Il presente contributo analizza il tema della gestione dei rapporti di lavoro nelle operazioni di Distressed M&A, soffermandosi sui diversi interessi rilevanti in queste operazioni, sulle criticità che possono presentarsi e sulle misure di gestione.
1. Premessa: le operazioni di merger and acquisition di aziende in crisi e l’impatto sui lavoratori
Le operazioni di merger and acquisition realizzate in un contesto di crisi (le cosiddette Distressed M&A, ossia processi di fusione, acquisizione o cessione in aziende che attraversano crisi economiche, ristrutturazioni o procedure concorsuali) rappresentano uno dei terreni più complessi e delicati del diritto d’impresa contemporaneo. La complessità non dipende soltanto dalla fragilità finanziaria e patrimoniale delle società coinvolte, ma anche e soprattutto dal fatto che in esse si intrecciano interessi diversi e talvolta contrapposti: da un lato, quello dell’acquirente che mira a rilevare l’azienda a condizioni sostenibili con la prospettiva di un rilancio industriale; dall’altro, quello dei creditori, i quali confidano nella massimizzazione della soddisfazione delle loro ragioni; e infine quello dei lavoratori, che rivendicano la continuità del rapporto di lavoro e la tutela dei diritti acquisiti.
Se è vero, infatti, che l’ordinamento europeo e nazionale ha sempre più sottolineato la necessità di garantire la continuità occupazionale anche a fronte di mutamenti nella titolarità dell’impresa, è altrettanto vero che in presenza di situazioni di crisi la disciplina ordinaria non è sempre idonea a trovare applicazione in modo lineare. In questo scenario, il diritto del lavoro italiano ha dovuto confrontarsi con la sfida di bilanciare la rigidità della tutela dei rapporti di lavoro con l’esigenza, altrettanto rilevante, di favorire il trasferimento dell’azienda o di suoi rami, così da evitarne la dissoluzione.
In questo contesto, due ambiti appaiono particolarmente delicati:
- il primo, relativo a ipotesi di trasferimento d’azienda o ramo d’azienda, che comportano il passaggio automatico e in continuità dei rapporti di lavoro inerenti al ramo o all’azienda ceduta a parità di condizioni economiche e normative, ma che in situazioni di crisi può essere oggetto di significative negoziazioni al fine di ottenere deroghe e trattamenti peggiorativi per i dipendenti coinvolti;
- il secondo, relativo ai casi di licenziamento collettivo, che spesso sono una leva utilizzata dalle imprese per ridurre gli esuberi e rendere più appetibile l’operazione di vendita dell’azienda o del ramo di essa per un potenziale acquirente.
2. Il quadro normativo di riferimento
Prima di addentrarsi nei singoli istituti, è utile definire il quadro normativo e i principi generali rilevanti.
- La Costituzione italiana assume un ruolo di fonte privilegiata e primaria in materia, in particolare con riguardo agli articoli che garantiscono il diritto al lavoro (art. 4), la libertà di iniziativa economica (art. 41) con i limiti stabiliti dalla legge in funzione dell’utilità sociale, e la tutela dei diritti e della dignità dei lavoratori.
- Le norme europee, in particolare la Direttiva 98/59/CE sui licenziamenti collettivi e la Direttiva 2001/23/CE sul trasferimento di aziende, stabiliscono principi minimi cui la normativa interna deve conformarsi.
