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Approfondimenti

Imprenditore cancellato: legittima la sua domanda di concordato?

21 Febbraio 2018

Silvia Alessandra Pagani, Senior Associate, La Scala Società Tra Avvocati

Di cosa si parla in questo articolo

Premessa

L’obiettivo della presente analisi,partendo dalla decisione della Corte Costituzionale del 13 gennaio 2017 ed esaminando le più recenti pronunce giurisprudenziali, è quello di individuare e definire specificatamentei rapporti fra fallimento e concordato, anche – e soprattutto – alla luce delle disposizioni dell’art. 10 della Legge Fallimentare.

Il fine ultimo della presente trattazione, in particolare, è quello di far luce sulla questione della legittimazione – nonché della decadenza – dell’imprenditore, che si sia cancellato dal registro delle imprese, a proporre domanda di concordato.

La sentenza della Corte Costituzionale n. 9/2017

a) Il fatto in breve

Nel caso di specie, sotteso alla sentenza in esame, nel corso di due riunite procedure – rispettivamente prefallimentare e concordataria – relative ad una società in accomandita semplice, i soci della stessa avevano presentato istanza di ammissione al concordato preventivo, successiva a quella di fallimento proposta da due suoi creditori.

Il competente Tribunale adito aveva dichiarato, con decreto, l’inammissibilità dell’istanza di concordato per l’inosservanza dei prescritti obblighi informativi e, contestualmente, aveva sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 10 L. Fall.

Il Giudice di prime cure, infatti – premesso che, nel caso di specie, ancorché risultassero assodati i presupposti dell’insolvenza, “la dichiarazione di fallimento era preclusa dal decorso del termine annuale previsto dall’art. 10 L. Fall.” − aveva sollevato la detta questione di legittimità, considerato il – presunto – contrasto dell’articolo de quo con gli artt. nn. 3 e 24 della Costituzione “nella parte in cui non consente la dichiarazione di fallimento anche oltre il termine di un anno dalla cancellazione del registro delle imprese, qualora il rispetto di tale termine sia impedito dalla proposizione di una domanda di concordato preventivo ed il conseguente procedimento si sia concluso dopo la scadenza del termine annuale, con la dichiarazione di inammissibilità della domanda (ndr. come nel caso di specie) o comunque con la dichiarazione di revoca dell’ammissione o la mancata approvazione della proposta o la reiezione all’esito del giudizio di omologa”.

In particolare, secondo il Tribunale sarebbe stato violato l’art. 3 della Costituzione, per essere “intrinsecamente irragionevole la scelta normativa di riconoscere al debitore, durante la pendenza del termine previsto dall’art. 10 L. Fall., la possibilità di presentare un’istanza di concordato preventivo e di frapporre, quindi, un ostacolo giuridico alla dichiarazione di fallimento, senza prevedere la possibilità della dichiarazione di fallimento nell’ipotesi in cui quell’istanza si riveli inammissibile o comunque infruttuosa, ma solo dopo la scadenza del suddetto termine”.

Risulterebbe, altresì, violato l’art. 24della Costituzione, in quanto la disposizione denunciata finirebbe per “frustrare, senza adeguata giustificazione, il diritto di azione del creditore istante, che si vede preclusa la possibilità di ottenere la dichiarazione di fallimento, pur in presenza di un’iniziativa tempestiva, per un ostacolo giuridico rimesso all’iniziativa della controparte”.

Il Presidente del Consiglio dei Ministri, per il tramite dell’Avvocatura Generale dello Stato, eccepiva invece l’inammissibilità o, in subordine, la non fondatezza della questione.

b) La decisione della Corte

Con la sentenza in commento, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. n. 10 L. Fall., secondo le motivazioni che seguono.

L’art. n. 10 L. Fall., nella sua formulazione originaria, stabiliva che “l’imprenditore che per qualunque causa, ha cessato l’esercizio dell’impresa, può essere dichiarato fallito entro un anno dalla cessazione dell’impresa, se l’insolvenza si è manifestata anteriormente alla medesima o entro l’anno successivo”; tale norma è stata, a suo tempo, dichiarata costituzionalmente illegittima “nella parte in cui non prevedeva che il termine di un anno dalla cessazione dell’esercizio dell’impresa collettiva per la dichiarazione di fallimento della società decorra dalla cancellazione della società stessa dal registro delle imprese” (Corte Cost. n. 319/2000).

Ciò in quanto il principio di ragionevolezza, sotteso all’art. 3 Cost.,prevede che la norma con la quale venga fissato un termine non sia congegnata in modo tale da vanificare completamente la ratio che presiede alla fissazione stessa di quel termine, rendendolo così del tutto inutile.

