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Attualità

Arbitrato, impugnativa del lodo e overruling: le sezioni unite sulla tutela dell’affidamento e l’interpretazione della legge

21 Febbraio 2019

Avv. Vittorio Pisapia, FIVELEX Studio Legale

Cassazione Civile, Sez. Un., 12 febbraio 2019, n. 4135 – Pres. Mammone, Rel. Lamorgese

Di cosa si parla in questo articolo

1. Premessa

Le Sezioni unite rispondono alla seguente questione, rimessa dalla Prima Sezione con l’ordinanza interlocutoria n. 20472/2018 del 2 agosto 2018[1]: se sia ammissibile una rimessione in termini a favore della parte che, dopo l’entrata in vigore della riforma dell’arbitrato (2 marzo 2006), abbia impugnato un lodo (emesso sulla base di una convenzione arbitrale anteriore alla riforma, che nulla prevedesse in merito all’impugnabilità per violazione di regole relative al merito della controversia), senza far valere il motivo appunto della violazione di tali regole (nel convincimento che tale motivo non fosse proponibile).

Prima di esaminare la decisione delle Sezioni Unite, è utile ricordare quanto segue:

a) fino alla riforma dell’arbitrato del 2006 di cui al D.Lgs n. 40/2006, in tema di impugnazione del lodo, la regola generale era che il lodo era sempre impugnabile per violazione della legge sostanziale, fatto salvo il caso in cui nella convenzione arbitrale le parti avessero escluso l’impugnabilità del lodo o avessero autorizzato gli arbitri a decidere secondo equità (art. 829, c. 2, c.p.c., vecchio testo);

b) la riforma dell’arbitrato ha introdotto la regola opposta: il lodo è ora impugnabile per violazione delle regole di diritto sostanziale soltanto se le parti, nella convenzione arbitrale, lo abbiano espressamente previsto (art. 829, c. 3, c.p.c., testo vigente); diversamente, il lodo non è impugnabile per violazione di legge sostanziale, ma soltanto per eventuali errori procedimentali;

c) la norma transitoria di cui all’art. 27, c. 4, del D. Lgs n. 40/2006 stabilisce che tale regola si applica a tutti i procedimenti arbitrali promossi dopo l’entrata in vigore della riforma (2 marzo 2006), senza distinguere se la convenzione arbitrale sia stata stipulata prima o dopo l’entrata in vigore della legge[2];

d) nel 2016 le Sezioni Unite, con sentenze del 9 maggio 2016, n. 9341, 9284 e 9285, hanno affermato che, se la convenzione arbitrale è anteriore al 2 marzo 2006, l’impugnazione per violazione delle regole del merito è ammessa, anche se non prevista dalla convenzione[3];

e) pertanto, se la convenzione è stata stipulata prima del 2 marzo 2006, il silenzio tenuto dalle parti in merito all’impugnabilità del lodo va interpretato in modo conforme alla legge a quel tempo vigente, ossia all’art. 829, c. 2, c.p.c., vecchio testo, e quindi nel senso della volontà delle parti di ammettere l’impugnazione del lodo anche per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia; le Sezioni Unite hanno inteso, in tal modo, evitare una disparità di trattamento a svantaggio di chi, pur avendo stipulato una convenzione prima della riforma dell’arbitrato (senza escludere l’impugnabilità per violazione di legge), avesse poi proposto la domanda dopo il 2006;

f) il principio affermato dalle Sezioni Unite ha ricevuto anche l’avallo della Corte Costituzionale: con sentenza n. 13 del 30 gennaio 2018, infatti, la Consulta ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte d’Appello di Milano in relazione ai principi espressi dalle Sezioni Unite della Cassazione[4].

2. La nuova questione rimessa alle Sezioni Unite: è tutelabile l’affidamento di chi non ha impugnato il lodo per violazione di legge ritenendo – in ragione del tenore letterale del novellato art. 829 c.p.c. (e della disposizione transitoria contenuta nell’art. 27 della legge di riforma dell’arbitrato) e della giurisprudenza di merito – che il motivo non fosse proponibile?