- Le norme nazionali principali, ossia nel dettaglio:
- il Codice Civile (art. 2112) che disciplina il «Mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d’azienda»: si tratta di una norma fondamentale, che regolamenta il trasferimento dell’azienda o di un ramo di essa garantendo continuità dei rapporti di lavoro, responsabilità solidale tra cedente e cessionario per i crediti maturati, e obbligo di mantenere condizioni normative e economiche (fatte salve modifiche contrattuali collettive);
- la Legge 29 dicembre 1990, n. 428, che al suo art. 47 disciplina la procedura di consultazione sindacale obbligatoria nei trasferimenti d’azienda (oltre a casi in cui l’art. 2112 può essere derogato in procedure concorsuali, come si dirà infra);
- il Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, entrato in vigore nel 2022), che introduce modifiche e aggiornamenti rilevanti, in particolare riguardo le procedure concorsuali e i trasferimenti di lavoratori in un contesto di crisi;
- la Legge 23 luglio 1991, n. 223, la quale istituisce la procedura per i licenziamenti collettivi indicando i criteri di scelta, le fasi di sviluppo della procedura e il coinvolgimento dei sindacati, delle istituzioni e dei lavoratori a tale procedura;
- la Legge 30 dicembre 2021, n. 234, e in particolare l’art. 1 (commi 224‑237‑bis), contenente la disciplina c.d. anti-delocalizzazioni, ossia la disciplina specifica per le imprese aventi determinate dimensioni che intendano chiudere sedi, stabilimenti o reparti e licenziare almeno 50 dipendenti.
- Infine, degna di nota è la giurisprudenza costituzionale, civile e della Corte di Giustizia UE che chiarisce limiti, obblighi, rapporti tra norme nazionali e direttive euro-unitarie.
3. Il trasferimento di azienda e di ramo d’azienda in crisi: art. 2112 cod. civ.
Il punto di partenza è, inevitabilmente, l’art. 2112 cod. civ., norma cardine in materia di trasferimento d’azienda, che sancisce il principio di continuità automatica del rapporto di lavoro. Secondo tale disposizione, in caso di trasferimento di un’azienda (o di un suo ramo), i rapporti di lavoro in essere continuano con il cessionario, alle medesime condizioni economiche e normative precedenti il trasferimento. Il principio garantista alla base di questa disciplina mira a evitare che i mutamenti nella titolarità dell’impresa si traducano in perdita di diritti per i lavoratori. In concreto, ciò significa che i dipendenti continuano a lavorare presso il cessionario, e i termini e le condizioni del loro rapporto di lavoro restano, per lo più, immutati. Questo paradigma – conforme alla direttiva UE 2001/23/CE sui trasferimenti di aziende – esclude che il cessionario possa rifiutare il subentro dei lavoratori o diminuire unilateralmente le loro tutele. In assenza di specifiche deroghe, il trasferimento avviene “sans coupure”: il datore cedente trasferisce il complesso aziendale con tutto il relativo personale, mentre il nuovo datore assume integralmente ogni obbligo verso i lavoratori.
Tuttavia, quando il trasferimento si inserisce in una procedura concorsuale o comunque avviene in un contesto di profonda crisi, il principio di continuità incontra alcune significative eccezioni. Già con la Legge n. 428 del 1990 il legislatore italiano ha previsto la possibilità di derogare all’art. 2112 cod. civ. attraverso accordi sindacali, nel presupposto che la rigidità della regola generale rischierebbe di scoraggiare potenziali acquirenti. In altri termini, l’ordinamento ha preso atto che imporre al cessionario l’automatica prosecuzione di tutti i rapporti, con la conservazione integrale delle condizioni pregresse, potrebbe rendere l’operazione antieconomica e condannare l’azienda al fallimento.
Il meccanismo derogatorio, tuttavia, non opera in modo indiscriminato. È necessario che vi sia una procedura concorsuale – liquidazione giudiziale, concordato preventivo liquidatorio, o provvedimenti di liquidazione coatta amministrativa – e che la cessione avvenga nel suo ambito. In tali casi, un accordo con le organizzazioni sindacali può modulare il destino dei rapporti di lavoro, stabilendo ad esempio che solo una parte dei lavoratori venga trasferita o che vengano ridefinite alcune condizioni economiche e normative. Si tratta di una scelta normativa che si giustifica con l’obiettivo di salvare almeno una parte dell’occupazione, piuttosto che vederla integralmente sacrificata insieme alla scomparsa dell’impresa.
