Il presente contributo svolge alcune considerazioni sul regime fiscale dei fondi di investimento extra europei alla luce della più recente giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea.
Si è già scritto[1] di come, dopo la pubblicazione da parte della Corte di Cassazione di talune sentenze a luglio 2022[2], il regime fiscale dei dividendi corrisposti a fondi d’investimento esteri da parte di società italiane (nonché quello delle plusvalenze realizzate sulle relative partecipazioni) doveva considerarsi argomento risolto; dette sentenze, infatti, confermavano che il regime fiscale applicabile in base al diritto nazionale vigente ai flussi reddituali equity-related realizzati da fondi vigilati stabiliti in Stati Extra-UE e in grado di garantire un adeguato scambio di informazioni comporta una ingiustificata discriminazione in contrasto con le libertà fondamentali garantite dal diritto comunitario (ed in particolare con il principio di libera circolazione dei capitali).
Ciononostante, nella prassi, sembra che l’amministrazione finanziaria non abbia voluto prendere in considerazione la suddetta giurisprudenza – come peraltro confermata da successive pronunce[3] – continuando ad effettuare contestazioni sulle operazioni di exit da parte di strutture di investimento di fondi extra europei che, per il tramite di veicoli societari europei (“Veicoli”), detengono investimenti in società italiane, negando ai suddetti Veicoli il diritto a beneficiare dell’esonero da imposizione in Italia in virtù dell’applicazione dell’art. 37 del D.P.R. n. 600/1973 (in materia di interposizione) ovvero mediante il richiamo alla norma generale antielusiva.
In questo immutato contesto accertativo, si commentano di seguito due recenti sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione Europea che – a parere di scrive – rivestono particolare rilevanza sotto due profili. In particolare:
- la sentenza del 30 aprile 2025, caso C-602/23 (“Sentenza Finanzamt”) offre spunti utili per valutare quando e a quali condizioni un fondo costituto in uno Stato extra-UE presenta caratteristiche tali da poter essere considerato oggettivamente comparabile con un fondo comunitario ed in quanto tale titolato ad invocare la libertà di circolazione dei capitali;
- la sentenza del 3 aprile 2025, caso C-228/24 (“Sentenza Nordcurrent”), invece, approfondisce in quali circostanze è possibile disconoscere i benefici della Direttiva Madre-Figlia in base alla disposizione antiabuso, chiarendo che per valutare se la costruzione ha comportato il conseguimento di un risparmio fiscale in contrasto con l’oggetto della suddetta direttiva occorre considerare l’”effetto fiscale complessivo” derivante dallo stabilimento della costruzione in uno Stato membro.
La Sentenza Finanzamt
Nel 2013 il fondo americano Franklin percepiva dividendi da società austriache rispetto ai quali subiva una ritenuta alla fonte del 25%. Franklin, poi, in nome e per conto dei suoi quotisti americani, richiedeva e otteneva il rimborso della ritenuta applicata sui dividendi riferibili a detti quotisti per la parte eccedente l’aliquota prevista dalla convenzione contro le doppie imposizioni tra Stati Uniti ed Austria.
Successivamente, il fondo presentava un’ulteriore istanza di rimborso, questa volta in nome e per conto proprio.
In particolare Franklin, avvalendosi della libertà di circolazione di capitali di cui all’art. 63 del TFUE, e asserendo di qualificarsi quale soggetto passivo di imposta negli Stati Uniti, domandava il rimborso della residua ritenuta invocando la discriminazione attuata per effetto della non applicabilità ai soggetti extra europei di una norma austriaca in forza della quale soggetti non residenti in Austria (ma in Stati Membri o SEE) che si qualificano quali soggetti passivi d’imposta (e non già quali soggetti fiscalmente trasparenti) e che ricevono dividendi da società austriache hanno diritto ad ottenere la restituzione delle ritenute subite alla fonte qualora dette ritenute non siano accreditabili nello stato di residenza del percettore.
Si sviluppava quindi un lungo procedimento giurisdizionale che verteva intorno alla rilevanza, o meno, della qualificazione di Franklin quale soggetto passivo d’imposta. E ciò in quanto, ad avviso delle autorità austriache, il fatto che Franklin si qualificasse come fondo di investimento equiparabile ad un fondo UCITS rendeva infondata la richiesta di rimborso posto che un fondo di investimento austriaco UCITS compliant può essere costituito esclusivamente in forma contrattuale e, dunque, esclusivamente quale società fiscalmente trasparente che come tale non può beneficiare del rimborso delle ritenute subite in quanto tali redditi sono obbligatoriamente imputati ai suoi quotisti. E ciò con la conseguenza che nessuna discriminazione per il fondo americano sorgerebbe posto che il rimborso sarebbe negato anche ad un soggetto locale equiparabile.
