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Giurisprudenza

Golden power e rilevanza della costituzione di pegni su azioni

9 Dicembre 2025

Consiglio di Stato, Sezione IV,  05 dicembre 2025, n. 9619, Pres. Lopilato, Est. Furno

Di cosa si parla in questo articolo

Il Consiglio di Stato, con sentenza n. 9619 del 05 dicembre 2025, si è espresso sulla rilevanza, ai fini dell’esercizio dei poteri speciali del Governo connessi al c.d. golden power, della costituzione di pegni su azioni a garanzia di prestiti obbligazionari.

In particolare, il contenzioso nasce dall’impugnazione, da parte di Cedacri S.p.A. del D.P.C.M. 27 luglio 2023, che aveva imposto specifiche prescrizioni sull’utilizzo di un prestito obbligazionario garantito da pegni sulle azioni della società: il Consiglio di Stato ha in sostanza chiarito se l’operazione notificata da Cedacri rientrasse nei presupposti oggettivi di applicazione dei poteri speciali del Governo.

I fatti oggetto di causa

Cedacri aveva programmato l’emissione di un prestito obbligazionario garantito dall’estensione di pegni su azioni e conti correnti già esistenti ed aveva notificato l’operazione ai sensi del D.L. 21/2012, dopodiché il Governo, con D.P.C.M. 27 luglio 2023, aveva esercitato i poteri speciali di natura prescrittiva, imponendo l’obbligo di utilizzare le risorse per investimenti strategici e di inviare relazioni periodiche.

Cedacri impugnava il decreto innanzi al TAR, sostenendo che la costituzione/estensione dei pegni non modificasse la titolarità, il controllo o la disponibilità degli attivi strategici, poiché il diritto di voto restava al debitore e passava ai creditori solo in caso di default e comunque limitatamente all’assemblea straordinaria.

Il TAR respingeva il ricorso, ritenendo l’operazione rilevante ai fini del golden power sulla base di un’interpretazione estensiva e teleologica dell’art. 2, comma 2-bis, D.L. 21/2012, volto a consentire un controllo preventivo anche su operazioni solo potenzialmente idonee a incidere sugli asset strategici.

Cedacri appellava al Consiglio di Stato, denunciando:

  • l’erronea qualificazione delle azioni come attivi strategici
  • l’errata interpretazione dell’art. 2, c. 2-bis, che richiederebbe una modifica effettiva (non potenziale) di titolarità, controllo o disponibilità
  • il travisamento del mercato di riferimento, concorrenziale
  • difetti istruttori e violazione del principio di proporzionalità nelle prescrizioni.

Pegno su azioni e legittimità dell’esercizio del Golden power

Il Consiglio di Stato chiarisce, in estrema sintesi, che  la costituzione o estensione del pegno sulle azioni non comporta una “modifica della disponibilità” ai sensi dell’art. 2, c. 2-bis, D.L. 21/2012.

La costituzione di un pegno su azioni determina solo di regola il trasferimento dei diritti patrimoniali e amministrativi in capo al creditore pignoratizio: quando ciò accade non sorge l’obbligo di notifica ai fini della normativa sul golden power, in quanto ciò determina immediatamente un mutamento nella disponibilità (giuridica oltre che di fatto) degli attivi, avendo il creditore pignoratizio titolo per intervenire in assemblea e concorrere alla formazione della volontà dell’organo nell’ambito delle competenze ad esso attribuite dall’art. 2364 C.c., in particolare, quella relativa alla nomina e revoca degli amministratori.

A conclusioni opposte si giunge quando le parti, con una apposita convenzione, deroghino espressamente al regime legale esposto.

La principale ragione a sostegno di questa conclusione si ravvisa nel fatto che, al ricorrere di tali fattispecie, l’eventuale modifica degli assetti proprietari e di governo in sede non è inevitabile.

In particolare, quando, come è avvenuto nel caso del pegno costituito da Cedacri, si prevede, sul piano negoziale, che sia i diritti di carattere patrimoniale sia quelli amministrativi restino in capo al titolare della partecipazione sociale, si fuoriesce del campo di applicazione della normativa sul golden power, perché, al ricorrere di tale evenienza, non si verificherebbe alcuna conseguenza sulla struttura proprietaria dell’impresa, non registrandosi modifiche in ordine alla titolarità, al controllo, o alla disponibilità degli attivi strategici.

In tali casi, infatti, l’assetto di potere nella società rimane inalterato, almeno sino al verificarsi dell’evento del default che può, per le ragioni evidenziate, implicare il trasferimento del diritto di voto.

