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Giurisprudenza

Imputabilità della sanzione da illecito 231, in caso di cessazione dell’ente

29 Ottobre 2024

Chiara Tazzioli, Dottoranda di ricerca in diritto tributario – Università degli Studi di Milano-Bicocca

Cassazione Penale, Sez. VI, 13 febbraio 2024, n. 25648 – Pres. Fidelbo, Rel. Di Nicola Travaglini

Di cosa si parla in questo articolo

Con la sentenza n. 25648/2024, la Corte di Cassazione si è espressa sull’imputabilità della sanzione pecuniaria, comminata in ragione della commissione di un illecito 231 (ex D. Lgs. 231/2001), in caso di cessazione dell’ente.

In particolare, in tema del rapporto tra procedimento liquidatorio ed imputabilità della sanzione pecuniaria, ha concluso che la cessazione dell’ente dovuta alla sua cancellazione dal registro delle imprese costituisce, al pari della morte del reo, fatto estintivo dell’illecito 231, punito dall’art. 25, comma 3 del D. Lgs. n. 231/2001, in materia di “responsabilità amministrativa da reato delle società e degli enti”.

Nel caso in esame, il Tribunale di primo grado aveva condannato al pagamento della sanzione amministrativa stabilita dal citato art. 25 una Srl in liquidazione volontaria, in relazione al presupposto reato di corruzione contestato al suo socio unico, amministratore, nonché liquidatore.

Nel giudizio di appello, il Giudice dichiarava l’estinzione dell’illecito ascritto poiché, nelle more del giudizio, l’ente imputato era stato cancellato dal registro delle imprese; circostanza che ha fatto conseguire, ope legis, l’irreversibile cessazione del soggetto societario.

La soluzione esegetica era stata quindi contestata in sede di legittimità dal Procuratore Generale, sul rilievo che la cancellazione dell’impresa sarebbe stata meramente funzionale a paralizzare la risposta punitiva dell’ordinamento, quando invece l’art. 25 del D. Lgs. n. 231/2001 sarebbe preposto proprio ad evitare detta condotta antigiuridica, rendendo ammissibile l’accertamento della responsabilità dell’ente per i fatti commessi anteriormente alla sua estinzione.

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, dimostrando un’apertura verso la tesi, tuttora oggetto di dibattito nelle sedi giurisprudenziale e dottrinale, che tende alla equiparazione della cessazione della società alla morte del reo – persona fisica.

Seguendo questa linea di pensiero, il Collegio ha valorizzato una lettura dell’art. 2495 c.c., post riforma avvenuta con D. Lgs. n. 6/2003, giacché l’estinzione irreversibile dell’impresa, conducendo all’inesistenza civilistica dell’ente, coinvolgerebbe anche le situazioni giuridiche attive e passive  ad essa imputabili. 

Analogamente, l’art. 14 del D. Lgs. n. 231/2001, secondo il quale le sanzioni interdittive hanno ad oggetto la specifica attività alla quale si riferisce l’illecito commesso dall’ente, presuppone che quest’ultimo continui a svolgerla al fine di inibirla; condizione che non può verificarsi in relazione ad una società non più esistente.

In questa prospettiva, “la dissoluzione volontaria dell’ente, conseguenza della sua definitiva auto espulsione dal mercato a causa dell’utilizzo di pratiche corruttive” realizza, in termini più incisivi, gli obiettivi perseguiti dal D. Lgs. n. 231/2001, “con un sistema che compensa, attraverso l’eliminazione dall’universo giuridico degli enti che si sono retti su sistemi illeciti, la mancata applicazione delle sanzioni pecuniarie”.

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