1. – Come già segnalato da questa Rivista[5], era stata rimessa alla Sezioni Unite la seguente nuova questione, di massima e particolare importanza:

a) se, in relazione alla interpretazione data dalla Cassazione agli articoli 829 c.p.c. e 27 D.lgs n. 40/2006, sia applicabile il principio del prospective overruling (in base al quale, in caso di repentino e imprevedibile mutamento giurisprudenziale, non incorre in decadenze la parte che abbia fatto incolpevole affidamento su una precedente consolidata interpretazione giurisprudenziale di una disposizione processuale);

b) se tale principio sia estensibile alla legge sostanziale, quale è reputata essere la regola dell’art. 829, comma 3, c.p.c. sull’impugnazione del lodo;

c) se sia applicabile la rimessione in termini “per causa non imputabile” al fine di neutralizzare la decadenza consolidatasi, con riguardo alla nuova interpretazione delle nuove disposizioni resa dalla Cassazione, che abbia radicalmente disatteso la precedente interpretazione letterale offerta dal giudice di merito, cui l’impugnante si era uniformato.

In sostanza, come si è anticipato, la questione riguardava l’ammissibilità o meno di una rimessione in termini a favore della parte che, dopo l’entrata in vigore della riforma dell’arbitrato (2 marzo 2006), abbia impugnato un lodo emesso sulla base di una convenzione arbitrale anteriore alla riforma (e che non escludesse l’impugnativa per violazione di regole di diritto sostanziale) omettendo di far valere, quale motivo di impugnazione, la violazione di legge sostanziale; omissione derivante dal convincimento della parte impugnante (sulla base del tenore letterale delle disposizioni e dell’interpretazione della giurisprudenza di merito) che, dopo la riforma dell’arbitrato, tale motivo non fosse proponibile ove non ne fosse prevista la espressa proponibilità dalla convenzione arbitrale (proponibilità poi, invece, riconosciuta dalla giurisprudenza della Cassazione culminata con le sentenze a sezioni unite del 2006).

L’ordinanza di rimessione del 2 agosto 2018, n. 20472 aveva prospettato due alternative modalità di risoluzione della questione:

a) applicazione (i) del principio del c.d. prospective overruling, secondo cui “il mutamento di un principio giurisprudenziale e la nuova interpretazione di una norma processuale, pur preesistente, al fine di evitare il pregiudizio del diritto di difesa, esige l’attivazione di meccanismi di tutela dell’affidamento, che la parte abbia riposto in un pregresso ‘diritto vivente’del quale non fosse prevedibile il mutamento”, ovvero (ii) del principio processuale della rimessione in termini ex art. 184-bis c.p.c. (ora abrogato) ovvero ex art. 153 c.p.c.; con la conseguenza che, se la parte non ha impugnato il lodo per violazione di legge sostanziale per aver fatto affidamento sull’inammissibilità del motivo per le ragioni sopra illustrate, essa deve a questo punto poter impugnare il lodo (anche) per violazione di legge sostanziale;

b) non superabilità ovvero irrimediabilità della decadenza, in quanto l’interpretazione della legge da parte del giudice non può mai travalicare il dettato della legge stessa, e non può quindi creare affidamenti; pertanto chi non aveva proposto il motivo della violazione di legge sostanziale, confidando che fosse inammissibile, non è ammesso, dopo (in particolare) la pronuncia delle Sezioni Unite del 2016, a proporre il motivo.

2. L’ordinanza della Prima Sezione Civile aveva rimesso la questione al Primo Presidente, osservando peraltro “come sembra incongruo sanzionare con la decadenza colui che abbia prestato ossequio alla lettera e premiare chi – secondo quello che, all’epoca, sarebbe stato qualificabile, piuttosto, come ‘abuso del processo’ – avesse proposto un ricorso pur manifestamente, all’epoca, inammissibile”.

3. La risposta delle Sezioni Unite della Cassazione: inapplicabilità del principio del c.d. “prospective overruling

Le Sezioni Unite risolvono la questione affermando l’inapplicabilità del principio del c.d. prospective overruling.

