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Attualità

Repêchage: una storia senza fine

4 Dicembre 2023

Fabrizio Morelli, Partner, Responsabile del Dipartimento di Diritto del Lavoro, DLA Piper

Davide Maria Testa, Avvocato, DLA Piper

Di cosa si parla in questo articolo

Il presente contributo analizza la sentenza n. 31561/2023 della Corte di Cassazione che si sofferma sul mancato assolvimento dell’obbligo di repêchage, che costituisce l’obbligo per il datore di lavoro di valutare, prima del licenziamento del lavoratore in esubero o non più idoneo, tutte le possibili riallocazione all’interno dell’azienda.


1. Introduzione

La Corte di Cassazione si è pronunciata in merito ad un altro caso di (mancato) assolvimento dell’obbligo c.d. di repêchage da parte di un datore di lavoro (locale) che, a seguito di un periodo di chiusura forzata causata da un incendio, alla riapertura del locale, ha licenziato per giustificato motivo oggettivo una propria dipendente in quanto “il posto di cassiera fissa è stato soppresso”.

Tutto coerente fin qui, se non fosse che, con tempistiche molto ravvicinate al licenziamento, il datore di lavoro ha proceduto a una serie di assunzioni per altri ruoli all’interno del locale.

L’iter processuale di merito non è stato ispirato dalla linearità decisionale. Infatti, a seguito di due accoglimenti in fase monitoria (Fornero) e primo grado, la Corte d’Appello di Roma ha respinto l’impugnativa del licenziamento per giustificato motivo oggettivo rilevando, tra le altre, che fosse provato che la lavoratrice “avesse sempre e soltanto svolto mansioni di cassiera e giammai di addetta al bancone o ai tavoli, le uniche mansioni rimaste dopo la riorganizzazione aziendale successiva all’incendio” e che a nulla rilevasse la circostanza per cui molteplici qualifiche vengano dal ccnl applicato riferite al medesimo livello di inquadramento.

Ciò, a parer della Corte dovrebbe considerarsi “del tutto neutra, ossia non significativa, ai fini della fungibilità delle relative mansioni” (intesa come “possibilità tecnico-giuridica di espletare altre mansioni, per le quali sia sufficiente il bagaglio professionale già posseduto, dunque riutilizzabile senza necessità di ulteriore formazione, né, tantomeno, di riqualificazione professionale”).

Orbene, la Corte di Cassazione non è stata del medesimo avviso e non ha condiviso le motivazioni addotte dalla Corte territoriale.

2. Focus sul repêchage: la decisione della Corte di Cassazione

Con riguardo al caso di specie, una volta accertato che il datore di lavoro ha proceduto “ad una serie di assunzioni contestualmente o in periodo prossimo al licenziamento”, a parer dei Giudici di Cassazione, sarebbe stato necessaria, nel rispetto dell’obbligo di repêchage, una valutazione maggiormente approfondita sulle capacità professionali del lavoratore in esubero in modo tale da ipotizzare l’adibizione a diverse mansioni e salvaguardare il posto di lavoro.

Infatti, la verifica in ordine alla incapacità professionale del soggetto licenziato di svolgere le mansioni oggetto delle nuove assunzioni, anche se inferiori, avrebbe dovuto essere effettuata in concreto, “sulla base di circostanze oggettivamente riscontrabili allegate dal datore ed avuto riguardo alla specifica condizione ed alla intera storia professionale di un ben individuato lavoratore”.

Non basta, dunque, una riflessione “astratta” sul (diverso) bagaglio professionale del lavoratore licenziato.

In merito, partendo dalla lettera dell’art. 2103, comma 2, c.c. che prevede che “in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore purché rientranti nella medesima categoria legale”, i Giudici di Cassazione hanno osservano che la legge consente l’assegnazione a mansioni inferiori, “anche a prescindere dal consenso del lavoratore”, nel caso di modifiche organizzative aziendali “tra le quali non può certo escludersi la soppressione del posto che incide sulla posizione di un determinato lavoratore tanto da candidarlo al licenziamento”.