Ebbene, adita dal giudice locale, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, dopo avere confermato che l’eventuale discriminazione doveva essere valutata alla luce dell’art. 63 del TFUE (e dunque alla luce del principio di libera circolazione dei capitali)[4] e dopo avere confermato che Franklin è equiparabile ad un fondo UCITS compliant, in estrema sintesi, ha concluso che “il fatto che un’entità non residente avente le stesse caratteristiche di un fondo di investimento residente abbia la personalità giuridica non la pone necessariamente in una situazione differente da quella di un fondo di investimento residente privo di personalità giuridica, se i dividendi dalla prima di queste entità vengono imputati ai suoi titolari di quote e vengono tassati, nello stato di residenza della stessa, non a livello dell’entità suddetta bensì a livello dei suoi titolari di quote” – cfr. para. 62 della Sentenza Finanzamt – (circostanza quest’ultima che deve essere verificata dal giudice del rinvio anche se, secondo gli atti, Franklin nel 2013 aveva proceduto alla distribuzione di tutti i suoi redditi cosicché non aveva versato alcuna imposta sul reddito) e che quindi “non costituisce una restrizione alla libera circolazione dei capitali una normativa nazionale che abbia l’effetto di escludere dal rimborso dell’imposta sui redditi di capitale un’entità non residente la quale, da un lato, presenti le stesse caratteristiche di un OICVM , ai sensi della direttiva 2009/65, ma che, dall’altro, abbia la personalità giuridica e sia, sotto questo aspetto, paragonabile ad una persona giuridica residente, laddove, secondo detta normativa nazionale, un OICVM residente è considerato fiscalmente trasparente e non può operare quale persona giuridica, a condizione che i redditi percepiti dall’entità non residente vengano imputati ai suoi titolari di quote e vengano tassati, nel suo Stato di residenza, non già a livello dell’entità stessa, bensì a livello dei suoi titolari di quote” – cfr. para. 64 della Sentenza Finanzamt.
Seppure le conclusioni dell’arresto non appaiono rilevanti ai fini italiani[5] la Sentenza Finanzamt si rivela di fondamentale interesse per taluni obiter dicta.
La fattispecie affrontata, infatti, riguarda un fondo d’investimento americano aperto[6], che investe principalmente in società europee (da cui percepisce dividendi) e soggetto nel suo stato di residenza ad un regime di vigilanza prudenziale che lo rende equiparabile ad un fondo di investimento europeo UCITS compliant.
Ebbene, innanzitutto, la sentenza è rilevante in quanto, a oltre 10 anni di distanza dalla sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 10 aprile 2014, caso C-190/12, la Corte di Giustizia Europea ha ribadito che il divieto di discriminazioni può essere fatto valere anche dai fondi extra-UE che siano sottoposti, nel loro Stato di residenza, ad “una vigilanza dei mercati finanziari secondo un insieme di regole paragonabili alle normative di vigilanza prudenziale dell’Unione”.
La pronuncia in commento, confermando un principio invero pacifico alla luce della precedente giurisprudenza comunitaria e già accolto in ambito nazionale dalla Corte di Cassazione, rende indifferibile un intervento di adeguamento da parte del legislatore italiano, oltre che un esercizio di interpretazione conforme da parte degli organi della giurisdizione tributaria e dell’amministrazione finanziaria[7], tesi a porre fine al trattamento discriminatorio che i fondi d’investimento extra-Ue che siano equiparabili ai fondi europei UCITS/AIFMD compliant (cfr. sotto) subiscono in forza del regime fiscale attualmente previsto rispetto ai dividendi e capital gain di fonte italiana da questi realizzati.
Ma c’è di più; l’elemento di novità (e, quindi, di maggiore interesse) di questa sentenza risiede nelle considerazioni svolte dal giudice nazionale rimettente (ma implicitamente accolte dalla Corte) in merito all’equiparabilità di Franklin ad un fondo europeo UCITS compliant in ragione del fatto che lo stesso era sottoposto “nel suo Stato di residenza, ad una vigilanza dei mercati finanziari secondo un insieme di regole paragonabili alle normative di vigilanza prudenziale dell’Unione e austriaca”.
Ed infatti, nella precedente sentenza C-190/12 la Corte, pur avendo statuito che per far valere il divieto di discriminazione occorresse “accertare che tali fondi [i fondi extra comunitari; n.d.r.] operino nell’ambito di un contesto normativo equivalente a quello dell’Unione”, non aveva fornito indicazioni di dettaglio sugli elementi da considerare al fine di effettuare tale giudizio di equivalenza se non un generico riferimento alla verifica dei “requisiti di istituzione e di esercizio delle loro attività”. Il punto non era stato fino ad ora approfondito neppure dalla giurisprudenza nazionale.
