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Editoriali

La responsabilità civile d’impresa nella proposta di Direttiva U.E. on Corporate Sustainability Due Diligence

28 Marzo 2022

Roberto Natoli

Professore Ordinario di Diritto dell’Economia e dei Mercati Finanziari, Università di Palermo

Di cosa si parla in questo articolo
ESG

L’obiettivo di integrare le esigenze di sostenibilità ambientale nelle scelte d’impresa è già presente in alcune discipline nazionali recenti come il d. lgs. 254/2016, che impone a società per azioni di grandi dimensioni[1] di redigere i piani di gestione dei rischi ambientali e di trasmettere tale informazione al mercato. Almeno per gli enti rientranti nell’ambito soggettivo di applicazione del d. lgs. 254/2016 cit. è dunque lecito chiedersi se, nel caso in cui si concretizzino i rischi che si dovevano prevenire, sorgano specifiche responsabilità risarcitorie.

Una risposta positiva sembra trovare oggi sostegno nei recenti sviluppi del diritto dell’Unione europea e, in particolare, nella proposta di Direttiva sulla Corporate Sustainability Due Diligence.

La spinta all’approvazione di una Direttiva di così ampio respiro è stata impressa dal Parlamento europeo, che il 10 marzo 2021 ha indirizzato alla Commissione una proposta molto ambiziosa[2] che conteneva, però, una disposizione sulla responsabilità civile delle imprese dalla formulazione fin troppo generica, tant’è che s’era subito paventato il rischio sia di «azioni pretestuose quando non ricattatorie che potrebbero impegnare le Corti europee in contenziosi molto complessi e con limitati contatti, di fatto, con i rispettivi ordinamenti»[3], sia di interpretazioni giudiziali eccessivamente rigorose. L’art. 19, c. 2, della proposta di Direttiva del Parlamento prevedeva, infatti, il dovere per gli Stati membri di istituire «un regime di responsabilità in virtù del quale le imprese possano, conformemente al diritto nazionale, essere ritenute responsabili e offrire riparazione in relazione a qualsiasi danno derivante da impatti negativi effettivi o potenziali sui diritti umani, sull’ambiente o sulla buona governance che esse, o imprese da esse controllate, hanno causato o cui hanno contribuito con atti od omissioni».

L’intraprendenza, forse pure eccessiva, del Parlamento Europeo dimostra però che il tema della responsabilità ambientale delle imprese ha superato lo stadio del wishful thinking, come confermato, nelle legislazioni nazionali, dalle recenti leggi francese[4], tedesca[5] e belga[6].

D’altro canto, la stessa idea di gravare le imprese di specifici obblighi di cura di interessi diffusi, come quello ambientale, da un lato rappresenta la realistica presa d’atto dell’insufficienza delle policies che hanno riposto troppa fiducia nel ruolo propulsivo degli investitori istituzionali nell’orientare le scelte del management verso investimenti ESG e, d’altro lato, tradisce i dubbi sull’effettiva capacità di tali soggetti di monitorare concretamente le attività delle società nelle quali investono – nonché, forse, il timore che gli investimenti ESG possano dar vita a politiche di mero greenwashing[7].

La Commissione, sia pur temperandone certe soluzioni estreme, ha preso sul serio la proposta di Direttiva del Parlamento e ha licenziato, il 23 febbraio 2022, la propria proposta di Direttiva on Corporate Sustainability Due Diligence[8]. Di tale proposta, molto ricca e ambiziosa, si prenderanno in esame soltanto i due aspetti della responsabilità civile delle imprese e della partecipazione degli stakeholders alle scelte gestorie.

L’art. 22, in particolare, prevede un sistema di responsabilità per le società che non adempiano agli obblighi di cui agli artt. 7 e 8 se, a seguito di tale inadempimento, si verifica una conseguenza dannosa che l’adozione di adeguate misure preventive avrebbe consentito di individuare, prevenire, mitigare, evitare o almeno minimizzare.

In questo sistema, il giudizio di responsabilità si sposta dunque sull’adeguatezza delle misure organizzative adottate, che però non vengono lasciate alla concretizzazione caso per caso della clausola generale, ma vengono, dagli artt. 6 e 7, analiticamente dettagliate.