L’art. 10 L. Fall. è stato, quindi, novellatoal fine di essere adeguato ai sopra detti principi e, nell’accomunare gli imprenditori collettivi a quelli individuali nel termine annuale per la dichiarazione di fallimento, ha fatto, appunto, in entrambi i casi, decorrere detto termine dalla cancellazione dal registro delle imprese.

Il primo comma della norma in esame, dunque, ora dispone testualmente: “Gli imprenditori individuali e collettivi possono essere dichiarati falliti entro un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese, se l’insolvenza si è manifestata anteriormente alla medesima o entro l’anno successivo”.

Il legislatore ha, pertanto, voluto legare al sistema della pubblicità i rapporti tra i creditori, il debitore insolvente e i terzi venuti in contatto con il cessato imprenditore, nel quadro della crisi dell’impresa, individuando nella condizione di fallibilità entro l’anno dalla cancellazione dal registro delle imprese, il punto di mediazione tra gli opposti interessi in gioco.

La prospettata soluzione normativa non è, nel caso di specie, messa in alcun modo in discussione dal Tribunale circa la tempistica della procedura prefallimentare.

Il dubbio di incostituzionalità è, infatti, prospettato dal Giudice di prime cure unicamente con specifico ed esclusivo riguardo all’ipotesi in cui, al procedimento relativo all’istanza di fallimento, il debitore affianchi una parallela istanza di ammissione a concordato preventivo.

Quanto sopra stante il principio regolatore di tale concorrenza di procedure, secondo il quale, in presenza di un’istanza di concordato preventivo, le procedure prefallimentari, anche precedentemente instaurate, debbano essere riunite alla prima e la correlativa decisione non possa essere pronunciata fino a che non si verifichi uno degli eventi previsti dagli artt. 162, 173, 179 e 180 L. Fall.– ossia, dichiarazione di inammissibilità, revoca dell’ammissione, mancata approvazione, o negata omologazione del concordato (Cass., Sez. Unite, Sentenza 15 maggio 2015, n. 9936).

E infatti, unicamente in relazione al rischio di aggravio della procedura prefallimentare (che si assume conseguente alla simultanea esistenza di un’istanza di concordato preventivo ed alla necessità di una decisione negativa sulla stessa prima di poter dichiarare il fallimento), che il Tribunale aveva ritenuto irragionevole che continuasse ad operare il termine di cui all’art. 10 L. Fall., in quanto suscettibile di ostacolare la conclusione della procedura fallimentare entro l’anno dalla cancellazione dal registro delle imprese.

La questione così prospettata assume, dunque, come sua premessa quella per cui, all’interno del periodo annuale decorrente dalla cancellazione dal registro, l’impresa cancellata possa ancora proporre un’istanza di concordato preventivo, che andrebbe in tal modo ad affiancarsi ad eventuali contrapposte istanze creditorie volte alla declaratoria del suo fallimento.

La legittimazione dell’impresa cancellata ad attivare una procedura di concordato è però controversa in dottrina, che è incline, anzi, ad escluderla. Tra l’altro, anche la Suprema Corte ha affermato che “alla società che ha cessato la propria attività di impresa, tanto da essere cancellata dal Registro, l’accesso alla procedura concorsuale minore è precluso ipso facto, atteso il venir meno del bene al cui risanamento il concordato tende” (Cass., Sezione VI Civile, Ordinanza 20 ottobre 2015, n. 21286).

Il Tribunale, però, non solo nulla argomenta su tale decisivo aspetto ma, addirittura, omette completamente di prenderlo in esame.

La Corte Costituzionale, pertanto, concludeva che la questione sollevata andasse dichiarata inammissibile “per difetto di motivazione sul presupposto logico-giuridico della sua non manifesta infondatezza”.

I Giudici della Consulta sono pertanto giunti alla predetta conclusione, rilevando come dottrina e giurisprudenza abbiano sostanzialmente escluso la legittimazione dell’impresa cancellata ad attivare una procedura di concordato; conseguentemente, la questione sollevata è parsa del tutto irrilevante.

Il rapporto tra concordato e il procedimento prefallimentare

La sentenza in commento – al di là del caso pratico e concreto ad essa sotteso – offre due interessanti spunti di riflessione e di approfondimento: da un lato, il rapporto fra l’istanza di fallimento e la domanda di concordato e, dall’altro, la richiesta di ammissione al concordato preventivo di una società cancellata dal registro delle imprese.

Come detto, nella pronuncia de qua, la Corte Costituzionale, da un lato, cita – e fa proprie – le due massime della Corte di Cassazione del 2015, che, in tema di rapporti fra domanda di fallimento e domanda di concordato, hanno confermato la validità del c.d. principio di prevenzione – consistente nel necessario preventivo esame della domanda di concordato e nella possibilità di dichiarare il fallimento del debitore solamente nel caso in cui si verifichi uno dei possibili esiti negativi del procedimento concordatario.