Con l’entrata in vigore del nuovo Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza, il quadro è stato ulteriormente ridefinito. Il nuovo testo normativo, coerentemente con le linee guida europee, ha ulteriormente valorizzato la funzione di continuità aziendale, introducendo strumenti di composizione negoziata e procedure di ristrutturazione che mirano a preservare l’attività produttiva. Anche in questo contesto, la gestione dei rapporti di lavoro assume un ruolo centrale: il legislatore ha inteso privilegiare il trasferimento dell’azienda come going concern, cioè come complesso produttivo funzionante, conferendo rilevanza alla contrattazione collettiva quale sede privilegiata per individuare soluzioni equilibrate. In particolare, gli interventi legislativi hanno riscritto i commi 4‑bis e 5 dell’art. 47 della Legge n. 428/1990, delineando la disciplina delle deroghe all’art. 2112 nelle procedure concorsuali.
L’art. 47, comma 4-bis (come riscritto dal Codice della Crisi) stabilisce che se durante le consultazioni sindacali su trasferimenti in aziende in crisi (ad esempio concordato preventivo in continuità, accordi di ristrutturazione non liquidatori, amministrazione straordinaria non liquidatoria) venga raggiunto un accordo a tutela dell’occupazione, il principio della continuità si applica limitatamente alle condizioni concordate: in sostanza, l’art. 2112 cod. civ. rimane in vigore, ma le condizioni di lavoro dei dipendenti trasferiti possono essere modificate in melius o (entro certi limiti) in pejus secondo quanto convenuto dalle parti.
Le condizioni del contratto di lavoro (retribuzione, orario, inquadramento contrattuale) possono dunque essere oggetto di accordi collettivi (anche ai sensi dell’art. 51 D.Lgs. n. 81/2015) al fine di adeguarle alla realtà economica dell’impresa cedente.
Viceversa, il comma 5 dell’art. 47 (nella novellata formulazione) prevede che se il trasferimento riguarda imprese in situazione di liquidazione (liquidazione giudiziale, concordato preventivo liquidatorio, o in liquidazione coatta amministrativa) e l’attività non viene proseguita, i rapporti proseguono con il cessionario solo in via ordinaria. Tuttavia, proprio nelle ipotesi di imprese in liquidazione è ammessa la conclusione, in sede di consultazione sindacale, di contratti collettivi che deroghino all’art. 2112 cod. civ., commi 1, 3 e 4, con finalità di salvaguardia occupazionale. Ciò significa, in termini pratici, che nei limiti concordati dall’accordo sindacale i lavoratori eccedenti possono essere esclusi dal passaggio al nuovo gestore (restando in capo all’originario datore di lavoro), mentre gli altri dipendenti proseguono il rapporto di lavoro con la nuova realtà cessionaria. Si tratta, evidentemente, di una situazione limite, molto spesso osteggiata dalle organizzazioni sindacali (che sono tenute a sottoscrivere tali accordi in deroga), proprio per l’effetto deteriore su una parte della popolazione aziendale, ma idonei a salvaguardare la restante parte dei lavoratori. In tali casi è comunque prevista (e molto spesso imposta dai sindacati) la possibilità di accordi individuali (ad esempio accordi di incentivazione all’esodo) nelle forme dell’art. 2113 cod. civ. per il trattamento dei lavoratori esclusi.
4. Gli orientamenti della giurisprudenza nazionale ed euro-unitaria
La giurisprudenza, dal canto suo, ha avuto un ruolo determinante nel chiarire i contorni applicativi della disciplina. La Corte di Cassazione ha ribadito in più occasioni – tra cui nella sentenza n. 10414 del 1° giugno 2020 – che la deroga all’art. 2112 non è automatica, ma subordinata all’esistenza di un accordo sindacale. In mancanza, resta applicabile la regola della continuità, con conseguente obbligo per il cessionario di assumere tutti i lavoratori e mantenerne i diritti. La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, altresì, ha ritenuto legittime le deroghe nazionali purché funzionali alla salvaguardia dell’occupazione e proporzionate rispetto agli interessi in gioco.
