Il presente contributo analizza il tema delle molestie e dei conflitti nel luogo di lavoro, soffermandosi sui principi generali che lo disciplinano, sugli ultimi orientamenti giurisprudenziali e su alcune casistiche particolari.
1. Considerazioni generali.
Il tema delle molestie e dei conflitti nel luogo di lavoro è un argomento complesso, in quanto riguarda dinamiche relazionali non sempre accertabili e/o “controllabili”, ma sicuramente rilevanti perché si tratta di vicende che influiscono sulla serenità dell’ambiente e quindi, in ultima analisi, sulla produttività.
In particolare, al fine di facilitare l’individuazione delle molestie, in occasione della Festa della Donna (precisamente, il giorno 8 marzo 2021), l’INAIL ha pubblicato un testo (dal titolo “Riconoscere per prevenire i fenomeni di molestia e violenza sul luogo di lavoro”), con l’apprezzabile intento di fornire elementi che ne facilitino il riconoscimento.
Secondo l’INAIL, per riconoscere una molestia (sessuale) occorre definirne i tratti essenziali e nello specifico: a) molestie fisiche: toccare, abbracciare, baciare, fissare; b) molestie verbali: allusioni sessuali, commenti, scherzi, battute a sfondo sessuale; c) molestie informatiche: messaggi, email o sms offensivi o sessualmente espliciti, avances inappropriate e/o offensive sui social network, ecc..
Come detto, l’accertamento di un comportamento che risulti illegittimo (anche sotto il profilo disciplinare) non è agevole, in quanto, in sede giudiziale, è stato ritenuto, ad esempio, che comportamenti percepiti dal soggetto come lesivi della propria dignità sono talvolta “fisiologici” nel luogo di lavoro, che è, per sua natura, un luogo di tensioni e di possibili conflittualità (in tal senso, Cass. 19 gennaio 2024, n. 2084), ferma restando, comunque, l’attenzione in sede giudiziale a situazioni di “conflitto” (prescindendo dall’eventuale configurabilità di “molestie sessuali”).
In tale ottica, ad esempio, la Suprema Corte ha recentemente confermato la decisione della Corte di merito che aveva ritenuto legittima una sanzione disciplinare inflitta al dipendente di una Banca per aver esercitato “violenze psicologiche e fisiche” nei confronti di un collega, ritenendo altresì legittimo l’impatto di tale comportamento sulla valutazione aziendale riguardo il possibile conferimento di un incarico manageriale all’autore del comportamento contestato (Cass. 4 giugno 2025, n. 15027), di fatto negato, in quanto, secondo la valutazione della Corte di merito (non censurabile in sede di legittimità), si trattava di comportamenti “significativi di una incapacità di gestione delle situazioni, invece richiesta ad un manager”.
In caso di molestie/conflitti nel luogo di lavoro, è prioritario per il datore adottare tempestivamente adeguati provvedimenti, non solo per proteggere i dipendenti, ma anche per evitare responsabilità (risarcitorie) che potrebbero configurarsi ai sensi dell’art. 2087 c.c., che prevede l’obbligo di adottare le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei dipendenti; si tratta, quindi, di intervenire affinchè possa escludersi la sussistenza di comportamenti datoriali (anche solamente colposi) che consentano il perdurare di un ambiente di lavoro stressogeno (sul punto, tra le tante, Cass. 7 febbraio 2023, n. 3692).
Importante ricordare anche l’esistenza della normativa rinvenibile nel Testo Unico sulla Sicurezza nei luoghi di lavoro (D.Lgs. n. 81/2008), che obbliga, tra l’altro, il datore di lavoro a valutare tutti i rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori, compresi quelli derivanti dallo stress lavoro-correlato (ovvero, i cosiddetti “rischi psico-sociali”, nei quali potrebbero essere inclusi anche quelli derivanti da comportamenti violenti o da molestie).
Per completezza, è anche opportuno ricordare, rispetto a possibili profili risarcitori (salvi, comunque, i rigorosi oneri probatori delle parti), che si rimane al di fuori della responsabilità datoriale ex art. 2087 c.c. laddove i pregiudizi lamentati dal lavoratore derivino dalla qualità intrinsecamente ed inevitabilmente pericolosa o usurante dell’ordinaria prestazione lavorativa, ovvero quando i fatti rappresentati consistano in disagi o lesioni di interessi privi di rilevanza giuridica, come tali non risarcibili, essendo stato già ritenuto, ad esempio, che le condizioni di lavoro ordinariamente usuranti dal punto di vista psichico – per effetto di contatti umani in un contesto organizzato gerarchicamente – non sono in sé ragione di responsabilità datoriale, se non si ravvisino gli estremi della colpa (cfr. Cass. 2084/2024, cit.).
2. Gli orientamenti della recente giurisprudenza di legittimità.
Nell’ambito di alcune recenti fattispecie esaminate in sede giudiziale, si ricorda che la Corte di Cassazione ha considerato legittimo il licenziamento di un dipendente che aveva rivolto allusioni verbali e fisiche a sfondo sessuale ad una collega (a tale comportamento non erano seguite aggressioni fisiche a contenuto sessuale), rilevando come “il carattere comunque indesiderato della condotta, pur senza che ad essa conseguano effettive aggressioni fisiche a contenuto sessuale, risulti integrativo del concetto e della nozione di molestia, essendo questa e la conseguente tutela accordata, fondata sulla oggettività del comportamento tenuto e dell’effetto prodotto, con assenza di rilievo della effettiva volontà di recare una offesa” (Cass. 31 luglio 2023, n. 23295).