Esse muovono dalla premessa che l’art. 829, c. 3. c.p.c. ha natura, non solo sostanziale, ma anche processuale e che la natura (anche) processuale di tale disposizione consentirebbe – in astratto – l’applicabilità del principio del prospective overruling, che riguarda, appunto, le norme processuali.

Tuttavia, secondo le Sezioni Unite, il principio non è in concreto invocabile, in sintesi, per le seguenti ragioni:

a) il principio del prospective overruling non si applica quando il nuovo orientamento giurisprudenziale sia tale da ampliare i poteri e le facoltà processuali e sia invocato da una parte, in relazione al pregresso esercizio dell’azione e/o di facoltà processuali, perché, appunto, più favorevole;

b) infatti – affermano le Sezioni Unite – “se il nuovo indirizzo interpretativo è in bonam partem, non vi è lesione dell’affidamento meritevole della tutela del prospective overruling, al fine di superare decadenze o preclusioni maturate in osservanza del precedente indirizzo”;

c) nel caso esaminato dalla Corte, alla data di impugnativa del lodo, la Cassazione non si era ancora pronunciata sulla questione, e neppure esisteva, in sede di legittimità, il contrasto poi risolto dalle Sezioni Unite; pertanto la non proposizione del motivo della violazione di legge sostanziale, aggiungono le Sezioni Unite, è dipesa, non da un mutamento giurisprudenziale, ma “da una personale lettura in senso restrittivo delle nuove disposizioni modificative dell’art. 829 c.p.c., introdotte dal D.lgs n. 40/2006”;

d) né – proseguono le Sezioni Unite – rappresenta causa di legittimo affidamento nella scelta processuale la giurisprudenza di merito: infatti alcune pronunzie adottate in sede di merito non costituiscono diritto vivente e non possono quindi dar luogo ad alcun affidamento meritevole di tutela mediante il rimedio dell’overruling; soltanto le interpretazioni della Cassazione “assumono il valore di communis opinio tra gli operatori del diritto, se connotati dalla costanza e ripetizione (Corte Cost., n. 242 del 2008)”.

4. Segue: la rimessione in termini ex art. 153 c.p.c.

1. Nella motivazione le Sezioni Unite aggiungono che, “se il nuovo indirizzo interpretativo è in bonam partem, non vi è lesione dell’affidamento meritevole della tutela del prospective overruling, al fine di superare decadenze o preclusioni maturate in osservanza del precedente indirizzo, ma potrebbero ricorrere, in ipotesi, gli estremi per una rimessione in termini ‘ordinaria’, a norma dell’art. 153, comma 2, c.p.c.”.

Com’è noto, tale norma prevede che “la parte che dimostra di essere incorsa in decadenze per causa ad essa non imputabile può chiedere al giudice di essere rimessa in termini”.

Al riguardo le Sezioni Unite ricordano che la rimessione in termini presuppone la tempestività dell’iniziativa della parte che assume essere incorsa in decadenza, da intendere come “immediatezza della reazione”.

Nel caso in esame la Corte ha escluso tale immediatezza, dato che l’istanza era stata proposta “quasi due anni dopo la pubblicazione della sentenza della Cassazione (la n. 6148 del 19 aprile 2012) che”, per la prima volta“riconobbe la perdurante impugnabilità del lodo per motivi di diritto, nel caso di convenzione arbitrale anteriore alla riforma del 2006, e più di cinque anni dopo la pronuncia del lodo in data 25 ottobre 2008, quando i termini di impugnazione (…) erano scaduti da molti anni”.

2.Peraltro, in generale le Sezioni Unite, pur non escludendo in linea di principio l’applicabilità dell’art. 153 c.p.c. anche alla decadenza dal diritto di impugnazione, giungono poi alla conclusione che la norma non sia in concreto applicabile.

