che l’estensione dell’area di irrilevanza fiscale della rinuncia dei soci a crediti di qualsiasi natura ([1]) avrebbe comportato un “salto d’imposta” in tutti quei casi di rinuncia a crediti correlati ad elementi di reddito deducibili secondo il principio di competenza (per il debitore), e tassabili secondo il principio di cassa (per il creditore). Invero, tali operazioni avrebbero comportato un duplice effetto: da un lato, la non emersione di una sopravvenienza attiva tassabile in capo alla società partecipata e, dall’altro, l’aumento del costo fiscale della partecipazione in capo al socio, senza immediata creazione di materia imponibile. Applicando la teoria dell’incasso giuridico, invece, la rinuncia al credito produce i medesimi effetti fiscali conseguenti all’incasso del credito e al riversamento della somma corrispondente a titolo di apporto di capitale. In altri termini, tale tesi comporterebbe che l’atto di rinuncia al credito da parte del socio sia equiparato all’atto di disposizione e di godimento del credito medesimo, in quanto la rinuncia postulerebbe che il credito sia entrato preventivamente nella sfera giuridica di disponibilità del socio rinunciante, valorizzando in tal modo l’autonomia del potere di disposizione del credito ([2]).
La tesi erariale ha dovuto conciliarsi (e provare a convivere) con le modifiche introdotte dal decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 147 (“Decreto Internazionalizzazione”), che è intervenuto per eliminare l’effetto di asimmetria nel caso di rinuncia dei soci ai propri crediti che avrebbero potuto generarsi per effetto della disciplina previgente. Come già evidenziato, nella disciplina antecedente al Decreto Internazionalizzazione, la rinuncia al credito da parte del socio si qualificava come un conferimento non imponibile presso la società debitrice. Allo stesso tempo, la non imponibilità della rinuncia avrebbe creato un salto d’imposta nei casi in cui il credito fosse stato oggetto di precedenti svalutazioni o di perdite fiscalmente dedotte. Ciò in quanto il minor valore fiscale del credito sarebbe stato trasferito sulle partecipazioni e, in presenza dei requisiti per l’applicazione del regime di participation exemption di cui all’articolo 87 del TUIR, il successivo realizzo non avrebbe comportato l’emersione di corrispondenti maggiori plusvalenze. In tal modo, le svalutazioni o le perdite su crediti sarebbero divenute definitive.
Ragionando sulle modalità legislative per ripristinare la simmetria fiscale, un possibile intervento normativo avrebbe potuto equiparare gli effetti della rinuncia a quelli prodotti in caso di rimborso integrale del credito rinunciato e di contestuale conferimento di tale somma in favore della partecipata (al pari, appunto, di quanto previsto nel caso di “incasso giuridico”). In tale ipotesi, la differenza tra il valore nominale del credito e il relativo valore fiscale sarebbe stata assoggettata a tassazione, consentendo quindi di recuperare a tassazione le perdite dedotte in precedenza ([3]).
Il legislatore ha tuttavia previsto che il ripristino della simmetria – e quindi il recupero delle perdite dedotte – debba avvenire in capo alla società debitrice. In dettaglio, il Decreto Internazionalizzazione:
- ha introdotto l’articolo 88, comma 4-bis, del TUIR, che qualifica come sopravvenienze attive le rinunce dei soci ai crediti per la parte che eccede il relativo valore fiscale,
- ha modificato l’articolo 94, comma 6, del TUIR, prevedendo che l’ammontare della rinuncia ai crediti nei confronti della società dagli stessi soci, nei limiti del valore fiscale del credito oggetto di rinuncia, si aggiunge al costo dei titoli e delle quote, e
- parallelamente, ha modificato l’articolo 101, comma 7, del TUIR, prevedendo che le rinunce dei soci ai crediti non sono ammesse in deduzione ed il relativo ammontare, nei limiti del valore fiscale del credito oggetto di rinuncia, si aggiunge al costo della partecipazione.