Qualche indicazione era indirettamente ritraibile da alcune pronunce dell’amministrazione finanziaria la quale aveva più volte chiarito che, ai fini della normativa interna, gli OICR esteri sono quei soggetti che “secondo la normativa vigente nello Stato estero in cui sono istituiti, presentino i requisiti sostanziali nonché le stesse finalità di investimento dei fondi e degli organismi italiani, prescindendo dalla loro forma giuridica e ancorché siano privi di una soggettività tributaria, a condizione che sussista una forma di vigilanza sul fondo o organismo ovvero sul soggetto incaricato della gestione dello stesso” (cfr., inter alia, Circolare 2/E del 15 febbraio 2012 e risposta 430/2019). Peraltro, in merito a quale soggetto debba essere “vigilato”, l’amministrazione finanziaria ha espressamente chiarito che “La vigilanza deve essere verificata indifferentemente con riferimento al soggetto investitore o al soggetto incaricato della gestione a seconda del modello di vigilanza prudenziale adottato nel Paese in cui l’organismo è istituito (cfr. circolari n. 2/E del 15 febbraio 2012 e n. 19/E del 4 giugno 2013)” (così Risoluzione n. 76/E del 12 agosto 2019 avente ad oggetto l’applicazione dell’articolo 26, comma 5-bis del D.P.R. n. 600/1973 agli “investitori istituzionali esteri”). Più in dettaglio è stato chiarito che il requisito della regolamentazione risulta soddisfatto anche quando il fondo di per sé non è un soggetto autorizzato a svolgere attività regolamentate, a condizione che il gestore del fondo o il gestore a cui il GP ha delegato l’attività di gestione (i.e. l’advisor) sia autorizzato dalla competente autorità di vigilanza (cfr., Risposta n. 125 del 24 febbraio 2021 sempre a proposito dell’applicazione dell’articolo 26, comma 5-bis del D.P.R. n. 600/1973 e Risoluzione N. 78/E del 2017). Inoltre, con riferimento al requisito della vigilanza, la Circolare n. 2/E del 15 febbraio 2012, come ribadito dalla Risoluzione n. 54/E del 18 luglio 2013, ha chiarito che “il requisito della vigilanza sussiste nelle ipotesi in cui l’avvio dell’attività sia soggetto ad autorizzazione preventiva e l’esercizio dell’attività stessa sia sottoposto in via continuativa a controlli obbligatori sulla base di disposizioni normative vigenti nello Stato estero di residenza dell’intermediario”.
Più di recente il tema della equiparazione degli OICR extra comunitari a quelli UE è stata affrontato dall’Agenzia delle Entrate nella Circolare n. 23 in materia di investment management exemption pubblicata lo scorso 19 novembre 2024. In quell’occasione, infatti, l’amministrazione finanziaria ha chiarito che, al fine di individuare gli OICR non UE vigilati e istituti in Stati “white list”[8] “regolati da normative sostanzialmente equivalenti” a quelle delle direttive UCITS e AIFM è necessario che “la normativa di riferimento dello Stato estero sia ispirata a principi generali e obiettivi specifici analoghi a quelli delle predette direttive” e che, a questi fini, “Occorre (…) verificare (…) che la normativa di riferimento dello Stato estero preveda: – che il patrimonio dell’organismo sia raccolto presso una pluralità di investitori, sia gestito in monte nell’interesse degli investitori e in autonomia dai medesimi soggetti in base a una politica di investimento predeterminata; e – disposizioni volte a presidiare il rispetto di tali requisiti”.
I chiarimenti forniti dall’Amministrazione finanziaria, per quanto apprezzabili, non forniscono tuttavia elementi sufficienti ad effettuare in concreto un giudizio di “sostanziale equivalenza” sicché devono essere accolte con favore le indicazioni fornite dalla Sentenza Finanzamt.
Come anticipato, la Corte al paragrafo 17 riportando le conclusioni del giudice del rinvio, osserva che Franklin era stato considerato equiparabile ad un fondo di investimento austriaco e dunque ad un OICVM ai sensi della direttiva 2009/65 in quanto è “sottoposto, nel suo Stato di residenza, ad una vigilanza dei mercati finanziari secondo un insieme di regole paragonabili alle normative di vigilanza prudenziale dell’Unione (…) e la [relativa, n.d.r.] gestione viene effettuata secondo gli stessi principi e gli stessi criteri di investimento di un fondo di investimento avente lo stesso nome autorizzato” in uno Stato dell’Unione europea. La sentenza prosegue elencando puntualmente gli elementi sulla base dei quali il giudice del rinvio è pervenuto a tale conclusione. Si legge nel testo, infatti, che gli “elementi essenziali” dell’attività del fondo estero che permettono la suddetta equiparazione sono:
- la protezione degli investitori;
- gli obblighi di informazione (e segnatamente l’obbligo di prospetto, i rapporti semestrali e annuali);
- l’attività commerciale autorizzata; e
- l’efficacia della vigilanza e del controllo.
