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Giurisprudenza

Nella bancarotta documentale il danno dev’essere valutato in relazione ai creditori

24 Giugno 2021

Enrico Pezzi, assegnista di ricerca in diritto penale presso l’Università degli Studi di Trento

Cassazione Penale, Sez. V, 24 febbraio 2021, n. 12074 – Pres. Zaza, Rel. Borrelli

Di cosa si parla in questo articolo

La Cassazione torna ad occuparsi dell’attenuante del danno di particolare tenuità ex art. 219 l. fall., ribadendo il consolidato orientamento secondo cui ai fini della sua applicazione nelle ipotesi di bancarotta documentale “non rileva l’ammontare del passivo, ma la differenza che la mancanza dei libri o delle scritture contabili ha determinato nella quota complessiva dell’attivo da ripartire tra i creditori, avendo riguardo al momento della consumazione del reato”.

Conseguentemente, la valutazione del danno dev’essere effettuata prendendo a riferimento solo quello direttamente cagionato alla massa creditoria a causa dell’impossibilità di ricostruire la consistenza del patrimonio e del movimento di affari dell’impresa fallita, con conseguente impossibilità, per i creditori, di esercitare le azioni a tutela del credito (in senso conforme, ex multis,Sez. V, 04 luglio 2012, n. 4443; Sez. V, 18 gennaio 2013, n. 19304; Sez. V, 01 aprile 2019, n. 19981).

In definitiva, nelle ipotesi di bancarotta documentale, il danno di particolare tenuità non è quello derivante dal passivo fallimentare in quanto tale, ma è quello cagionato dal fatto di reato globalmente considerato, sicché lo stesso va valutato in relazione alla diminuzione che l’omessa tenuta dei libri contabili ha determinato nella quota di attivo da ripartire fra i creditori, con la specificazione che l’ammontare del passivo fallimentare non è comunque un elemento privo di rilievo, ma costituisce al più un indicatore per valutare le dimensioni del danno cagionato (in quest’ultimo senso, Sez. V, 02 marzo 2015, n. 17351; Sez. V, 29 gennaio 2016, n. 20695. Per un raffronto fra l’attenuante di cui all’art. 219 c. 3 l. fall. e la misura premiale prevista dall’art. 25 del nuovo codice della crisi di impresa cfr., R. Bricchetti,Codice della crisi d’impresa: rassegna delle disposizioni penali e raffronto con quelle della legge fallimentare, in DPC, 7-8/2019, 75; F. Mucciarelli, Risvolti penalistici del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza: lineamenti generali, in DPP, 2019, 1189; M. Poggi D’Angelo, Il dolo di pericolo nella bancarotta fraudolenta, in RIDPP, 4/2019, 2129).

Infine, la Suprema Corte si sofferma sul ruolo della sentenza di fallimento nel giudizio penale, ribadendo, in adesione alla giurisprudenza delle Sezioni Unite, che la sentenza dichiarativa di fallimento, costituendo un atto della giurisdizione richiamato dalla norma incriminatrice, è insindacabile da parte del giudice penale, vincolandolo in quanto elemento della fattispecie criminosa e non quale decisione di una questione pregiudiziale implicata dalla fattispecie. Pertanto, il giudice deve limitarsi a verificarne l’esistenza e la validità formale, dal momento che eventuali errori commessi nel corso della procedura concorsuale devono essere fatti valere nelle sedi opportune, ossia, precisamente, tramite reclamo avverso la pronuncia del Tribunale fallimentare (Cfr. Sez. Un., 28 febbraio 2008, n. 19601, con nota di E.M. Ambrosetti, I riflessi penalistici derivanti dalla modifica della nozione di piccolo imprenditore nella legge fallimentare al vaglio delle Sezioni Unite, in Cass. Pen., 10/2008, 3602).

 

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