Come si rileva dalla relazione illustrativa al Decreto Internazionalizzazione, l’intenzione del legislatore sottesa alle modifiche normative in esame muove dalla volontà di ricondurre a unità il regime fiscale IRES delle rinunce a crediti da parte dei soci, a prescindere dalla modalità con cui l’operazione viene formalmente svolta ovvero dai principi contabili utilizzati dai soggetti coinvolti, ed eliminare così gli effetti di asimmetria tra i valori fiscali che potevano giustificare (sul piano concettuale, pur in assenza di un dato normativo esplicito) l’applicazione della teoria dell’incasso giuridico ([4]).
In questo senso, la norma appare difficilmente conciliabile con la tesi dell’incasso giuridico dei crediti oggetto di rinuncia relativi a componenti tassati per cassa. Infatti, secondo l’articolo 88, comma 4-bis, del TUIR, ai fini fiscali la rinuncia non determina l’incasso del valore nominale del credito ma l’effettuazione di un conferimento pari al suo valore fiscale ([5]).
Nonostante le modifiche normative intervenute medio tempore, l’Agenzia delle Entrate ha continuato ad applicare la teoria dell’incasso giuridico, sia in fase di accertamento, sia nei documenti di prassi pubblici. In particolare, nella Risoluzione n. 124 del 2017, l’Agenzia ha riaffermato il principio già contenuto nella Circolare n. 73 del 1994, secondo cui: «nel caso […] in cui gli amministratori soci hanno rinunciato alle quote di TFM accantonate dalla società istante patrimonializzando la stessa, i crediti rinunciati – che si intendono giuridicamente incassati – dovranno essere assoggettati a tassazione in capo ai soci persone fisiche non imprenditori, con conseguente obbligo di effettuazione della ritenuta alla fonte».
Similmente, fino al 2022 la Corte di Cassazione si è allineata all’Amministrazione Finanziaria in tema di incasso giuridico, confermando che la rinuncia al credito da parte del socio produce i medesimi effetti fiscali conseguenti all’incasso del credito da parte del socio e al riversamento della somma corrispondente a titolo di apporto di capitale. Sul punto, è importante osservare che le pronunce della Suprema Corte hanno avuto ad oggetto rinunce a crediti correlati sia ad elementi di reddito deducibili per il debitore secondo il principio di competenza e tassabili per il creditore secondo il principio di cassa, come gli interessi su finanziamenti ([6]) o le royalties ([7]), sia a debiti derivanti da costi deducibili solo se effettivamente pagati, come i compensi spettanti agli amministratori ([8]) ([9]).
Nelle sentenze menzionate, la Corte di Cassazione ha costantemente affermato che l’atto di remissione del debito presuppone logicamente la disponibilità del credito da parte del socio. In particolare, il credito non materialmente “incassato” deve essere comunque considerato come “utilizzato” per effetto dell’atto di disposizione avente natura di rinuncia in favore della società. La finalità di questa tesi, secondo la Suprema Corte, si ravvede nell’esigenza di prevenire possibili “salti d’imposta” derivanti dallo sfasamento temporale della deducibilità (per competenza) del costo sostenuto dalla società partecipata e l’imponibilità (per cassa) del provento in capo al socio persona fisica non imprenditore.
Ferme restando le posizioni assunte da prassi e giurisprudenza anche a seguito delle modifiche introdotte dal Decreto Internazionalizzazione, la dottrina ha continuato a sostenere ([10]) che la teoria dell’incasso giuridico debba essere esclusa:
- in generale, in quanto rimedio ad una (asserita) mancanza di simmetria del sistema fiscale non disciplinato da alcuna norma positiva, ma introdotta dall’amministrazione finanziaria in via interpretativa, e
- in particolare, in tutti i casi in cui non sia configurabile un salto d’imposta, ovverosia quando la società non ha effettuato delle deduzioni per competenza. Esempi in tal senso sono:
- i compensi dei soci-amministratori, rilevanti solo al momento dell’effettivo pagamento,
- i debiti non derivanti da un costo, quali quelli relativi a dividendi già deliberati ed iscritti a debito dalla società ma rinunciati dai soci per capitalizzare la società ([11]), e
- ùle rinunce del credito da parte di soci in regime d’impresa.