Alla luce di questi fondamentali chiarimenti oltre che in considerazione degli ormai numerosi arresti di giurisprudenza unionale e nazionale, pare allora potersi senza alcun dubbio di sorta dover concludere per il principio in forza del quale:
- il regime fiscale italiano applicabile ai proventi equity related realizzati da fondi di investimento extra europei[9] che siano residenti in Stati che consentono un adeguato scambio di informazioni con l’Italia[10] e che siano soggetti (o il cui gestore sia soggetto) a vigilanza prudenziale secondo normative estere che siano sostanzialmente equivalenti a quelle delle direttive UCITS e AIFM, è in contrasto con la libera circolazione dei capitali sancita dall’art. 63 del TFUE posto che detti soggetti sono sostanzialmente equiparabili ai fondi di investimento vigilati italiani oltre che ai fondi di investimento europei UCITS o AIFMD compliant che beneficiano di un regime di sostanziale esenzione secondo il diritto italiano sui medesimi proventi;
- la “sostanziale equivalenza” della normativa regolamentare cui i fondi extra UE devono essere soggetti per poter essere considerati pienamente comparabili deve essere valutata tenuto conto della coerenza con i principi stabiliti dalle direttive UCITS e AIFM circa (i) la protezione degli investitori, (ii) gli obblighi di informazione del fondo, (iii) le regole applicabili ai fini dell’attività di commercializzazione delle relative quote e (iv) l’efficacia della vigilanza e del controllo. Ovviamente, l’equiparazione, essendo sostanziale, non deve necessariamente condurre ad un risultato di perfetta sovrapposizione con la normativa comunitaria di riferimento.
La Sentenza Nordcurrent
Nel 2023 la società lituana Nordcurrent subiva una verifica fiscale ad esito della quale l’amministrazione fiscale locale le contestava l’applicazione del regime di esenzione sui dividendi percepiti dalla propria consociata inglese (in epoca pre Brexit) asserendo, in sostanza, che tale entità, seppur preposta alla distribuzione dei relativi prodotti nel Regno Unito a fronte della quale realizzava propri redditi imponibili (non qualificandosi dunque quale società intermedia interposta tra la Nordcurrent e altre società del gruppo) si qualificasse come costruzione abusiva.
Secondo i funzionari, infatti, l’entità inglese “rientrava nella nozione di “costruzione non genuina” in quanto non era stata posta in essere per valide ragioni commerciali” ciò che sarebbe stato asseritamente dimostrato dal fatto che, tra l’altro, “non disponeva di risorse umane corrispondenti all’elevato numero di giochi distribuiti, di clienti e di canali di vendita, essendo l’unica impiegata di quest’ultima la sua dirigente che gestiva contemporaneamente altre sette società”.
Ebbene la Nordcurrent si opponeva a tali contestazioni evidenziando come (i) in realtà la società svolgeva significative funzioni che hanno portato reali benefici commerciali e (ii) in ogni caso, “non vi sarebbe stato un reale vantaggio fiscale, in quanto la società figlia, stabilita nel Regno Unito, generava utili e l’aliquota dell’imposta sulle società alla quali gli utili imponibili sono assoggettati in Lituania, ossia del 15%, è inferiore a quella applicata nel Regno Unti, che è del 24%”.
