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Giurisprudenza

Bancarotta fraudolenta e diritto al silenzio dell’imputato

19 Ottobre 2022

Roberto Compostella, Assegnista di ricerca in diritto penale presso Università di Bologna.

Cassazione penale, Sez. V, 24 gennaio 2022, n. 2732 – Pres. Sabeone, Rel. Sessa

Di cosa si parla in questo articolo

Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione analizza l’estensione del diritto al silenzio dell’imputato nelle varie fasi che conducono dalla dichiarazione di fallimento all’accertamento del reato di bancarotta fraudolenta.

Nello specifico, la Suprema Corte ha stabilito, rifacendosi ad un consolidato indirizzo, che, nel caso in cui il fallito ometta di dare spiegazioni al curatore nel corso della procedura fallimentare, tale omissione può essere valorizzata dal Giudice in sede penale per desumere elementi di valutazione ai fini della prova del reato di bancarotta patrimoniale.

Inoltre, continua la Corte, la decisione ben può basarsi sulla relazione del curatore, posto che: “Le relazioni e gli inventari redatti dal curatore fallimentare sono ammissibili come prove documentali in ogni caso e non solo quando siano ricognitivi di una organizzazione aziendale e di una realtà contabile, atteso che gli accertamenti documentali e le dichiarazioni ricevute dal curatore costituiscono prove rilevanti nel processo penale, al fine di ricostruire le vicende amministrative della società” (si vedano sul punto anche Cass. pen., Sez. V, 30 novembre 2017, n. 12338, nonché Cass. pen., Sez. Feriale, 26 luglio 2013, n. 49132).

Più in generale, la Corte di Cassazione aveva già avuto modo in passato di pronunciarsi sulla utilizzabilità, ai fini della valutazione del compendio probatorio in un procedimento penale per bancarotta fraudolenta, della relazione del curatore e delle dichiarazioni allo stesso rilasciate dal fallito nella fase fallimentare.

In questo senso, era consolidato l’indirizzo secondo il quale fosse assolutamente utilizzabile la testimonianza indiretta del curatore fallimentare sulle dichiarazioni accusatorie a lui rese dall’imputato o da altro coimputato (in questo senso, si veda, Cass. pen., Sez. V, 3 marzo 2015, n. 32388) secondo cui: “Nel procedimento nei confronti dell’amministratrice di fatto di una società, accusata di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione e bancarotta fraudolenta documentale, è utilizzabile quale prova a carico dell’imputato la testimonianza indiretta del curatore fallimentare sulle dichiarazioni accusatorie a lui rese.

Ne consegue che è corretto l’inserimento della relazione diretta al giudice delegato nel fascicolo processuale, in quanto il principio della separazione delle fasi non si applica agli accertamenti aventi natura probatoria, preesistenti all’inizio del procedimento penale.

È altresì utilizzabile, quale prova a carico dell’imputato, la testimonianza indiretta del curatore fallimentare sulle dichiarazioni accusatorie a lui rese da un coimputato non comparso al dibattimento e trasfuse dallo stesso curatore nella relazione redatta ai sensi dell’art. 33 della legge fallimentare”.

È giusto il caso di osservare che, tuttavia, la Corte Costituzionale con la recente pronuncia n. 84 del 13 aprile 2021 aveva dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 187 – quinquiesdecies del d.lgs. n. 58 del 24 febbraio 1998, nella parte in cui si applica[va] anche alla persona fisica che si fosse rifiutata di fornire alla Consob risposte che avrebbero potuto far emergere la sua responsabilità per un illecito passibile di sanzioni amministrative di carattere punitivo, ovvero per un reato.

Tale pronuncia sembrava aver aperto la strada al superamento dei limiti da sempre individuati con riferimento al diritto al silenzio, estendendone la portata a tutti quei casi in cui dalle dichiarazioni assunte dall’autorità ispettiva potesse poi derivare l’instaurazione di un procedimento penale, senza che, per l’operatività della garanzia, fosse necessario un, sia pur attenuato, quadro “indiziario”.

La dottrina aveva riconosciuto come: «il diritto di potersi astenere dal rendere dichiarazioni contro sé stesso va garantito in qualunque tipologia di rapporto con i pubblici poteri, dovendosi conseguentemente ritenere scriminato qualsiasi obbligo di collaborazione sanzionato penalmente, indipendentemente dalla sedes in cui le dichiarazioni sono raccolte» (in questo senso si era espresso Logli, Poteri istruttori della Consob e nemo tenetur se detegere, in Giur. Comm., n. 2, 2020, p. 237, ma nello stesso senso, ben prima, anche Luparia, La confessione dell’imputato nel sistema processuale penale, Milano, 2006, p. 169).

La decisione della Suprema Corte in commento, tuttavia, rifacendosi alla propria consolidata giurisprudenza, non sembra aver recepito le sollecitazioni pervenute dalla Corte Costituzionale.

 

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