Tuttavia, con la sentenza n. 16595 del 2023, la Corte di Cassazione – pronunciandosi in merito a fatti successivi all’entrata in vigore del Decreto Internazionalizzazione – ha riconosciuto per la prima volta che le sopravvenute modifiche agli articoli 88, 94 e 101, del TUIR, implicano il necessario superamento della teoria dell’incasso giuridico.
In particolare, in base al nuovo orientamento della Corte di Cassazione ([12]): «la rinuncia di un credito avente valore fiscale pari a zero, come per i crediti legati ad un reddito tassato per cassa, non incrementa il valore fiscale della partecipazione, diversamente da quanto prospettato nel precedente regime sia dall’Agenzia delle Entrate che da questa Corte a sostegno della teoria dell’incasso giuridico. Di contro, detta rinuncia comporta la tassazione integrale della sopravvenienza attiva in capo alla società partecipata». Ne consegue che la rinuncia, operata da un socio nei confronti della società partecipata, a un credito relativo a un reddito tassato per cassa (quali gli interessi maturati su finanziamenti) non comporta l’obbligo di sottoporre a tassazione il relativo ammontare in capo al socio, con conseguente esclusione anche dell’eventuale ritenuta (quale quella prevista dall’articolo 26, comma 5, del D.P.R. n. 600 del 1973, applicabile ai casi delle sentenze menzionate).
3. Critica alla tesi della “sopravvivenza” dell’incasso giuridico come ribadito nella recente Risposta 59/2025
La sentenza n. 16595 del 2023 sembrava aver definitivamente dichiarato la fine della tesi dell’incarico giuridico. Invece, l’amministrazione finanziaria ne ha confermato la sopravvivenza nella recentissima Risposta 59/2025, la quale affronta un caso di parziale revoca di una distribuzione di dividendi deliberata a causa di «fatti ed eventi che ne hanno consigliato il rinvio», da cui è scaturito il ripristino della riserva straordinaria per l’importo dei dividendi rinunciati. A tal proposito, l’istante ha chiesto di confermare che il dividendo rinunciato (i) non costituisce sopravvenienza attiva imponibile ai fini IRES in capo alla società debitrice poiché tale dividendo ha origine in “un debito privo di componente economica generatore del passivo” ([13]), e (ii) non debba determinare un evento tassabile in capo al socio rinunciante sulla base della tesi dell’incasso giuridico.
Sul punto, l’Agenzia delle Entrate – rifacendosi ad alcuni precedenti ([14]) – afferma che:
- il regime previsto per la rinuncia dei soci ai propri crediti qualifica fiscalmente come “apporto” la sola parte di rinuncia che corrisponde al valore fiscalmente riconosciuto del credito. L’eccedenza, invece, costituisce per la società debitrice partecipata una sopravvenienza attiva imponibile, a prescindere dal relativo trattamento contabile,
- scopo del citato comma 4-bis è quello di evitare, sul piano fiscale, distorsioni dovute alla mancata coincidenza tra il valore nominale dei crediti e il loro valore fiscale (per esempio, per effetto di svalutazione/perdita fiscalmente deducibile), ravvisabili in presenza di un’attività d’impresa,
- pertanto, laddove la rinuncia ai dividendi sia operata da una persona fisica non esercente attività di impresa, si avrà una coincidenza tra il valore fiscale del dividendo e il suo valore nominale, con la conseguente insussistenza di una sopravvenienza attiva imponibile ai fini IRES ([15]),
- infine, “considerato, inoltre, che i dividendi oggetto di rinuncia sono stati deliberati dall’Assemblea dei soci con verbale del […] 2021 e che da tale delibera è sorto il diritto di credito dei soci alla distribuzione si ritiene, per le ragioni su esposte, che detti dividendi siano da considerare giuridicamente incassati e, quindi, da assoggettare a ritenuta a titolo di imposta nella misura del 26 per cento ai sensi dell’articolo 27 del d.P.R. n. 600 del 1973” (enfasi aggiunta).