Ed infatti, le nuove norme novellate cercano di uniformarsi all’orientamento della Corte di Giustizia dell’UE, secondo cui la deroga all’effetto di continuità dei rapporti è ammissibile solo «ove la procedura concorsuale abbia il fine della liquidazione dei beni del cedente» (v. art. 5 della Direttiva 2001/23) e sia «sotto il controllo di un’autorità competente». Giudici di merito e legittimità italiani hanno esaminato caso per caso la natura delle procedure (continuative o liquidatorie) per valutare l’applicabilità delle deroghe. Ad esempio, la Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 7061 del 12 marzo 2019, ha ritenuto che un concordato preventivo fallimentare con piano liquidatorio, in presenza di accertata impossibilità di continuità aziendale, costituisca una procedura mirata alla liquidazione, permettendo così l’applicazione delle eccezioni di cui all’art. 5 della Direttiva 2001/23. Del pari, la Suprema Corte di Cassazione nel 2021, con sentenza n. 24691 del 14 settembre, ha chiarito che le procedure fallimentari soddisfano di per sé i tre requisiti comunitari (procedura fallimentare, finalità liquidatoria, controllo pubblico) e rientrano quindi pienamente nell’ambito di deroga dell’art. 5 della Direttiva. In altri termini, anche se parte dell’attività può essere temporaneamente proseguita (affitto o vendita di ramo), ciò non impedisce di qualificare la procedura come liquidatoria ai fini della deroga.
Sul fronte comunitario, la giurisprudenza dell’Unione Europea ha recentemente sottolineato che la mera continuazione parziale dell’attività non esclude la possibilità di trattare l’operazione come liquidatoria, purché essa miri a conservare il valore aziendale a beneficio dei creditori. In un caso olandese (c.d. “pre-pack”), la Corte di Giustizia, con sentenza del 28 aprile 2022, emessa nella causa n. C-237/20, ha ritenuto legittimo trasferire all’acquirente solo alcuni lavoratori di un’impresa in fallimento purché la restante parte dell’azienda fosse venduta in esecuzione della procedura liquidatoria. Ne consegue che la continuazione dell’attività per finalità strumentali alla liquidazione (e non di “business as usual”) non è di per sé ostativa all’esclusione di parte della forza lavoro, qualora essa favorisca la migliore realizzazione dell’impresa ceduta.
Un’ulteriore pronuncia significativa della Cassazione – n. 10415 del 1° aprile 2020 – ha affrontato i limiti della deroga nei casi di amministrazione straordinaria con prosecuzione dell’attività. I giudici hanno ribadito che, in tali ipotesi, si applica il regime del comma 4-bis: l’accordo sindacale può comprimere le condizioni contrattuali, ma non autorizza un trasferimento parziale dei lavoratori. In altri termini, se l’attività viene realmente proseguita, non è ammessa «la possibilità di un trasferimento parziale della compagine dei dipendenti»: tutti devono passare al cessionario. Al contrario, se la procedura è meramente liquidatoria, «il comma 5 attribuisce la possibilità di derogare al principio generale della continuità dei rapporti» e i lavoratori eccedenti restano in capo al cedente. Questo orientamento conferma la distinzione operata dall’art. 47 della Legge n. 428/90 novellato: continuità prevista con modifiche negoziate quando l’azienda continua, deroga possibile solo quando l’azienda cessa.
5. Il ruolo della contrattazione collettiva e delle politiche del lavoro nelle crisi aziendali
Accanto alla disciplina codicistica e alla giurisprudenza non si può trascurare il ruolo della contrattazione collettiva. Nelle operazioni di Distressed M&A, gli accordi sindacali diventano il vero perno attraverso il quale si definiscono i contenuti concreti dell’operazione sotto il profilo giuslavoristico e sindacale. Non si tratta soltanto di individuare i lavoratori da trasferire, ma anche di regolare le condizioni di chi rimane escluso attraverso il ricorso a strumenti flessibili e di ammortizzazione sociale tali da mitigare l’impatto sui lavoratori coinvolti. La flessibilità consentita dal legislatore trova così un contrappeso nella funzione mediatrice del sindacato, che deve contemperare la necessità di rendere l’operazione sostenibile con l’esigenza di garantire la massima tutela possibile ai lavoratori.