Il ragionamento delle Sezioni Unite è, in sintesi, il seguente:

a) “alla nozione di causa imputabile è estraneo (…) l’errore derivante dalla scelta processuale della parte, seppure determinata da una difficile interpretazione delle norme processuali nuove o di complessa definizione, risolvendosi in un errore di diritto che, di regola, non può giustificare la rimessione in termini”;

b) né vale l’argomento per cui l’interpretazione dell’art. 829 c.p.c. (e della norma transitoria del D.Lgs n. 40/2006) data dalla Cassazione a partire dal 2012, poi suggellata dalle Sezioni Unite nel 2016, sarebbe stata “imprevedibile all’epoca dell’impugnazione del lodo (nel 2008) perché palesemente contraria alla lettera dell’art. 27 del d. lgs n. 40 del 2006, che univocamente non ammetteva l’impugnazione del lodo per errori di diritto, anche se la convenzione arbitrale fosse anteriore alla riforma”; infatti, secondo le Sezioni Unite, l’interpretazione giuridica non è mai univoca e unica e “la norma non è il presupposto o l’oggetto ma il risultato dell’interpretazione”; pertanto, non è possibile fare “affidamento” sul “significato letterale della disposizione.

5. Conclusioni

La decisione delle Sezioni Unite non aderisce, quindi, all’orientamento che pareva aver espresso l’ordinanza di rimessione, la quale, come si è ricordato, aveva infatti osservato “come sembra incongruo sanzionare con la decadenza colui che abbia prestato ossequio alla lettera e premiare chi – secondo quello che, all’epoca, sarebbe stato qualificabile, piuttosto, come ‘abuso del processo’ – avesse proposto un ricorso pur manifestamente, all’epoca, inammissibile”.

L’incongruenza prospettata dall’ordinanza viene, in particolare, esclusa dalle Sezioni Unite:

a) sia sulla base del principio per cui il diritto vivente – idoneo ad attribuire un dato significato a una disposizione di legge, tale, a certe condizioni, da rendere tutelabile l’affidamento nella relativa interpretazione giurisprudenziale, può derivare solo da pronunce della stessa Cassazione (quale organo cui compete anche la funzione di garantire un’interpretazione uniforme della legge), e non dalla giurisprudenza di merito;

b) sia sulla base distinzione tra disposizione e norma, per cui quest’ultima è sempre il frutto dell’interpretazione della prima; con la conseguenza che non potrebbe esistere un unico significato della disposizione normativa derivante dalla sua formulazione letterale.

La decisione delle Sezioni Unite è importante non solo per la specifica questione risolta ma anche perché riguarda rilevanti tematiche di teoria generale del diritto relative all’attività interpretativa e, in particolare, al ruolo dell’avvocato nell’interpretazione della legge.

Autorevole dottrina aveva da tempo anzitutto tracciato in modo chiaro la distinzione tra disposizione e norma (ripresa dalla sentenza qui in commento delle Sezioni Unite), evidenziando, appunto, come il vocabolo “norma” sia in realtà “ingannevole”, dato che “l’interprete rileva, o decide, o propone il significato da attribuire a un documento, costituito da uno o più enunciati, di cui il significato non è affatto precostituito all’attività dell’interprete, ma ne è anzi il risultato” (Tarello, L’interpretazione della legge, Milano, 1980, 63). In particolare, “prima dell’attività dell’interprete, del documento oggetto dell’interpretazione si sa solo che esprime una o più norme, non quale questa norma sia o quali queste norme siano: ‘norma’significa semplicemente il significato che è stato dato, o viene deciso di dare, o viene proposto che si dia, a un documento che si ritiene sulla base di indizi formali esprima una qualche direttiva d’azione” (Tarello, L’interpretazione della legge, Milano, 1980, 63).

In questo contesto, l’interpretazione dell’avvocato non è “tipicizzata”, in quanto “non esiste la interpretazione avvocatile (…), perché tipicamente l’avvocato muta la propria interpretazione a seconda dell’interesse del suo patrocinato e la sua proposta di interpretazione vale solo per la singola causa”; l’interpretazione dell’avvocato “è caratteristicamente null’altro che una proposta, rivolta al giudice, di attribuire a quel particolare documento normativo, in quella causa, quel particolare significato; vi è l’elemento della decisione, ma solo come decisione tecnica” (Tarello, L’interpretazione della legge, Milano, 1980, 66).

