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Giurisprudenza

Presunzione di distribuzione ai soci degli utili extracontabili nelle Srl a base ristretta

15 Novembre 2016

Francesco Palladino

Cassazione Civile, Sez. VI, 27 settembre 2016, n. 19013

Di cosa si parla in questo articolo

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza indicata in epigrafe, si è pronunciata sull’annosa questione afferente la validità o meno dell’accertamento del maggior reddito di capitale effettuato in capo ai soci di società a ristretta base sociale, “confezionato” sulla base della presunta distribuzione a questi dei maggiori utili accertati in capo alla società partecipata.

Più precisamente, l’Amministrazione finanziaria notifica, nel caso di specie, due o più avvisi di accertamento: un avviso alla società che ha prodotto l’utile extracontabile accertato dall’Ufficio, mentre a ciascun socio notifica un ulteriore provvedimento impositivo concernente la parte di reddito imputabile in ragione della quota partecipativa da ciascuno detenuta[1].

Sul punto, la Suprema Corte, con l’ordinanza in rassegna, richiamando il suo precedente indirizzo[2], ha affermato che “in tema di accertamento delle imposte sui redditi, nel caso di società di capitali a ristretta base partecipativa, è legittima la presunzione di attribuzione ai soci degli eventuali utili extracontabili accertati, rimanendo salva la facoltà del contribuente di offrire la prova contraria del fatto che i maggiori ricavi non sono stati distribuiti, ma accantonati dalla società, ovvero da essa reinvestiti”.

Altra giurisprudenza tributaria[3], pronunciandosi sulla portata applicativa della presunzione in discorso, ha osservato che gli elementi da cui si può dedurre l’effettiva distribuzione ai soci degli utili extra-contabili sono rinvenibile nella complicità, nel rapporto di solidarietà e di reciproco controllo dei soci che normalmente caratterizzano la gestione sociale. In sostanza, tali “requisiti” giurisprudenziali individuerebbero i caratteri di gravità, precisione e concordanza, qualificanti le presunzioni semplici ex articolo 2729 del Codice civile.

Orbene, sulla base della pronuncia in commento, risulterebbe pertanto possibile contestare all’Ufficio la pretesa creditoria, azionata nei confronti dei soci, esclusivamente ove sia possibile dimostrare che la ricchezza evasa (gli utili occulti) è stata reinvestita nell’attività sociale e dunque mai distribuita.

Occorre a questo punto rilevare che, così operando, mentre il contribuente si troverebbe costretto a fornire una prova certa negativa (non aver percepito una determinata somma), di fatto una probatio diabolica, che stravolgerebbe le regole della parità delle armi insite nel processo tributario, per l’Amministrazione finanziaria basterebbe, invece, dimostrare la sussistenza della ristretta base partecipativa affinché possa ritenersi applicabile la presunzione de qua.

In relazione a quest’ultimo aspetto, merita di essere segnalato il diverso filone giurisprudenziale[4] rispetto l’ordinanza in oggetto – che sembrerebbe ammettere la presunzione in discorso esclusivamente sulla base della ristretta base partecipativa – secondo cui “affinché i redditi extrabilancio, sul cui conseguimento da parte della società vi sia assoluta certezza, possano essere legittimamente tassati in capo ai soci, è necessario che sussista la prova che tali disponibilità siano stati effettivamente distribuite. La presenza di un giudicato penale favorevole al contribuente costituisce prova della mancata distribuzione ai soci”. Ne consegue che non può trovare automatica applicazione il principio della automatica traslazione di ricavi non contabilizzati dalla società a ristretta base azionaria ai soci come reddito imponibile ai fini Irpef. Pertanto, l’Amministrazione sarà tenuta ad avvalorare altri elementi indiziari che consentano di dimostrare l’effettiva distribuzione dei maggiori utili accertati.

Con riferimento, invece, alla prova contraria posta a carico del contribuente va evidenziato che alcune Corti di merito[5] hanno chiarito che l’estraneità del socio all’esercizio dell’attività d’impresa, oltre quindi alla “facoltà del contribuente di offrire la prova contraria del fatto che i maggiori ricavi non sono stati distribuiti”, costituisce un valido elemento indiziario che ben può condurre a superare la presunzione di distribuzione degli utili occulti.

In conclusione, considerato l’altalenante orientamento giurisprudenziale formatosi sulla materia, si può ritenere che il socio di una società a ristretta base sociale, allo scopo di evitare la soccombenza in un eventuale giudizio di accertamento, potrebbe sicuramente dimostrare che la società partecipata non ha distribuito gli utili extra-bilancio accertati dal Fisco; in via subordinata potrebbe inoltre dimostrare la sua estraneità alla gestione dell’impresa nella consapevolezza che tale prova contraria è stata più volte avallata dalla giurisprudenza di merito non anche da quella di legittimità.

 


[1] Di Gennaro G., L’onere della prova contraria alla presunta distribuzione di utili extracontabili, in “Il Fisco”, n. 17/2014, pag. 1620.

[2] Cass., 8954/2013; 5076/2011; 18640/2008; 9519/2009; 7564/2003; 6780/2003; 7564/2003; 16885/2003.

[3] Cass., 17984/2012; 3896/2008; 9519/2009; 14006/2003; 7174/2002; 4695/2002.

[4] CTR Puglia, 439/2008; CTR Puglia, 19/2012; CTR Marche, 6/2009; CTR Toscana, 144/2012; 128/2010; Cass., 14046/2009; 9519/2009.

[5] CTR Puglia, 40/2011; CTR Toscana, 396/2011; 62/2009.

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