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Giurisprudenza

Recesso del socio: nulla la clausola che liquida la partecipazione sociale al valore nominale

9 Aprile 2020

Mirta Morgese, Notaio, Dottoranda di Ricerca in Impresa, Lavoro e Istituzioni, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

Tribunale di Roma, 15 gennaio 2020, n. 903 – Pres. Di Salvo, Rel. Cardinali

Di cosa si parla in questo articolo

Non possono ritenersi legittime, salvo che la legge non lo consenta in considerazione della natura di società a partecipazione pubblica dell’ente, clausole che attribuiscano al socio uscente una liquidazione della partecipazione sociale pari al suo valore nominale, in deroga all’art. 2437-ter c.c., non tenendo conto dell’effettiva consistenza patrimoniale della società, delle sue prospettive reddituali e dell’eventuale valore di mercato delle azioni, neanche ove si tratti di recesso esercitato in virtù di una previsione statutaria. La nullità della clausola determina la diretta applicazione dei criteri legali.

L’art. 2437-ter, comma 3° c.c. permette l’inserimento nello statuto, per determinare il valore della partecipazione sociale del socio recedente, solo di criteri integrativi rispetto a quelli legali, il cui utilizzo può condurre anche ad una valutazione peggiorativa rispetto a quella ottenuta considerando i soli parametri legislativi, ma mai disancorata all’effettiva consistenza patrimoniale della società.

La questione esaminata dalla Sezione Specializzata in materia di impresa del Tribunale di Roma attiene l’accertamento del diritto di ottenere la liquidazione della propria partecipazione sociale, da parte del socio recedente, in base ai criteri previsti dall’art. 2437-ter c.c., là dove lo statuto della società: “Cassa Depositi e Prestiti S.p.a.”, stabilisce per le azioni privilegiate la necessità di attenersi, invece, al loro valore nominale. Nel caso oggetto della decisione, il recesso era stato, peraltro, esercitato in virtù di una specifica previsione statutaria e non in una delle ipotesi inderogabili previste dalla legge, ai sensi dell’art. 2437, comma 1° c.c.

Pertanto, i giudici vengono investiti, prima di tutto, del problema di verificare la derogabilità del principio dell’equa valorizzazione delle azioni in sede di recesso, da parte di una società, come “Cassa Depositi e Prestiti S.p.a.”, a partecipazione pubblica, di diritto singolare, frutto della trasformazione dell’ente “Cassa Depositi e Prestiti” in società per azioni, ai sensi del D.L. n. 269/2003, convertito il L. n. 326/2003. In secondo luogo, agli stessi viene richiesto di accertare se i criteri previsti dal legislatore, ai sensi art. 2437-ter c.c., siano vincolanti anche per i casi di recesso previsti da statuto. In merito al primo quesito, il Tribunale di Roma ritiene che la natura pubblicistica della società in questione non abiliti lo Statuto alla deroga di disposizioni di legge cogenti, in mancanza di un provvedimento legislativo ad hoc che lo permetta. Si tratta di un ragionamento basato sulla gerarchia delle fonti, per cui la legge può essere derogata solo da altro provvedimento normativo di rango primario. Sul punto, si ritiene che l’art. 36, comma 3-septies del D.L. n. 179/2012, come modificato dalla legge di conversione n. 221/2012 (il quale consente l’utilizzo del criteri stabiliti dallo Statuto della “Cassa Depositi e Prestiti S.p.a.” in occasione del recesso esercitato dai titolari di azioni privilegiate per sfuggire alla conversione automatica), non abbia efficacia retroattiva e, quindi, non sia in grado di modificare i termini della controversia, sorta in merito a fatti accaduti prima della sua entrata in vigore. I giudici rifiutano, inoltre, di considerare la regola statutaria contraria al dettato dell’art. 2437-ter c.c. una conseguenza necessaria del contesto in cui gli azionisti privati sono entrati nella compagine sociale di “Cassa Depositi e Prestiti S.p.a.”, là dove l’acquisto dal socio unico pubblico è avvenuto senza la corresponsione di alcun sovrapprezzo, che tenesse conto dell’effettiva consistenza patrimoniale della società. Sotto tale profilo, il Tribunale Capitolino sottolinea come questa circostanza attenga i rapporti tra i soci (socio pubblico e socio privato) e non sia in grado di incidere sui rapporti tra soci e società, quindi sui diritti dei primi, in ordine alla liquidazione della propria partecipazione in caso di recesso, verso la seconda.

Quanto al successivo quesito, ovvero la possibilità di non attenersi ai parametri stabiliti dall’art. 2437-ter c.c., quando l’exit è esercitata in base ad una previsione statutaria, si sottolinea come la menzionata norma non distingua tra ipotesi legali e convenzionali di recesso. Una volta che i soci hanno eletto un’ulteriore fattispecie, quale causa dello scioglimento volontario del rapporto sociale, sorgono le stesse istanze di tutela che hanno spinto il legislatore a garantire una liquidazione equa nei riguardi del socio uscente. Dunque, i criteri della consistenza patrimoniale e delle prospettive reddituali della società, unitamente all’eventuale valore di mercato delle azioni, dettati dalla legge, devono informare la liquidazione della partecipazione del socio, in tutti i casi in cui questi eserciti il diritto di exit e non solo nelle ipotesi legali inderogabili di recesso.

 

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