La Risposta n. 59/2025 afferma, pertanto, che i dividendi rinunciati debbano essere tassati non già in capo alla società debitrice, e ciò per effetto dell’identità tra il valore nominale e fiscale degli stessi, ma presso i soci rinuncianti, e ciò per effetto dell’applicazione della tesi dell’incasso giuridico (pur in assenza di un salto d’imposta da correggere).
Le conclusioni a cui giunge l’amministrazione finanziaria destano non poche perplessità. Certamente la Risposta n. 59/2025 pone l’attenzione sull’importanza di individuare il corretto valore fiscale del credito oggetto di rinuncia. La questione è di estremo interesse, dal momento che l’articolo 88, comma 4-bis, del TUIR, attribuisce rilevanza tributaria a componenti di reddito da determinare in riferimento al valore fiscale del credito comunicato dal socio, ma non contiene una definizione di “valore fiscale” da applicare ai fini della sua quantificazione.
In questo contesto, la posizione assunta dal Fisco nella Risposta n. 59/2025, secondo cui il valore fiscale del credito sarebbe uguale al suo valore nominale perché rinunciato da una persona fisica non esercente attività di impresa, introduce una nozione di valore fiscale variabile a seconda del soggetto in capo al quale il credito rinunciato è sorto. Diversamente, la dottrina è concorde nel ritenere che il valore fiscale di un credito debba essere riconosciuto solo dopo che il ricavo a cui tale credito è correlato sia stato tassato, ovvero quando il credito derivi da un esborso di denaro (come nel caso della quota capitale di un finanziamento). Quando queste condizioni non si verificano, il valore del credito dovrebbe essere pari a zero. Da questo punto di vista, la rinuncia del socio ad un credito avente valore fiscale pari a zero comporterebbe, da un lato, l’insorgere di una sopravvenienza attiva in capo alla società equivalente all’intero valore nominale del credito, e dall’altro nessun effetto sul costo fiscale della partecipazione del socio.
Risulta evidente che entrambe le posizioni (da una parte, quella della dottrina e della giurisprudenza e, dall’altra, quella del Fisco) non risultano pienamente appaganti. Infatti, la conclusione della dottrina fondata sull’autosufficienza dell’articolo 88, comma 4-bis, del TUIR ([16]) consente di ripristinare la simmetria fiscale introducendo un correttivo – non previsto dalla norma in commento – che agisce sul valore fiscale dei crediti relativi a ricavi o proventi tassabili per cassa. Tale meccanismo incontra però un limite nel valore fiscale di quei crediti che, sebbene relativi a proventi per cassa, non danno origine a costi deducibili (quali appunto i dividendi).
Dall’altra parte, anche la posizione dell’amministrazione finanziaria incontra dei limiti perché fa un uso distorto della tesi dell’incasso giuridico in uno scenario come quello della rinuncia crediti per dividendi, in cui non si assiste ad alcun salto d’imposta “perché il salto d’imposta può verificarsi solo se il socio rinuncia a somme che sono state dedotte dal reddito della società, cosa che non si verifica con i dividendi”[17].
In questi casi, la soluzione più idonea per evitare effetti distorsivi e lesivi dei principi di simmetria e capacità contributiva – sebbene non perfettamente allineata con le disposizioni dell’articolo 88, comma 4-bis, del TUIR – consisterebbe nel trattare la rinuncia al credito per dividendi precedentemente deliberati come priva di conseguenze fiscali, sia per il socio che per la società. Coerentemente, gli importi rinunciati riacquisterebbero la natura originaria di riserve di utili e, in caso di una successiva distribuzione, saranno assoggettati a tassazione secondo le regole ordinariamente applicabili al soggetto percipiente.
Come raggiungere tale risultato considerato che – allo stato attuale – la disposizione recata dall’articolo 88, comma 4-bis, del TUIR non è suscettibile di disapplicazione né può essere oggetto di interpello c.d. antiabuso ([18])?
Si potrebbe anzitutto introdurre la nozione di valore fiscale nell’ambito del citato comma 4-bis ([19]), specificando che per i crediti relativi a ricavi/proventi tassabili per cassa il relativo valore fiscale è nullo. Inoltre, andrebbe chiarito che la citata disposizione ha natura antielusiva e pertanto suscettibile di essere disapplicata presso la società debitrice nelle ipotesi in cui la rinuncia ai crediti non genera un salto d’imposta ([20]). Chiarita la finalità antielusiva dell’articolo 88, comma 4-bis, del TUIR, il ricorso alla tesi dell’incasso giuridico diverrebbe superfluo.