In tale contesto normativo di riferimento, nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, i livelli di inquadramento predisposti dalla contrattazione collettiva non possono rappresentare “una circostanza muta di significato”, ma, al contrario, dovrebbero costituire l’elemento di sprone per il giudice che di volta in volta dovrà “accertare in concreto se chi è stato licenziato fosse o meno in grado – sulla base di circostanze oggettivamente verificabili addotte dal datore ed avuto riguardo alla specifica formazione ed alla intera esperienza professionale del dipendente – di espletare le mansioni di chi è stato assunto ex novo, sebbene inquadrato nello stesso livello o in livello inferiore”. E ciò, può dedursi, ai fini di salvaguardia di un posto di lavoro anche in casi di inevitabile soppressione di posizione lavorativa.

La particolarità che sorge immediatamente all’occhio è data dal fatto che, ancora a distanza di tempo ed a valle di molteplici pronunce sul tema, al centro dell’attenzione è ancora una volta la portata estensiva del c.d. repêchage e la sua funzione di perno sempre più spiccata ai fini decisionali per illegittimità o meno di un licenziamento.

Il tutto, chiaramente, mosso dal principio del privilegio del male minore: in altre parole, meglio diverse mansioni, seppur inferiori, che senza lavoro.

Ripercorrendo la storia giurisprudenziale tanto recente quanto consolidata, infatti, spetta al datore di lavoro l’onere assoluto di allegazione e prova dell’impossibilità di repêchage del dipendente licenziato (Cass. n. 5592/2016); trattandosi di prova negativa, è frequente che l’onere del datore di lavoro si sostanzi nella dimostrazione che in concomitanza e/o successivamente al licenziamento, per un congruo periodo, non sono avvenute nuove assunzioni oppure sono state effettuate per mansioni richiedenti una professionalità non posseduta dal prestatore (Cass. n. 6497/2021).

Partendo da questo assunto più immediato, la Cassazione ha rassegnato a largo spettro ulteriori orientamenti affermatisi in passato su vicende simili.

Ad esempio, analizzando la Cass. S.U. n. 7755/1998 si è affermato il principio per il quale “la permanente impossibilità della prestazione lavorativa può oggettivamente giustificare il licenziamento L. n. 604 del 1966, ex articolo 3 sempre che non sia possibile assegnare il lavoratore a mansioni non solo equivalenti, ma anche inferiori”. Tale principio posa sul criterio di prevalenza “dell’interesse del lavoratore al mantenimento del posto di lavoro, rispetto alla salvaguardia di una professionalità che sarebbe comunque compromessa dall’estinzione del rapporto”.

Tanto è che seppur originariamente affermato specificamente con riguardo ai casi di sopravvenuta infermità permanente (Cass. sopra cit.), tale principio è stato poi esteso anche ad ulteriori ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo dovute a soppressione del posto di lavoro in seguito a riorganizzazione aziendale, ravvisandosi, chiaramente, le medesime esigenze – prevalenti – di tutela della conservazione del posto di lavoro (Cass. n. 21579/2008; Cass. n. 4509/2016; Cass. n. 29099/2019; Cass. n. 31520/2019).

Ne è derivata una conseguenza di ampia portata sul piano d’azione del datore di lavoro: infatti, è ormai principio granitico quello per cui, prima di procedere al licenziamento per qualsiasi motivo connesso alla soppressione di posizione, il datore dovrà ricercare (sempre) possibili soluzioni alternative e, ove le stesse comportino l’assegnazione a mansioni inferiori, financo prospettare al lavoratore il demansionamento e ciò, a parer dei Giudici, “in attuazione del principio di correttezza e buona fede, potendo recedere dal rapporto solo ove la soluzione alternativa non venga accettata dal lavoratore (cfr. Cass. n. 10018 del 2016; v. pure Cass. n. 23698 del 2015; Cass. n. 4509 del 2016; Cass. n. 29099 del 2019)”.

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