Ebbene, i giudici europei, incaricati di verificare la coerenza di detto accertamento con la norma antiabuso prevista dalla direttiva 2011/96/UE – cd. Direttiva Madre Figlia (“Direttiva”) – , hanno fornito, tra l’altro, le seguenti indicazioni che, ove possibile, si riportano integralmente considerata la relativa chiarezza:
- la disposizione antibuso della Direttiva non applica unicamente alle costruzioni comprendenti società intermedie posto che, “risulta che l’ipotesi di una società interposta è solo uno dei vari esempi di applicazione del principio del divieto di abuso” e, quindi, ben può trovare applicazione anche nel caso in cui la società della cui sostanza economica si discute non controlla altre entità;
- occorre tuttavia ricordare che la suddetta disposizione “adotta (…) una prospettiva complessiva consistente nell’individuare l’eventuale carattere non genuino di una costruzione alla luce di tutti i fatti e le circostanze pertinenti, poiché tale costruzione è caratterizzata dall’assenza di valide ragioni commerciali che riflettano la realtà economica” e che “non è sufficiente dimostrare che la costruzione non è posta in essere per valide ragioni commerciali che riflettono la realtà economica” poiché “occorre, inoltre, (…) che la costruzione sia posta in essere allo scopo principale di ottenere un vantaggio fiscale in contrasto con l’oggetto o con la finalità di quest’ultima”;
- le cd. Sentenze danesi[11] hanno chiarito che “la prova di una pratica abusiva richiede, da una parte, un insieme di circostanze oggettive dalle quali risulti che, nonostante il rispetto formale delle condizioni previste dalla normativa dell’Unione, l’obiettivo perseguito da tale normativa non sia stato conseguito e, dall’altra, un elemento soggettivo consistente nella volontà di ottenere un vantaggio derivante dalla normativa dell’Unione per mezzo della creazione artificiosa delle condizioni necessarie per il suo ottenimento”;
- e ciò con la conseguenza che “Se, per constatare che (…) la società madre, (…), ha ottenuto un vantaggio fiscale (…), fosse sufficiente qualificare la società figlia (…) come non genuina sulla base (di elementi fattuali quali, n.d.r.) una mancanza di risorse umane e materiali nonché l’assenza di un’attività economica reale, l’elemento soggettivo connesso al vantaggio fiscale non sarebbe (…) preso in considerazione quale elemento distinto che consente di dimostrare la qualificazione come abuso di diritto. Infatti, non si può ritenere che la qualificazione della società figlia come costruzione non genuina sia sufficiente per negare alla società madre l’esenzione (della Direttiva, n.d.r.)”;
- si rende quindi dirimente chiarire cosa debba intendersi per “vantaggio fiscale” posto che la Direttiva non fornisce alcun supporto al riguardo;
- ebbene, “Il solo tenore letterale della disposizione antiabuso (…) non impone di ritenere che il vantaggio fiscale debba essere valutato isolatamente. Al contrario (…) l’esigenza di tener conto di tutti i fatti e le circostanze, prevista da tale norma, depone a favore della presa in considerazione dell’effetto fiscale complessivo derivante dallo stabilimento della costruzione nello Stato membro in questione” infatti “In mancanza di una tale visione d’insieme, è parimenti difficile valutare l’elemento soggettivo richiesto per constatare l’esistenza di un abuso di diritto. A tal riguardo, non può essere escluso che possa sussistere un’altra giustificazione per aver posto in essere una costruzione in un altro Stato membro, con l’obiettivo di ottenere una riduzione dell’onere fiscale piuttosto che un vantaggio previsto da tale direttiva”;
- da quanto sopra si deve quindi concludere che “il fatto, dedotto dalla Nordcurrent, che gli utili realizzati dalla società figlia siano stati assoggettati, nel Regno Unito, a un’aliquota d’imposta superiore a quella dell’imposta sulle società che sarebbe stata applicata in Lituania (…) è un elemento pertinente, tra gli altri, per valutare se l’obiettivo principale o uno degli obiettivi principali dell’esistenza della società figlia alle date del pagamento dei dividendi di cui trattasi fosse quello di beneficiare di un vantaggio fiscale”.
Si tratta di chiarimenti fondamentali poiché ribadiscono, chiarendolo, e danno ulteriore forza dirimente a un principio già espresso dagli stessi giudici in un obiter dictum delle Sentenze danesi[12].
Ma facciamo un passo indietro.
Come noto, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea con le Sentenze Danesi ha indagato se e a quali condizioni una sub-holding localizzata in Europa (ma partecipata da soggetti extra-europei) che percepisce, tra l’altro, dividendi dalle società residenti in un altro Stato membro possa beneficiare dell’esonero da ritenuta su tali dividendi in base alla Direttiva.
Nei predetti arresti la Corte si è espressa nel senso di ritenere che, al fine di valutare la sussistenza di un abuso perpetrato tramite le descritte strutture di investimento, sarebbe “irrilevante il fatto che taluni beneficiari effettivi dei dividendi versati dalla società interposta siano fiscalmente residenti in uno Stato terzo che abbia concluso con lo Stato membro d’origine una convenzione” che, al pari delle Direttiva, esonera i suddetti dividendi da imposizione alla fonte; e ciò in quanto “l’esistenza di una convenzione di tal genere non può, di per sé, escludere un abuso” (cfr., punto 108 della sentenza del 26 febbraio 2019, cause riunite C‑116/16 e C‑117/16).
Subito dopo, tuttavia, gli stessi Giudici europei hanno precisato che “non può essere nemmeno escluso, a fronte di una situazione in cui i dividendi sarebbero stati esentati in caso di versamento diretto alla società con sede in uno Stato terzo, che la finalità della struttura di gruppo sia estranea a qualsiasi abuso” e, soprattutto, che “In tal caso, non potrà essere contestato al gruppo di aver optato per una struttura siffatta piuttosto che per un versamento diretto dei dividendi alla società medesima” .