In particolare, sulla reclamabilità della sentenza dichiarativa di fallimento: “In tema di concordato preventivo, quando, in conseguenza della ritenuta inammissibilità della domanda, il Tribunale dichiara il fallimento dell’imprenditore, su istanza di un creditore o su richiesta del pubblico ministero, può essere impugnata con reclamo solo la sentenza dichiarativa di fallimento e l’impugnazione può essere proposta anche formulando soltanto censure avverso la dichiarazione di inammissibilità della domanda di concordato preventivo” (Cass. Civ., Sez. Un., 15 maggio 2015, n. 9935).

E ancora, sui rapporti tra concordato preventivo e fallimento: “In pendenza di un procedimento di concordato preventivo, sia esso ordinario o con riserva, il fallimento dell’imprenditore, su istanza di un creditore o su richiesta del pubblico ministero, può essere dichiarato soltanto quando ricorrono gli eventi previsti dalla L. Fall., artt. 162, 173, 179 e 180, e cioè, rispettivamente, quando la domanda di concordato sia stata dichiarata inammissibile, quando sia stata revocata l’ammissione alla procedura, quando la proposta di concordato non sia stata approvata e quando, all’esito del giudizio di omologazione, sia stato respinto il concordato; la dichiarazione di fallimento, peraltro, non sussistendo un rapporto di pregiudizialità tecnico-giuridica tra le procedure, non è esclusa durante le eventuali fasi di impugnazione dell’esito negativo del concordato preventivo. La pendenza di una domanda di concordato preventivo, sia esso ordinario o con riserva, non rende improcedibile il procedimento prefallimentare iniziato su istanza del creditore o su richiesta del pubblico ministero, né ne consente la sospensione, ma impedisce temporaneamente soltanto la dichiarazione di fallimento sino al verificarsi degli eventi previsti dalla L. Fall., artt. 162, 173, 179 e 180; il procedimento, pertanto, può essere istruito e può concludersi con un decreto di rigetto. Tra la domanda di concordato preventivo e l’istanza o la richiesta di fallimento ricorre, in quanto iniziative tra loro incompatibili e dirette a regolare la stessa situazione di crisi, un rapporto di continenza. Ne consegue la riunione dei relativi procedimenti ai sensi dell’art. 273 c.p.c., se pendenti innanzi allo stesso giudice, ovvero l’applicazione delle disposizioni dettate dall’art. 39 c.p.c., comma 2, in tema di continenza e competenza, se pendenti innanzi a giudici diversi” (Cass. Civ., Sez. Un., 15 maggio 2015, n. 99356).

Dall’altro lato, la Corte Costituzionale – aderendo al maggioritario orientamento giurisprudenziale – osserva come l’imprenditore, di cui sia intervenuta la cancellazione dal registro delle imprese, non sia in alcun modo legittimato a proporre domanda di concordato.

In ogni caso, la confermata validità del principio di prevenzione non ha risolto le problematiche derivanti dai rapporti fra procedure; la Corte di Cassazione, con la sentenza a Sezioni Unite n. 27073 del 28/12/2016, ha pertanto riconosciuto l’immediata impugnabilità del decreto con cui la Corte d’Appello definisca il giudizio di omologazione del concordato preventivo, escludendo, invece, l’autonoma impugnabilità del decreto con cui il Tribunale dichiari l’inammissibilità della proposta di concordato, ai sensi dell’art. 162, comma 2, L. Fall., ovvero revochi l’ammissione alla procedura di concordato, ai sensi dell’art. 173, L. Fall.

In particolare, la citata pronuncia statuisce che, contro la sentenza di fallimento, “l’impugnazione può essere proposta anche formulando soltanto censure avverso la dichiarazione di inammissibilità della domanda di concordato preventivo”, pur essendo tale ultima pronuncia non reclamabile né ricorribile per Cassazione (Cass. Civ., Sez. Un., 28 dicembre 2016, n. 27073).

Tale questione è stata – ancora una volta e recentemente – oggetto di esame da parte della Corte di Cassazione nel 2017. Con la sentenza a Sezioni Unite n. 9146 del 10 aprile 2017, la Suprema Corte ha, infatti, analizzato l’ipotesi in cui penda giudizio di impugnazione avverso il rigetto dell’omologa di concordato ed intervenga, nelle more, sentenza dichiarativa di fallimento. Questa la massima: “la sopravvenuta dichiarazione del fallimento comporta l’inammissibilità delle impugnazioni autonomamente proponibili contro il diniego di omologazione del concordato preventivo e, comunque, l’improcedibilità del separato giudizio di omologazione in corso, perché l’eventuale giudizio di reclamo ex art. 18 L. Fall. assorbe l’intera controversia relativa alla crisi d’impresa, mentre il giudicato sul fallimento preclude in ogni caso il concordato”.

