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Giurisprudenza

La rinuncia al compenso dell’amministratore non può desumersi dalla mancata richiesta

16 Marzo 2020

Francesco Pezone

Cassazione Civile, Sez. I, 13 febbraio 2020, n. 3657 – Pres. Campanile, Rel. Falabella

Di cosa si parla in questo articolo

La rinuncia tacita al compenso da parte dell’amministratore di una società di capitali non può desumersi soltanto dall’omessa richiesta dell’emolumento, indipendentemente dalle ragioni a fondamento dell’inerzia del titolare del diritto, ma deve fondarsi su un comportamento concludente dell’amministratore, che riveli in modo univoco la sua effettiva e definitiva volontà dismissiva del diritto.

Nella pronuncia in commento, la Suprema Corte cassa con rinvio una sentenza della Corte d’Appello di Perugia, che aveva rigettato la domanda di condanna formulata da un ex consigliere di amministrazione nei confronti della società per il pagamento del compenso, qualificando come atto di rinuncia tacita alla remunerazione la circostanza che l’amministratore non avesse mai avanzato alcuna richiesta di pagamento alla società. In particolare, la Corte territoriale aveva attribuito rilevanza alle ragioni poste a fondamento del comportamento omissivo dell’amministratore ricorrente, il quale – come emerge pacificamente dai fatti – si era astenuto dal richiedere il compenso, in quanto (erroneamente) convinto del fatto che anche gli altri componenti dell’organo gestorio avessero rinunciato a percepire il proprio. Dunque, ha ritenuto il giudice di merito che l’amministratore avrebbe dovuto, al più, formulare domanda di annullamento dell’atto di rinuncia tacita per errore.

La Cassazione, di contro, esclude che, in tema di diritto al compenso degli amministratori di società di capitali, l’omessa richiesta di pagamento possa qualificarsi come atto di rinuncia tacita.

L’incarico di amministratore si presume oneroso e il relativo compenso non è dovuto solo quando una specifica clausola dello statuto o l’atto di conferimento dell’incarico prevedano la gratuità dell’ufficio ovvero nel caso in cui sia l’amministratore stesso a rinunciarvi – trattandosi di un diritto di natura patrimoniale, in quanto tale disponibile. Tale rinuncia può essere anche tacita. Tuttavia, non costituisce rinuncia al compenso la mera inerzia dell’amministratore, che non lo richiede alla società: salvi i casi in cui grava sul creditore l’onere di rendere una dichiarazione volta a far salvo il proprio diritto, infatti, l’inerzia non può essere interpretata quale tacita manifestazione della volontà di rinunciare al credito. La rinuncia, pertanto, deve desumersi da un comportamento concludente del titolare, oggettivamente incompatibile con la volontà di esercitare il diritto e che riveli in modo univoco la sua volontà abdicativa.

Dopo aver chiarito che i motivi a fondamento dell’inerzia di una parte restano relegati nella sfera interna alla stessa e non sono perciò idonei ad attribuire alla condotta omissiva il carattere di una manifestazione di volontà, la Corte argomenta la propria decisione soffermandosi sul valore giuridico del silenzio. Quest’ultimo, in particolare, può assumere rilievo negoziale solo quando, in determinati contesti o situazioni, la condotta inattiva della parte non può essere ignorata, perché genera nei terzi il legittimo affidamento sul fatto che essa costituisca manifestazione di volontà. Diversamente, nei casi di silenzio puro e semplice, quando si ha mera inattività della parte, la condotta omissiva di quest’ultima – salvi i casi in cui la legge dispone diversamente – non assume alcuna valenza giuridica, perché il contegno non ingenera alcun legittimo affidamento circa il sorgere del negozio.

Affinché si configuri una rinuncia al compenso da parte degli amministratori, dunque, non è sufficiente la mancata richiesta di pagamento e le motivazioni che avevano determinato l’inerzia dell’amministratore non sono idonee a far assumere valore negoziale alla condotta omissiva dello stesso.

 

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