4. Le rinunce al credito nel contesto della crisi d’impresa
Una rilevante conseguenza derivante dal contrasto applicativo tra la tesi dell’incasso giuridico e le disposizioni dell’articolo 88, comma 4-bis, del TUIR, riguarda i soggetti titolati a beneficiare del regime di cui all’articolo 88, comma 4-ter, del TUIR. Tale disposizione, come noto, consente la detassazione totale (nel caso di procedure liquidatorie) o parziale (nel caso di procedure aventi finalità di risanamento) delle sopravvenienze attive derivanti da “riduzione dei debiti dell’impresa” in sede di una delle procedure disciplinate dal decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14 (noto come “Codice della Crisi e dell’Insolvenza”, “CCII“). In particolare ([21]):
- non si considerano sopravvenienze attive le riduzioni dei debiti dell’impresa in sede di concordato fallimentare ([22]), di concordato preventivo liquidatorio (oggi all’articolo 84, comma 4, CCII), e di procedure estere equivalenti, previste in Stati o territori con i quali esiste un adeguato scambio di informazioni,
- non costituiscono sopravvenienze attive le riduzioni dei debiti dell’impresa – per la parte che eccedono le perdite fiscali (pregresse e di periodo), le eccedenze relative all’aiuto alla crescita economica, gli interessi passivi e gli oneri finanziari assimilati indeducibili – in caso di concordato di risanamento (oggi all’articolo 84, comma 3, CCII), di accordo di ristrutturazione dei debiti omologato (oggi agli articoli 57, 60 e 61, CCII), piano attestato (oggi all’articolo 56, CCII – sul punto, Risposta n. 222 del 2024), e di procedure estere equivalenti. Inoltre, ai sensi dell’articolo 25-bis, CCII, lo stesso trattamento fiscale si applica anche ai contratti e agli accordi di cui all’articolo 23, comma 1, lettere a) e c), CCII, stipulati ad esito di una composizione negoziata della crisi.
Infine, come previsto dall’ultimo periodo dell’articolo 88, comma 4-ter, del TUIR, il regime di detassazione totale o parziale delle sopravvenienze attive in oggetto si applica anche alle operazioni di rinuncia dei soci ai crediti di cui all’articolo 88, comma 4-bis, del TUIR.
Tanto premesso, si ipotizzi il caso di un socio persona fisica non esercente un’attività d’impresa, ovvero una società non residente priva di stabile organizzazione in Italia, che abbia maturato (ma non incassato) interessi in relazione a un finanziamento nei confronti di una società residente in Italia (ovvero avente una stabile organizzazione in Italia a cui il finanziamento è connesso). In ipotesi di rinuncia al suddetto credito rientrante nell’ambito di applicazione dell’articolo 88, comma 4-ter, del TUIR gli effetti fiscali sarebbero i seguenti:
- alla luce dei chiarimenti resi nella Risposta n. 59/2025, l’Agenzia delle Entrate avrebbe spazio per invocare la teoria dell’incasso giuridico ed applicare la ritenuta del 26% (ai sensi dell’articolo 26, comma 5, del D.P.R. n. 600 del 1973) sull’ammontare degli interessi rinunciati,
- viceversa, il socio avrebbe interesse a ricorrere al combinato disposto dei commi 4-bis e 4-ter dell’articolo 88, del TUIR, per argomentare che la rinuncia al credito per interessi comporta l’insorgere di una sopravvenienza attiva in capo alla società partecipata ai sensi del comma 4-bis, e che tale sopravvenienza può beneficiare del regime di detassazione totale o parziale di cui al comma 4-ter. In questi casi, il socio rinunciante potrebbe appellarsi ai principi sanciti dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 16595 del 2023 per supportare il proprio comportamento tributario.