In altre parole, i giudici europei nelle Sentenze Danesi hanno riconosciuto che qualora il contribuente sia in grado di dimostrare (secondo un approccio look-through) che i redditi avrebbero potuto comunque beneficiare dell’esonero da tassazione se corrisposti direttamente a favore di un soggetto residente in uno Stato terzo, non deve residuare in capo all’ente accertatore alcun margine per possibili contestazioni di abuso del diritto; e ciò senza che il contribuente debba ulteriormente addurre altre ragioni economiche o commerciali che giustifichino la costituzione dei veicoli societari intermedi.
A quanto consta, tuttavia, sino ad oggi le Sentenze Danesi sono state utilizzate dall’amministrazione finanziaria nel contesto della propria attività accertativa solamente per estrapolare gli elementi utili a valutare l’assenza di sostanza economica di una struttura[13], completamente omettendo le rilevantissime indicazioni che detti arresti forniscono circa l’elemento soggettivo dell’abuso del diritto.
In questo contesto, la Sentenza Nordcurrent è fondamentale avendo ribadito chiaramente che per poter qualificare una costruzione come “abusiva” non è sufficiente la relativa qualificazione come “non genuina” ma occorre anche dimostrare che i suoi ideatori perseguivano, attraverso la medesima, l’obiettivo principale di ottenere un vantaggio fiscale che, tuttavia, non deve essere valutato isolatamente ma in considerazione dell’effetto fiscale complessivo che lo stabilimento della costruzione asseritamente artificiosa comporta.
L’imprescindibile esistenza di un vantaggio fiscale ai fini della configurazione di un abuso del diritto, del resto, è stata recentemente ribadita anche dall’atto di indirizzo del Ministero dell’Economia e delle Finanze del 27 febbraio 2025 (“Atto di Indirizzo”) dove è stato espressamente e correttamente ribadito che “l’insussistenza del vantaggio fiscale indebito esclude (…) ab origine, l’esistenza di una condotta abusiva, rendendo non più necessaria la verifica circa la sussistenza degli ulteriori requisiti della fattispecie abusiva”.
Ebbene, alla luce di tutto quanto sin qui espresso, a parare di chi scrive, non dovrebbe più residuare alcun margine di contestazione da parte dell’amministrazione finanziaria italiana rispetto all’asserita imponibilità in Italia dei flussi equity related (i.e. dividendi o capital gain) percepiti (direttamente o per il tramite di Veicoli), con riferimento a partecipazioni italiane, da parte dei fondi di investimento di private equity extra europei stabiliti in paesi che consentono un adeguato scambio di informazioni e che siano soggetti a forme di vigilanza secondo normative estere che siano sostanzialmente equivalenti a quelle della direttiva AIFM, anche alla luce degli elementi di comparazione elencati dalla Sentenza Finanzmark (“Fondi Qualificati”).
Infatti:
- in caso di investimenti indiretti, in via del tutto preliminare, occorre rilevare come i Veicoli utilizzati dai Fondi Qualificati sono soggetti provvisti di una reale sostanza economica in quanto costituiti per evidenti ragioni extra-fiscali pienamente rispondenti alle normali logiche di mercato che guidano in Italia e all’estero il settore del private equity; e ciò con la conseguenza che contestazioni relative alla natura “conduit” di detti soggetti dovrebbero essere attentamente considerate in funzione della reale e genuina funzione da essi svolta e non presupponendone l’artificiosità;
- anche volendo (in considerazione della relativa natura fattuale da valutare caso per caso), per assurdo, assumere che i Veicoli non abbiano sostanza economica, comunque non si potrebbe configurare alcun abuso del diritto posto che, come accennato sopra e come si riassumerà di seguito, l’utilizzo dei Veicoli da parte dei Fondi Qualificati non permette il conseguimento di alcun vantaggio fiscale da parte delle relative strutture che, comunque, non avrebbero dovuto subire alcuna imposizione in Italia anche qualora avessero investito direttamente e non per il tramite di Veicoli; e ciò con la conseguenza che secondo quanto rilevato dalle Sentenze Danesi, dalla Sentenza Nordcurrent e dall’Atto di Indirizzo, non è possibile in radice che venga a configurarsi un abuso del diritto;
- i Fondi Qualificati sono pienamente equiparabili, sulla scorta delle indicazioni fornite dalla recente giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione e dalla Sentenza Finazmark, ai fondi di investimento italiani vigilati nonché ai fondi di investimento europei il cui gestore sia compliant con la direttiva AIFM (insieme ai fondi italiani, “Fondi Europei”); e ciò con la conseguenza che l’applicazione ai Fondi Qualificati di un regime fiscale diverso da quello applicabile ai Fondi Europei (e dunque diverso dalla pura esenzione da imposizione in Italia dei proventi equity related), rappresenta una palese violazione della libera circolazione dei capitali sancita dall’art. 63 del TFUE.
In conclusione.