In questo senso, le Sezioni Unite sembrano riprendere proprio questi concetti, laddove affermano, in particolare, che compito dell’avvocato è anche quello di proporre soluzioni “anche nelle situazioni che richiedono la soluzione di problemi interpretativi complessi” e di indicare “strade interpretative nuove”.

La questione che resta aperta – e che meriterebbe un autonomo approfondimento – attiene all’individuazione del confine tra una proposta, da parte dell’avvocato, di una data interpretazione di una disposizione di legge e l’abuso del diritto, anche alla luce della giurisprudenza espressa dalla stessa Cassazione in merito a quest’ultimo istituto.

Il criterio distintivo dovrebbe essere in ogni caso individuato nel rispetto delle regole di interpretazione della legge, nel rigore logico e nella coerenza intrinseca e sistematica del ragionamento sottostante all’interpretazione della disposizione, tenendo peraltro conto, oltre alla complessità in sé dell’attività interpretativa, del fatto che, come si è detto, “l’avvocato muta la propria interpretazione a seconda dell’interesse del suo patrocinato”; di fronte a ciò, anche se l’interpretazione non è poi condivisa dal giudice, non potrebbe ravvisarsi un abuso, ma il legittimo esercizio della funzione propositiva-interpretativa dell’avvocato. In questo senso, è utile ricordare la definizione di “avvocatodata dalla dottrina già richiamata. “l’avvocato è funzionalmente chi sostiene, avvalendosi di tutte le tecniche che la cultura giuridica in cui opera consente, la interpretazione del diritto, della legge e degli altri documenti normativi, più favorevole al proprio patrocinato (purché la tesi stessa non sia assolutamente inadatta a persuadere, purché cioè abbia probabilità o almeno possibilità di successo)” (Tarello, L’interpretazione della legge, Mi).

 


[1] Cfr. V. Pisapia, Arbitrato e tutela dell’affidamento: una nuova possibile pronuncia delle Sezioni Unite, in Dirittobancario.it, Giurisprudenza – Commenti, Ottobre, 2018. Vedi contenuti correlati.

[2] Riportiamo qui di seguito, per comodità, il testo degli articoli: a) 829, c. 2, c.p.c. (vecchio testo); b) 829, c. 3, c.p.c. (testo vigente); c) art. 27, c. 4, D. Lgs n. 40/2006 (norma transitoria):

a) art. 829, c. 2, c.p.c. (vecchio testo): “l’impugnazione per nullità è altresì ammessa se gli arbitri nel giudicare non hanno osservato le regole di diritto, salvo che le parti li avessero autorizzati a decidere secondo equità o avessero dichiarato il lodo non impugnabile”;

b) 829, c. 3, c.p.c. (testo vigente): “l’impugnazione per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia è ammessa se espressamente disposta dalle parti o dalla legge. È ammessa in ogni caso l’impugnazione delle decisioni per contrarietà all’ordine pubblico”;

c) art. 27, c. 4, D. Lgs n. 40/2006 (norma transitoria): “le disposizioni degli articoli 21, 22, 23, 24 e 25 si applicano ai procedimenti arbitrali, nei quali la domanda di arbitrato è stata proposta successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto” (2 marzo 2006). L’articolo del D. Lgs n. 40/2006 qui rilevante è il n. 24, che ha introdotto l’art. 829 c.p.c. nell’attuale formulazione.

[3] Salvo che le parti stesse avessero autorizzato gli arbitri a giudicare secondo equità o avessero dichiarato il lodo non impugnabile: cfr. anche Cass., 13 luglio 2017, n. 17339.

[4] Cfr. V. Pisapia, La risposta della Corte Costituzionale alla questione dell’impugnazione del lodo per violazione delle regole di diritto, in Dirittobancario.it, Giurisprudenza – Commenti, Gennaio, 2018. Vedi contenuti correlati.

[5] Cfr. V. Pisapia, Arbitrato e tutela dell’affidamento, cit.Vedi contenuti correlati.

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