5. Conclusioni
Il trattamento fiscale della rinuncia dei soci ai crediti continua a presentare numerosi profili di incertezza, come emerso osservando il contrasto interpretativo tra le più recenti pronunce giurisprudenziali ([23]) e le diverse conclusioni raggiunte dall’Agenzia delle Entrate nei propri documenti di prassi ([24]).
Fermo restando che, in assenza di un fondamento normativo positivo, la teoria dell’incasso giuridico non può rappresentare il rimedio ad una asserita mancanza di simmetria del sistema fiscale, nemmeno l’attuale disciplina fiscale applicabile alle rinunce dei soci ai crediti può dirsi priva di criticità:
- da una parte, l’articolo 88, comma 4-bis, del TUIR, ha il pregio di attribuire correttamente il carico impositivo delle rinunce dei soci ai crediti, comportando l’insorgere di una sopravvenienza attiva in capo alla società beneficiaria anziché di un reddito imponibile in capo al socio rinunciante. Tuttavia, tale effetto è circoscritto ai casi in cui il credito rinunciato è correlato a un ricavo tassato o ad un esborso di denaro,
- parimenti, è coerente con il vigente modello di tassazione delle rinunce dei soci ai crediti l’impostazione assunta dalla Suprema Corte nella sentenza n. 16595 del 2023, laddove ha stabilito che il valore fiscale dei crediti correlati ad elementi di reddito deducibili secondo il principio di competenza (per il debitore) e tassabili secondo il principio di cassa (per il creditore) è pari a zero, e che pertanto la rinuncia dei soci a tali crediti comporta l’insorgere di una sopravvenienza attiva in capo alla società beneficiaria. Invero, tale effetto consente di neutralizzare il beneficio delle precedenti deduzioni per competenza,
- dall’altra parte, quando i crediti rinunciati sono correlati ad elementi di reddito per i quali la società non ha effettuato delle deduzioni per competenza, la rinuncia dei soci non comporta alcun salto d’imposta. Ne consegue che, in questi casi, il ricorso all’articolo 88, comma 4-bis, del TUIR (così come, alternativamente, alla teoria dell’incasso giuridico) conduce a paradossali ed ingiustificati effetti di doppia imposizione o di imposizione senza deduzione. Esempi in tal senso sono proprio quelli oggetto dei chiarimenti di prassi dell’Agenzia delle Entrate, quali la Risoluzione n. 124/E del 2017 sulla rinuncia operata dai soci-amministratori al trattamento di fine mandato, o la più recente Risposta 59/2025 sulla rinuncia da parte dei soci a dividendi già deliberati ed iscritti a debito dalla società.
Alla luce del significativo grado di incertezza interpretativa destato dalla recente Risposta n. 59/2025, si ritiene più che mai necessario un intervento legislativo volto a correggere gli effetti distorsivi ancora presenti nell’ordinamento tributario in relazione ad alcune ipotesi di rinunce dei soci ai crediti, e che passa necessariamente dall’introduzione di una nozione univoca di “valore fiscale” ai fini dell’articolo 88, comma 4-bis, del TUIR e dalla precisazione che tale disposizione ha finalità prettamente antielusiva, e come tale suscettibile di disapplicazione in assenza di effetti di “asimmetria” fiscale.
[1] Prima delle modifiche introdotte dal D.L. 30 dicembre 1993, n. 557, la disciplina si applicava solamente ai crediti derivanti da precedenti finanziamenti,
[2] Nello stesso senso si è espressa l’Assonime sostenendo che “l’eventuale rinuncia del socio ad un credito derivante, ad esempio, da una cessione di merci alla società, produce risultati perfettamente equivalenti, sia in capo al socio che in capo alla società, a quelli che si determinerebbero nell’ipotesi in cui le merci formassero sin dall’origine oggetto di apporto e non di cessione: in tal caso, infatti, nessuno dubiterebbe della rilevanza fiscale per la società del costo delle merci riconosciuto in sede di apporto, ancorché la società non abbia in concreto sostenuto alcun esborso per il loro acquisto” (circ. n. 42 del 1994, p. 44).
[3] Dallo stesso socio ovvero, nel caso di acquisto del credito, dal suo dante causa.