Del resto, solo in tale ultima evenienza gli assetti strategici verrebbero ad essere assegnati agli investitori ed è evidente che in tal caso, ma solo in tal caso, sorge l’esigenza di verificare la ricorrenza o meno dei presupposti per l’esercizio del golden power.

Ne consegue che, almeno sino a quando non si verifichi un inadempimento agli obblighi del finanziamento garantito dal pegno, per il Consiglio di Stato non vi è alcuna ragione per equiparare la concessione del pegno ad una “acquisizione di una partecipazione nell’impresa” ai fini della normativa sul golden power.

La convenzione contraria ex art. 2352 C.c. consente, infatti, come sostenuto anche in dottrina, di mantenere inalterato l’assetto di potere nella società.

In conclusione, nei casi in cui il proprietario delle azioni conservi il diritto di voto e quindi anche gli altri diritti amministrativi sino a quando non si verifichi un inadempimento agli obblighi del finanziamento garantito dal pegno, non è possibile equiparare la concessione del pegno ad una acquisizione di una partecipazione nell’impresa, imponendo dunque un obbligo di notifica ai sensi della normativa sul golden power.

Il Collegio rileva quindi, in sintesi, che:

  • il pegno su azioni oggetto del caso di specie è pattiziamente strutturato in modo da escludere totalmente diritti di voto e poteri di influenza a favore dei creditori sino all’eventuale default della società
  • anche in caso di default, i diritti sarebbero comunque esercitabili esclusivamente in conformità alla disciplina del golden power, e limitatamente all’assemblea straordinaria
  • l’incidenza sul controllo societario è quindi solo eventuale e indiretta, non sufficiente a integrare il presupposto oggettivo necessario affinché la disciplina trovi applicazione.

D’altronde, i presupposti di applicazione del golden power devono essere interpretati secondo i principi del diritto europeo, poiché tali poteri rappresentano una deroga eccezionale alle libertà del mercato interno, in particolare alla libertà di stabilimento garantita dagli artt. 49 e 54 TFUE.

Richiamando la giurisprudenza della Corte di Giustizia (cause C-106/22 e C-326/09), il Collegio ribadisce infatti che le restrizioni derivanti da poteri statali che incidono sulle partecipazioni societarie sono ammissibili solo se fondate su motivi imperativi di interesse generale, proporzionate, idonee e non eccedenti quanto necessario.

La Corte di Giustizia ha chiarito che tali discipline devono garantire certezza del diritto, definendo in modo oggettivo e prevedibile le condizioni di esercizio dei poteri speciali, onde evitare arbitrarietà.

In questa prospettiva si colloca anche il Regolamento (UE) 2019/452, che impone agli Stati membri standard minimi di prevedibilità e coordinamento nel controllo degli investimenti esteri.

Del resto, in un’analoga prospettiva finalizzata a garantire una maggiore certezza del quadro regolatorio di riferimento, anche il legislatore interno, con il D.L. 21/2022, ha introdotto l’istituto della pre-notifica, la cui ratio risiede proprio nella presa d’atto delle oggettive difficoltà in cui le imprese di frequente versano nel decifrare il reale ambito applicativo della disciplina e quindi nel comprendere se la singola operazione da effettuare soggiaccia o meno alla stessa.

La normativa italiana sul golden power, inclusi i presupposti oggettivi di cui al D.L. 21/2012, va pertanto applicata con stretta interpretazione, poiché un approccio estensivo rischierebbe di violare il principio di proporzionalità e di trasformare i poteri speciali in strumenti di politica economica o industriale, in contrasto con il diritto UE e con il corretto funzionamento del mercato.

Il Consiglio di Stato, in conclusione, contesta pertanto l’interpretazione del TAR, giudicandola eccessivamente estensiva e in contrasto con:

  • il principio di proporzionalità,
  • la necessità di una stretta interpretazione delle norme che incidono sulla libertà d’impresa (art. 41 Cost.)
  • il divieto di utilizzare il golden power come strumento di politica industriale o d’interferenza alterata nei meccanismi di mercato.

Richiamando anche la giurisprudenza costituzionale (Corte cost. n. 56/2015), il Consiglio evidenzia che i poteri speciali possono limitare l’iniziativa economica solo quando esistano reali ragioni di utilità sociale, non desumibili nel caso concreto.

In conclusione, il Consiglio di Stato ha accolto l’appello, ed annullato il D.P.C.M. 27 luglio 2023.

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