Come già osservato in passato, i fondi di investimento stranieri rappresentano uno dei principali motori per il progresso e la sostenibilità dell’economia italiana. Grazie alla loro attenzione per il mercato nazionale le imprese domestiche hanno potuto conoscere processi espansivi notevolissimi, garantendo altresì stabilità economica per tutte le persone da questi impiegate. Si ritiene dunque di cruciale importanza, oltre che doveroso, garantire che agli operatori del settore sia assicurato un trattamento pienamente conforme ai principi unionali. È infatti evidente che il vantaggio macroeconomico garantito dai predetti investimenti esteri sia di gran lunga superiore rispetto ad un paventato, e comunque inesistente per i motivi sopra esposti, “pericolo di una perdita di gettito” (motivazione, quest’ultima, a cui peraltro, come giustamente notato dalla Corte di Cassazione, “la giurisprudenza comunitaria ha negato l’idoneità a legittimare trattamenti discriminatori” – cfr. sentenza n. 21475, del 06 luglio 2022).
[1] Cfr. L. ROSSI, M. AMPOLILLA, A. TARDINI, L’ormai necessaria tutela fiscale degli investimenti realizzati in Italia dai fondi di private equity extra UE, Diritto Bancario, Agosto 2022.
[2] Il riferimento, in particolare, è alle sentenze gemelle della Corte di Cassazione nn. 21454, 21475, 21480, 21481 e 21482 del 6 luglio 2022.
[3] Il riferimento, in particolare, è alle sentenze della Corte di Cassazione n. 11188, del 27 aprile 2023; n. 15060, del 29 maggio 2023; nn. 17637, 17657, 17665, 17667 e 17670, del 20 giugno 2023; n. 20787, del 18 luglio 2023; nn. 21581, 21591, 21718 e 21720, del 20 luglio 2023 e alle sentenze della Corte di Giustizia Tributaria di Primo Grado di Roma nn. 11354 e 11355 del 18 ottobre 2022.
[4] “Secondo una consolidata giurisprudenza, l’articolo 63, paragrafo 1, TFUE vieta in maniera generale le restrizioni ai movimenti di capitali tra gli Stati membri e tra gli Stati membri e i paesi terzi (…). La nozione di «restrizione», ai sensi della disposizione sopra citata, include le misure statali che hanno carattere discriminatorio per il fatto che istituiscono, direttamente o indirettamente, una disparità di trattamento tra i movimenti nazionali di capitali e i movimenti transfrontalieri di capitali che non corrisponde ad una diversità oggettiva di situazioni, e le quali sono pertanto idonee a dissuadere persone fisiche o giuridiche di altri Stati membri o di paesi terzi dall’effettuare movimenti transfrontalieri di capitali (…). Così, il fatto che uno Stato membro riservi ai redditi versati agli organismi di investimento collettivo non residenti un trattamento meno favorevole di quello riservato ai redditi versati ad organismi di investimento collettivo residenti è idoneo a dissuadere gli organismi stabiliti in uno Stato diverso da tale Stato membro dall’effettuare investimenti in quest’ultimo e costituisce, di conseguenza, una restrizione della libera circolazione dei capitali vietata, in linea di principio, dall’articolo 63 TFUE” – cfr. para. 44, 45 e 46 della Sentenza Finanzamt.
[5] Il regime austriaco oggetto della decisione, infatti, prevede espressamente che i fondi di investimento locali siano soggetti fiscalmente trasparenti e che la tassazione dei relativi proventi avvenga direttamente in capo ai relativi quotisti; e ciò con la conseguenza che la conclusione della sentenza contiene specifici riferimenti alla circostanza che i proventi del fondo extra-UE siano imputati e tassati in capo ai relativi investitori. In via del tutto differente, invece, i fondi di investimento mobiliari italiani vigilati sono soggetti al generale regime di esenzione previsto dall’art. 73, comma 5-quinquies, del TUIR a prescindere da qualunque considerazione in merito alla distribuzione e conseguente tassazione dei relativi proventi in capo ai quotisti; del pari, anche la recente normativa di esenzione sui dividendi e capital gain realizzati da fondi di investimento europei UCITS/AIFMD compliant trova applicazione a prescindere da qualunque considerazione relativa a tali aspetti. D’altronde la stessa Corte di Giustizia, nella sentenza Santander (cause riunite da C‑338/11 a C‑347/11) ha chiarito (cfr. relativi paragrafi 35 e 41) che il confronto, finalizzato a valutare l’esistenza di una discriminazione contraria all’ordinamento comunitario tra la normativa nazionale applicabile ai fondi di investimento residenti e quella applicabile ai fondi di investimento non residenti, deve essere effettuato solo a livello del fondo d’investimento quando il regime applicabile ai fondi residenti dipende unicamente dalla residenza del fondo e non è subordinato all’assoggettamento a tassazione di tali proventi in capo ai detentori delle relative quote in occasione della successiva distribuzione (e ciò con la conseguenza che la situazione fiscale dei titolari delle quote resta irrilevante ai fini del confronto).