Inoltre, la Corte di Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento per giusta causa di un lavoratore, che aveva intrattenuto una relazione con due colleghe, ponendo in essere comportamenti illegittimi (con ciò ribadendo la rilevanza disciplinare di comportamenti extralavorativi). Con riferimento alla fattispecie esaminata, la Suprema Corte ha ritenuto corretta la ricostruzione fattuale operata dalla Corte di merito, che aveva rilevato un contegno del lavoratore consistente “in azioni moleste”, ancorché non chiaramente contrassegnato da “prevalenti spunti psichici di ordine sessuale”, approfondito nei suoi “aspetti negativi e allarmanti della relazione” con le due colleghe (Cass. 14 dicembre 2023, n. 35066, che si è soffermata sulla nozione di “molestie” sul lavoro, ricordando, nel solco di principi già enunciati, che le molestie consistono in “comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni anche connesse al sesso e aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo”).
In particolare, la sentenza sopra citata ha richiamato la Convenzione OIL n. 190 sull’eliminazione della violenza e delle molestie sul luogo di lavoro, adottata a Ginevra il 21 giugno 2019, e la relativa Raccomandazione n. 206, provvedimenti che hanno fornito un quadro organico ed unitario per prevenire ed affrontare molestie e/o violenza sul luogo di lavoro, promuovendo “il rafforzamento della legislazione, delle politiche e delle istituzioni nazionali al fine di rendere effettivo il diritto ad un luogo di lavoro libero da violenza e da molestie. E ciò per avere riconosciuto l’inaccettabilità e l’incompatibilità della violenza e delle molestie con il lavoro dignitoso”, elaborando “la prima definizione riconosciuta a livello internazionale di violenza e molestie legate al lavoro, includendo la violenza e le molestie basate sul genere. E tale definizione si riferisce a “un insieme di pratiche e di comportamenti inaccettabili” che “si prefiggano, causino o possano comportare un danno fisico, psicologico, sessuale o economico” e si estende a tutti i lavoratori e le lavoratrici, includendo tirocinanti e apprendisti e apprendiste, individui che svolgano il ruolo o l’attività di imprenditore o imprenditrice, nel settore pubblico e privato, in imprese nel settore formale e informale, in zone rurali e urbane” (Cass. 35066/2023, cit.).
3. Altre considerazioni e fattispecie.
Quanto al tema delle molestie sessuali in ambito lavorativo, è opportuno ricordare che la persona offesa non è solo la donna.
Infatti, recentemente, la Corte di Cassazione – accogliendo il ricorso di un’azienda – ha evidenziato che è possibile configurare una giusta causa nel caso di licenziamento intimato ad una lavoratrice per molestie sessuali nei confronti di un collega (Cass. 22 maggio 2025, n. 13748).
In particolare, la Suprema Corte ha ricordato che, al fine di valutare la sussistenza di una giusta causa, occorre raffrontare i fatti contestati ed accertati con valori “pregnanti, ormai radicati nella coscienza generale ed espressione di principi generali dell’ordinamento”, senza che sia quindi sufficiente – come ritenuto dalla Corte di merito – escludere la giusta causa per mancanza di significativi effetti dannosi per l’organizzazione aziendale, essendo facilmente comprensibile che la decisione della vittima di limitare i contatti personali, al fine di evitare il reiterarsi delle molestie, comporta “inefficienze e rallentamento del processo produttivo aziendale” (cfr. Cass. 13748/2025, cit.).
E’ stato inoltre precisato, richiamando una fattispecie “sovrapponibile”, che “costituisce innegabile portato della evoluzione della società negli ultimi decenni la acquisizione della consapevolezza del fatto qualunque intrusione nella sfera intima e assolutamente riservata della persona, effettuata peraltro con modalità insistenti e persistenti e senza curarsi della presenza di terze persone, deve essere valutata tenendo conto della centralità che nel disegno della Carta costituzionale assumono i diritti inviolabili dell’uomo (art. 2), il riconoscimento della pari dignità sociale, “senza distinzione di sesso”, il pieno sviluppo della persona umana (art. 3), il lavoro come ambito di esplicazione della personalità dell’individuo (art. 4), oggetto di particolare tutela “in tutte le sue forme ed applicazioni” (art. 35)” (Cass. 13748/2025, cit., che ha ricordato come la tutela apprestata dall’ordinamento si rinvenga anche nell’art. 26, comma 1, del d.lgs. n. 198/2006 – Codice delle pari opportunità tra uomo e donna – che considera discriminazioni anche le molestie).
Non si ravvisa, invece, un “nuovo” orientamento (genericamente rilevato in alcuni commenti) nella recente sentenza della Corte di Cassazione n. 15549 dell’11 giugno 2025, che ha confermato la legittimità di una sanzione disciplinare inflitta ad un dipendente per molestie verbali, a sfondo sessuale, nei confronti di una collega.
La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso proposto dal lavoratore per motivi che nulla hanno a che vedere con il tema della rilevanza disciplinare del provvedimento comminato (è stato esaminato, ad esempio, il tema dell’asserita genericità della contestazione), essendo, d’altra parte, facilmente intuibile, da un lato, che le molestie possono consistere anche in espressioni verbali e, dall’altro, che è del tutto irrilevante, ai fini disciplinari, l’esistenza di una molteplicità di episodi analoghi a quello contestato.