In particolare, i motivi di impugnazione del decreto di rigetto del concordato dovranno essere riproposti nel giudizio di impugnazione della sentenza di fallimento, in quanto il separato giudizio di omologazione del concordato diverrà a tutti gli effetti improcedibile. Questo, secondo il pensiero della Suprema Corte, al fine di scongiurare e inibire “l’abuso dello strumento concordatario”.

La domanda di concordato preventivo, presentata dal debitore al solo fine di differire la dichiarazione di fallimento, non può che essere, infatti, palesemente inquadrata in un abuso del processo e, pertanto, dichiarata inammissibile.

La domanda di ammissione al concordato preventivo di una società cancellata dal registro delle imprese

Il secondo spunto di riflessione offerto dalla sentenza in commento concerne la legittimazione della richiesta di ammissione al concordato preventivo di un imprenditore cancellato dal registro delle imprese.

Si è già rilevato come la Corte di Cassazione abbia accolto e fatto propria una decisione della Suprema Corte del 2015, con la quale era stata incontrovertibilmente negata tale legittimazione.

In particolare, “alla società che ha cessato la propria attività e che si sia cancellata dal registro delle imprese è precluso, per il solo fatto che nei confronti della società estinta sia stata presentata istanza di fallimento entro l’anno dalla cancellazione, l’accesso alla procedura di concordato preventivo, atteso che la domanda di ammissione al concordato non è uno dei mezzi attraverso i quali si esplica il diritto di difesa del fallito in sede di istruttoria prefallimentare e non può, pertanto, essere intesa quale strumento dilatorio posto a disposizione dell’impresa insolvente per ritardare la dichiarazione di fallimento. La cessazione dell’attività e la cancellazione dal registro delle imprese dipende, infatti, da una scelta degli organi societari che avrebbero potuto optare per la continuazione dell’impresa e per la presentazione della domanda di concordato allo scopo di cercare di addivenire ad una risoluzione della crisi” (Cass. Civ., Sez. VI, 20 ottobre 2015, n. 21286).

Conformemente a tale pronuncia, il combinato disposto degli artt. 2495 c.c. e 10 L. Fall. impedisce al liquidatore di una società cancellata dal registro delle imprese – di cui, entro l’anno dalla cancellazione, sia stato domandato il fallimento – di richiedere l’ammissione al concordato preventivo. Tale procedura, infatti, è proiettata alla risoluzione della crisi e, pertanto, il termine dell’attività imprenditoriale (condicio sine qua non per la cancellazione dal registro delle imprese) ne precluderebbe immediatamente l’utilizzo, per cessazione del bene al cui risanamento essa dovrebbe mirare.

Pertanto, risulta palese come – secondo tale recente e maggioritario orientamento giurisprudenziale – l’imprenditore cancellato dal registro delle imprese non possa in alcun modo accedere alla procedura di concordato preventivo.

Stante quanto sopra, il potere del liquidatore di una società cancellata sarebbe limitato esclusivamente alla possibilità di opporsi ad un eventuale ricorso per la dichiarazione di fallimento e di presentare reclamo contro l’eventuale declamatoria di fallimento, ex art. 18 L. Fall; in senso conforme, si era tra l’altro già espressa la Corte di Cassazione con la sentenza n. 13659 del 30 maggio 2013.

A conclusione di questa breve analisi, preme in ogni caso evidenziare che, sebbene – come appena dedotto ed argomentato – dottrina e giurisprudenza propendano recisamente per l’inammissibilità della domanda di concordato preventivo della società cessata e cancellata dal registro delle imprese, tale orientamento non può definirsi unanime.

Nella realtà, infatti, secondo una diversa – ed affatto isolata corrente – predetta conclusione non potrebbe essere accolta, in quanto l’imprenditore cessato permarrebbe in un continuo stato di fallibilità, venendogli negata la possibilità – allo stesso invece riconosciuta ex lege prima della cessazione – di evitare il fallimento ricorrendo al concordato. Secondo tale corrente, quindi, la cancellazione non determinerebbe affatto il venire meno, in capo all’imprenditore cancellato, della facoltà di proporre istanza di concordato.

Secondo tale ultima corrente, invero, non parrebbe condivisibile negare al debitore resistente in un procedimento prefallimentare la facoltà di poter proporre una soluzione concordataria alla crisi della propria impresa, laddove egli sia invece pienamente passibile di dichiarazione di fallimento.

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