[4] Invero, come si legge nella relazione illustrativa al Decreto Internazionalizzazione: “tanto per le operazioni di rinuncia diretta a crediti originariamente sorti in capo al socio, quanto per quelle precedute dall’acquisto del credito (o della partecipazione) da parte del socio (o del creditore), il nuovo regime qualifica fiscalmente “apporto” la sola parte di rinuncia che corrisponde al valore fiscalmente riconosciuto del credito. Nei limiti di tale valore, infatti, il socio aumenta il costo della partecipazione e il soggetto partecipato rileva fiscalmente un apporto. L’eccedenza, invece, costituisce per il debitore partecipato una sopravvenienza imponibile a prescindere dal relativo trattamento contabile. Viene così equiparata l’operazione di apporto da parte del socio e successivo saldo e stralcio del debitore partecipato con il creditore, con l’operazione di previa acquisizione del credito da parte del socio e successiva rinuncia. Analogo trattamento viene previsto nei casi di operazioni di conversione del credito in partecipazioni, a prescindere dalla modalità seguita per il loro compimento (quindi sia se realizzate mediante sottoscrizione dell’aumento di capitale con compensazione ovvero mediante altre operazioni) e dai regimi contabili adottati dai soggetti coinvolti”.
[5] Il citato comma 4-bis prevede, inoltre, che tale approccio si applica anche nel caso di conversione del credito in partecipazioni o strumenti partecipativi – ovverosia anche quando il creditore divenga socio contestualmente alla rinuncia – e, ciò a prescindere dai principi contabili adottati e dall’impostazione contabile seguita per rappresentare gli effetti dell’operazione. La particolarità è che, stando alla lettera della norma, in questa fattispecie occorre tener conto del valore fiscale del credito al netto delle perdite che emergono dalla conversione stessa. Sicché, si legge nella Relazione illustrativa, le perdite “che risultano deducibili al momento della conversione comportano anch’esse una sopravvenienza tassabile in capo al debitore”.
[6] Corte di Cassazione, sentenze n. 7636 del 2017 e n. 20257 del 2020.
[7]Corte di Cassazione, sentenza n. 26842 del 2014.
[8] Corte di Cassazione, sentenze n. 12222 e 12223 del 2022, e n. 1335 del 2016.
[9] Si evidenzia che le sentenze menzionate si riferiscono a fatti avvenuti nel corso di periodi di imposta antecedenti alle modifiche introdotte dal Decreto Internazionalizzazione.
[10] Ex multis, la questione è stata oggetto della Norma di Comportamento n. 201 del 2018, pubblicata dall’Associazione Italiana Dottori Commercialisti (AIDC).
[11] Sul punto, con sentenza n. 19 del 2020, la Commissione Tributaria Regionale del Friuli-Venezia Giulia si era espressa a favore del contribuente, escludendo l’applicabilità dell’incasso giuridico ad un caso di prescrizione del credito derivante dai dividendi deliberati e non distribuiti.
[12] Tale orientamento è stato di recente confermato anche dalla Corte di Giustizia Tributaria della Lombardia, sentenza n. 465 del 2025
[13] L’istante afferma, inoltre, che «la riserva patrimoniale formatasi per destinazione del dividendo rinunciato dal socio persona fisica non imprenditore riprende i medesimi connotati tributari della riserva straordinaria dalla quale i dividendi provenivano» (sempre in linea con l’OIC 28).
[14] Circolare n. 73/1994 e Risoluzione n. 124 del 2017.
[15] Se l’Agenzia delle Entrate si orienta nel senso di ritenere che il valore fiscale del credito del socio non è rilevante per il socio persona fisica non imprenditore (ciò in quanto l’articolo 88, comma 4-bis, del TUIR, sarebbe stato introdotto per correggere asimmetrie ravvisabili solo in presenza di un’attività d’impresa), allora gli stessi principi contenuti nella Risposta n. 59/2025 dovrebbero ritenersi applicabili anche ai soggetti non residenti per effetto dell’articolo 23 del TUIR.