Nel contesto del quadro normativo sopra descritto, contrattazione collettiva e strumenti di mercato del lavoro svolgono infatti un ruolo fondamentale nell’operare un bilanciamento tra garanzie occupazionali e flessibilità economica. La contrattazione integrativa a livello aziendale può ad esempio modulare in concreto gli effetti delle deroghe legali sopra viste: nei casi di accordo sindacale previsto dall’art. 47, comma 4-bis, il contratto collettivo può fissare nuovi termini di inquadramento, un orario o una retribuzione diversa per consentire il subentro a condizioni sostenibili. Spesso si stipulano contratti di solidarietà difensiva (ai sensi dell’art. 51 del D.Lgs. n. 81/2015) che riducono temporaneamente l’orario di lavoro per evitare i licenziamenti, ovvero accordi di esodo incentivato per lavoratori vicini all’età di pensionamento. Negli ambiti di amministrazione straordinaria o concordato, possono trovare spazio accordi collettivi alternativi ai licenziamenti collettivi, finalizzati a far uscire volontariamente i lavoratori in esubero tramite incentivi economici. In linea con la decisione della Corte di Cassazione n. 10415/2020, anche tali accordi «non possono prevedere limitazioni al diritto dei lavoratori di passare all’impresa cessionaria, ma modifiche delle condizioni di lavoro al fine del mantenimento dei livelli occupazionali».
Parallelamente agli interventi di natura sindacale, anche gli strumenti di politica attiva e passiva del lavoro giocano un ruolo decisivo in questo scenario. La Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria è spesso utilizzata nelle fasi che precedono la cessione, consentendo di sospendere temporaneamente i rapporti e alleggerire il costo del lavoro per il cedente. I Contratti di Solidarietà difensivi, in particolare, rappresentano una soluzione per evitare licenziamenti collettivi, riducendo l’orario di tutti in misura proporzionata. Non meno rilevanti sono gli incentivi all’esodo, che – sebbene rappresentino uno strumento di pura negoziazione sindacale e dipendano dal consenso individuale della forza lavoro – consentono di accompagnare i dipendenti verso una risoluzione anticipata del rapporto.
6. I licenziamenti collettivi nelle imprese in crisi
Laddove le operazioni di cessione, acquisizione o trasferimento dell’azienda in crisi non abbiano esito, la strada maestra resta infine quella tipicamente delineata del licenziamento collettivo.
Sotto questo profilo vigono le regole ordinarie, delineate dalla Legge n. 223/1991, che agli artt. 4 e 24 individuano gli elementi per l’applicazione di una procedura concordata a livello sindacale e istituzionale, volta a ridurre al minimo l’impatto sociale dell’operazione di licenziamento collettivo. I punti cardine per l’applicazione di tale normativa sono:
- l’impresa occupi un numero di lavoratori superiore a una soglia (più di 15 dipendenti, compresi i dirigenti);
- l’esistenza di una causa economica, tecnica, organizzativa o produttiva che giustifichi la riduzione del personale;
- la volontà dell’impresa di effettuare almeno cinque licenziamenti nell’arco di 120 giorni, nell’unità produttiva o in più unità produttive nella stessa provincia.
Laddove sussistano queste condizioni, la procedura legale obbligatoria prevede che il datore di lavoro debba comunicare alle rappresentanze sindacali aziendali e alle organizzazioni sindacali territoriali maggiormente rappresentative, nonché agli enti pubblici competenti la volontà di avviare il processo, indicando i motivi (tecnici, organizzativi, produttivi o di crisi), il numero e i profili dei lavoratori coinvolti, le possibili misure alternative agli esuberi (ad es. ricollocazione interna, contratti di solidarietà, riduzione programmata di orario di lavoro, trasformazione dei rapporti di lavoro, etc.). A seguito di tale comunicazione, le parti sindacali possono richiedere l’apertura di una fase di esame congiunto, della durata di 45 giorni, il cui obiettivo è valutare se vi siano soluzioni alternative ai licenziamenti: ricollocazione, cessione d’azienda, flessibilità del tempo di lavoro, mobilità volontaria, incentivi all’esodo, etc. Laddove la trattativa sindacale non raggiunga un accordo, l’impresa deve comunicare l’esito alle competenti pubbliche autorità (agenzia regionale del lavoro o, in caso di procedura di licenziamento pluri-regionale, il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali) le quali si inseriscono nella seconda fase della procedura (della durata di ulteriori 30 giorni) e possono intervenire con mediazioni, verifiche, e in alcuni casi con azioni prospettiche volte a mitigare gli effetti della procedura.
