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Giurisprudenza

Ai fini della dichiarazione di fallimento, l’accertamento del credito in sede giudiziale deve essere effettuata al solo scopo di verificare la legittimazione dell’istante

29 Novembre 2016

Lucrezia Platè, Legal Intern presso lo studio BonelliErede

Cassazione Civile, Sez. I, 20 luglio 2016, n. 15346

Di cosa si parla in questo articolo

Nella sentenza in commento, la Corte di Cassazione ribadisce l’orientamento giurisprudenziale secondo cui l’art. 6 della legge fall. – laddove stabilisce che il fallimento è dichiarato, fra l’altro, su istanza di uno o più creditori – non presuppone un definitivo accertamento del credito in sede giudiziale, né l’esecutività del titolo, essendo viceversa a tal fine sufficiente un accertamento incidentale da parte del giudice, all’esclusivo scopo di verificare la legittimazione dell’istante e la conseguente insolvenza del debitore. Tale accertamento consisterebbe infatti in un’indagine solo incidenter tantum, al fine di non alterare l’oggetto del procedimento fino a trasformarlo in un giudizio di cognizione sul credito posto a base dell’iniziativa di parte.

La società holding può essere assoggettata a fallimento in conseguenza di obbligazioni risarcitorie ex art. 2497 c.c.

La S.C. ribadisce inoltre l’orientamento giurisprudenziale prevalente il quale afferma che una società holding sia di fatto assoggettabile a fallimento in quanto imprenditore commerciale, a condizione peraltro che nell’ambito dell’esercizio dell’attività di direzione abbia posto in essere in nome proprio (salvo il caso – analogo a quello in esame – di società occulta) atti che siano fonte di obbligazioni, ovvero che abbia assunto direttamente obbligazioni in proprio: l’insolvenza della società holding dovrà pertanto essere valutata con riguardo esclusivo alle obbligazioni proprie. La Corte non ritiene peraltro tale principio applicabile al caso di obbligazioni risarcitorie gravanti sulla holding ex art. 2497 c.c., per il pregiudizio arrecato ai creditori delle società figlie dalla lesione cagionata – in dipendenza dell’esercizio illecito dell’attività di direzione e coordinamento – all’integrità patrimoniale di queste ultime. In tal caso si tratterebbe infatti di responsabilità di tipo esclusivamente risarcitorio, pertanto extracontrattuale, verso i creditori delle società dirette e coordinate, suscettibile di essere fatta valere, in caso di sopravvenuto fallimento delle società figlie, dai rispettivi curatori. Pertanto, la società (di fatto) holding risponde delle obbligazioni volontariamente assunte in nome proprio, ma anche delle obbligazioni risarcitorie derivanti dall’aver esercitato l’attività direttiva in maniera estranea alla fisiologica corretta gestione societaria e imprenditoriale, obbligazioni le quali sorgono nei confronti dei creditori delle società figlie per il solo fatto che l’agire illecito abbia reso il patrimonio sociale insufficiente a soddisfare le pretese dei creditori.

Il dies a quo per la dichiarazione di fallimento per le società non iscritte al Registro delle Imprese coincide con il momento in cui la cessazione dell’attività di direzione e coordinamento sia portata a conoscenza dei terzi

La Corte ribadisce altresì il principio secondo cui il termine di un anno dalla cessazione dell’attività, prescritto dall’art. 10 l. fall. ai fini della dichiarazione di fallimento (i.e. un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese), è applicabile altresì alle società non iscritte al registro. Trattandosi nel caso di specie di società holding di fatto e occulta, l’accertamento della tempestività sarebbe secondo la S.C. da affidarsi al momento in cui fosse stata portata a conoscenza dei terzi l’ipotetica cessazione dell’attività di direzione in sé e per sé considerata, a prescindere dal soggetto al quale tale attività fosse imputata.

 

Per maggiori approfondimenti si rinvia al commento già pubblicato su questa Rivista e visibile al link indicato tra i contenuti correlati.

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