Ancorché non del tutto condivisibile, tale impostazione è coerente con alcuni documenti di prassi in tema di rinuncia del socio non residente al credito verso una partecipata italiana, nei quali l’Agenzia delle Entrate ha sancito il principio secondo cui il rispetto del principio di simmetria deve essere assicurato anche a livello internazionale, tenendo conto – se rilevante ai fini dell’applicazione di una norma domestica – del comportamento fiscale adottato dai soggetti non residenti ai sensi delle norme dell’ordinamento di residenza (su tutte, Risposta n. 887 del 2021 e Risposta n. 138 del 2022).
In tal senso, assume particolare rilievo il chiarimento contenuto nella Risposta n. 138 del 2022, laddove l’Agenzia delle Entrate ha affermato che: “Per quanto riguarda l’ipotesi prospettata di presenza di soggetti (creditori) non residenti al momento della conversione dei crediti in partecipazioni, si ritiene che in tal caso il valore del credito (di titolarità del non residente) oggetto di conversione da prendere in considerazione ai fini dell’applicazione del disposto del menzionato comma 4-bis coincida col valore fiscalmente assunto o riconosciuto da questo nell’ambito della giurisdizione fiscale di appartenenza del soggetto titolare del credito. Ciò in quanto, da un lato, il richiamato comma 4-bis non contiene alcuna eccezione alla regola della generale tassazione della sopravvenienza attiva derivante dalla riduzione dei debiti mediante conversione dei crediti in strumenti partecipativi (a prescindere dalla residenza del soggetto titolare del credito) e, da un altro lato, la necessità di assicurare un criterio di simmetria anche a livello internazionale per la tassazione delle sopravvenienze attive nelle fattispecie in esame (stante, peraltro, la circostanza che la modifica al citato comma 4-bis è stata inserita in un decreto legislativo il quale, come evidenziato nella sua relazione illustrativa […] interviene, tra l’altro, nella semplificazione delle operazioni transnazionali anche per evitare distorsioni)”.
[16] L’autosufficienza della disposizione in commento esclude quindi il ricorso alla tesi dell’incasso giuridico in chiave integrativa.
[17] Commissione tributaria regionale del Friuli-Venezia Giulia, n. 19/1/2020.
[18] Come evidenziato dalla dottrina, la relazione illustrativa al Decreto Internazionalizzazione precisa che “le disposizioni del comma 4-bis non hanno natura antielusiva, per cui non sono suscettibili di disapplicazione” (G. Andreani – A. Tubelli, Transazione fiscale e crisi d’impresa, 2020, Wolters Kluwer Italia, pag. 268). In sostanza, la scelta di sistema è quella di legare gli effetti fiscali della rinuncia in capo al debitore alla luce di ciò che è accaduto in capo al socio creditore (originario e/o subentrato).
[19] Applicabile anche ai fini degli articoli 94, comma 6 e 101, comma 7, del TUIR.
[20] La doppia imposizione derivante dalla tassazione della sopravvenienza attiva pur in assenza di una deduzione (dell’importo dei dividendi rinunciati) verrebbe rimossa attraverso la presentazione di un interpello disapplicativo ai sensi dell’articolo 11, comma 1, lett. d), della L. 212/2000, dimostrando che l’effetto elusivo non si produce nel caso di specie.
[21] All’introduzione del CCII e dei nuovi istituti per la gestione della crisi e dell’insolvenza ivi disciplinati non ha ancora fatto seguito una modifica delle norme del TUIR che ancora rinviano alla previgente Legge Fallimentare (R.D. 16 marzo 1942, n. 267). Tale riforma è contemplata all’articolo 9, comma 1, lettera a), della Legge 9 agosto 2023, n. 111, contenente la delega al Governo per la riforma fiscale. Al momento, tuttavia, questo specifico aspetto della delega non è ancora stato oggetto di alcun decreto legislativo di implementazione.
[22] Non è mai stato oggetto di chiarimenti pubblici da parte dell’Agenzia delle Entrate se il concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio di cui all’articolo 25-sexies, CCII, possa essere assimilato ad una procedura di concordato fallimentare.
[23] Su tutti, Corte di Cassazione, sentenza n. 16595 del 2023.
[24] Da ultimo, la Risposta 59/2025.