Se anche in questa fase non si raggiunge un accordo, l’impresa può procedere con i licenziamenti, notificando ai lavoratori interessati il licenziamento scritto, rispettando i termini di preavviso; entro 7 giorni dalla comunicazione dei licenziamenti l’impresa deve trasmettere all’ufficio pubblico competente l’elenco dei lavoratori licenziati con informazioni precise (qualifica, anzianità, carichi di famiglia, criteri di scelta) come previsto dall’art. 4, comma 9 della Legge n. 223/1991.
Quando non è possibile evitare i licenziamenti mediante misure alternative, la legge stabilisce criteri obbligatori per decidere chi sia da licenziare:
- anzianità di servizio;
- carichi di famiglia;
- esigenze tecnico‑produttive, organizzative aziendali;
- eventuali criteri alternativi stabiliti in sede di accordo sindacale.
Nel contesto di operazioni di Distressed M&A è altresì spesso evocata la procedura anti‑delocalizzazione, introdotta dalla Legge n. 234/2021 ed applicabile alle imprese che nell’anno precedente abbiano occupato mediamente almeno 250 dipendenti (inclusi dirigenti e apprendisti). Se tale impresa intende procedere alla chiusura di una sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo sul territorio nazionale, con cessazione definitiva della relativa attività, e con licenziamento di almeno 50 lavoratori, sono previsti obblighi informativi specifici, forme di comunicazione preventiva, consultazione con le rappresentanze sindacali, nonché particolari condizioni per l’operatività della procedura.
7. Conclusioni
Il quadro che emerge è, dunque, quello di un diritto del lavoro che si muove costantemente tra due poli opposti: da un lato, la rigidità di norme – come l’art. 2112 cod. civ. o la disciplina sui licenziamenti collettivi – che vogliono garantire la massima protezione possibile; dall’altro, la necessità di apportare deroghe e aggiustamenti che consentano di mantenere in vita l’impresa e preservare, almeno in parte, l’occupazione. Non mancano, naturalmente, le criticità: vi è chi osserva che la disciplina finisca per penalizzare i lavoratori esclusi in caso di trasferimento, i quali spesso sono condannati a essere coinvolti in procedure di licenziamento collettivo con scarse possibilità di salvezza del proprio posto di lavoro e si trovano affidati esclusivamente agli ammortizzatori sociali, che implicano prospettive occupazionali ridotte. Altri sottolineano, invece, come la flessibilità normativa sia imprescindibile per attrarre acquirenti e scongiurare la chiusura definitiva e dunque la condanna dell’intera forza lavoro.
In prospettiva, non si può escludere che il legislatore intervenga per rafforzare ulteriormente gli strumenti di continuità aziendale, ad esempio prevedendo incentivi fiscali o contributivi a favore di chi si impegni a mantenere determinati livelli occupazionali nell’ambito dell’acquisizione di una azienda in crisi. Anche il tema della riqualificazione professionale assume crescente rilevanza: in un’economia caratterizzata da rapide trasformazioni tecnologiche, il semplice mantenimento del posto di lavoro rischia di non essere sufficiente, se non accompagnato da percorsi formativi e di adeguato training che consentano ai lavoratori di adattarsi a nuovi modelli produttivi.
In definitiva, la gestione dei rapporti di lavoro nelle operazioni di Distressed M&A rappresenta uno dei terreni più sensibili e dinamici del diritto del lavoro italiano. Qui si misura la capacità dell’ordinamento di conciliare valori costituzionali fondamentali – la tutela del lavoro, la libertà d’impresa e la protezione del credito, attraverso strumenti normativi e contrattuali che, pur nella loro complessità, mirano a un obiettivo comune: trasformare la crisi in occasione di rilancio, evitando che si traduca in una perdita secca di occupazione e di valore sociale.