[6] Più tecnicamente, una delle sette series di un trust stabilito in Delaware.
[7] È noto infatti che la soggezione al diritto comunitario della normativa domestica comporta l’obbligo degli organi giurisdizionali e dell’amministrazione finanziaria di interpretare la normativa nazionale in modo conforme ai principi unionali al fine di renderli direttamente applicabili nel nostro ordinamento e che, ove tale interpretazione conforme non risulti possibile, i giudici e gli enti impositori hanno “l’obbligo di disapplicare le norme interne o di diritto internazionale pattizio contrastanti con le disposizioni e i principi di diritto comunitario … che abbiano diretta applicabilità” (cfr., sentenza della Corte di Cassazione, n. 21482, del 6 luglio 2022). Al riguardo, valga qui osservare che detto principio, seppur con riferimento a normative diverse da quella in disamina, è già stato più volte applicato dall’Agenzia delle Entrate che, mediante appositi documenti di prassi, ha reso chiarimenti pubblici “al fine di evitare ogni profilo di incompatibilità (…) con il diritto comunitario” delle normative domestiche di volta in volta analizzate.
[8] Rectius, in Stati che consentono un adeguato scambio di informazioni.
[9] Per completezza, occorre precisare che, nonostante la sentenza si sia espressa rispetto a una fattispecie che vede coinvolto un fondo di investimento mobiliare “aperto”, non si rinvengono motivi utili a giustificare un diverso trattamento per i fondi mobiliari “chiusi”. Ciò che, come già rilevato (cfr. L. ROSSI, M. AMPOLILLA, A. TARDINI, L’ormai necessaria tutela fiscale degli investimenti realizzati in Italia dai fondi di private equity extra UE, Diritto Bancario, Agosto 2022), d’altronde, sarebbe coerente con la scelta del legislatore italiano di includere tra i fondi UE/SEE beneficiari del regime di esenzione introdotto dalla Legge di Bilancio 2021 anche i fondi “AIFMD compliant” e, dunque, anche fondi “chiusi”.
[10] Come già rilevato in un precedente contributo, infatti, non è possibile giustificare la differenza di trattamento fiscale riservata ai fondi non residenti nell’Unione Europea con l’esigenza di tutelare l’efficacia dei controlli fiscali ogniqualvolta il fondo d’investimento straniero sia stabilito in un Paese che consente un adeguato scambio di informazioni con l’Italia che sia funzionale, tra l’altro, a scongiurare l’evasione fiscale. Per ogni ulteriore dettaglio al riguardo, cfr. cfr. L. ROSSI, M. AMPOLILLA, A. TARDINI, L’ormai necessaria tutela fiscale degli investimenti realizzati in Italia dai fondi di private equity extra UE, Diritto Bancario, Agosto 2022.
[11] Il riferimento è alle due sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 26 febbraio 2019 (sentenza cause riunite C-116/16 e C-117/16 e sentenza cause riunite C-115/16, C-118-16, C-119/16 e C-299/16).
[12] Per un’analisi di dettaglio sul contenuto di dette sentenze, cfr. L. ROSSI, M. AMPOLILLA, Le holding nella giurisprudenza della Corte di Giustizia, in Bollettino Tributario n. 3-2020, p. 189 e L. ROSSI, M. AMPOLILLA, Direttiva madre-figlia – Holding estere detenute da fondi internazionali e libertà di circolazione dei capitali, Diritto Bancario, Settembre 2020.
[13] Il riferimento, in particolare, è ai seguenti elementi:
- il fatto che i dividendi vengano ritrasferiti, integralmente o quasi ed entro un lasso di tempo molto breve successivo al loro percepimento, dalla società percettrice ai propri soci;
- la circostanza che la società intermedia realizzi “solo un utile imponibile insignificante”;
- l’assenza di una effettiva attività economica che può essere dedotta “da un’analisi complessiva dei pertinenti elementi attinenti, in particolare, alla gestione della società, al suo bilancio d’esercizio, alla struttura dei suoi costi ed ai costi realmente sostenuti, al personale impiegato nonché ai locali ad alle attrezzature di cui dispone” – cfr. para. 104 della sentenza cause riunite C-116/16 e C-117/16;
- le modalità di finanziamento dell’operazione tramite contratti infragruppo e l’eventuale sottocapitalizzazione della società madre;
- l’assenza, nelle società interposte, del potere di disporre economicamente dei dividendi percepiti, rilevando a questi fini non solo obblighi contrattuali o legali che impongono alla società madre percettrice dei dividendi di ritrasferirli a terzi, ma anche il mero fatto che “fondamentalmente” i suddetti dividendi vengano ritrasferiti.