L’art. 6, c. 1, prevede infatti che le imprese adottino misure adeguate a identificare gli impatti negativi sull’ambiente derivanti dall’attività propria e di tutte le imprese che operano lungo la catena del valore; l’art. 7, c. 1, prevede, invece, che le imprese adottino misure adeguate a prevenire o, se non è possibile prevenire, minimizzare i potenziali impatti ambientali negativi derivanti dall’attività propria e di tutte le imprese che operano lungo la catena del valore.

È però il capoverso dell’art. 7 a dettare analitiche regole organizzative, poiché dispone che le società debbano: a) sviluppare e attuare un piano di prevenzione, con scadenze ragionevoli e chiaramente definite e indicatori qualitativi e quantitativi per misurare il miglioramento, aggiungendo che tale piano di prevenzione debba essere sviluppato consultando le parti interessate; b) vincolare contrattualmente al rispetto del proprio codice di condotta e del piano di prevenzione tutti i partner commerciali integrati nella catena del valore dell’azienda (c.d. cascading contrattuale); c) effettuare gli investimenti necessari, ad esempio nei processi e nelle infrastrutture di gestione o di produzione, per prevenire o comunque minimizzare i potenziali impatti ambientali negativi delle attività svolte lungo tutta la catena del valore.

Il combinato disposto dei vari articoli citati delinea dunque un sistema nel quale:

  1.  non è previsto un coinvolgimento diretto degli stakeholders, sulla falsariga della Mitbestimmung tedesca, negli organi gestori delle società, surrogato però da un coinvolgimento indiretto, sotto forma di obbligo di consultazione per lo sviluppo del piano di prevenzione dei rischi ambientali[9];
  2.  sono però previsti specifici e tassativi obblighi di condotta, funzionali alla prevenzione o almeno alla minimizzazione dei rischi ambientali, il cui inadempimento rileva direttamente in punto di responsabilità civile.

La prossima approvazione della direttiva sulla “sostenibilità dell’impresa societaria” (oltre alla recente legge costituzionale 1/2022 che ha modificato l’art. 41, c. 2) è destinata a incasellarsi, con un ruolo centrale, in un mosaico normativo che caoticamente si sta componendo [10] e che, tra le tante, solleva certamente una riflessione importante sui limiti della discrezionalità giudiziaria in campo economico. Come è stato giustamente osservato, delegare la mediazione degli interessi agli amministratori, secondo il modello che sembra emergere dalla proposta di direttiva della Commissione, significa infatti ampliare il novero dei loro doveri fiduciari e amplificare il rischio che le decisioni amministrative siano «connotate da una insostenibile incertezza»[11].

 

[1] Segnatamente, per le società private e gli enti di interesse pubblico che abbiano a) un totale dell’attivo dello stato patrimoniale superiore a 20.000.000 di euro e b) un totale dei ricavi netti delle vendite e delle prestazioni superiore a 40.000.000 di euro (cfr. artt. art. 1, c. 1, lett. b), e 2, c. 1, d. lgs. 254/2016).

[2] Alla quale la dottrina italiana ha già dedicato numerosi commenti, mettendone anche in luce i numerosi limiti: v., in particolare, i numerosi contributi raccolti nel fascicolo 3/2021 della Rivista delle società.

[3] Ventoruzzo, Note minime sulla responsabilità civile nel progetto di direttiva Due Diligence, in Riv. soc., 2021, p. 381 s.

[4] Su cui v. G. Scognamiglio, Sulla tutela dei diritti umani nell’impresa e sul dovere di vigilanza dell’impresa capogruppo. Considerazioni a margine di un confronto fra la legislazione francese e quella italiana, in Jus – Rivista italiana per le scienze giuridiche, 2019, p. 545; nonché i contributi di P.H. Conac, Le nouvel article 1833 du Code civil français et l’intégration de l’intérêt social et de la responsabilité sociale d’entreprise: constat ou révolution?, in Rivista ODC, 2019, p. 497; S. Schiller, L’évolution du rôle des sociétés depuis la loi PACTE, ivi, p. 517; I. Urbain-Parleani, L’article 1835 et la raison d’être, ivi, p. 533.

[5] La Gesetz über die unternehmerischen Sorgfaltspflichten in Lieferketten – Lieferkettensorgfaltspflichtengesetz del 16 luglio 2021

[6] Cfr. il novellato Art. 1.2. del Code des sociétés et des associations: «Une société est constituée par un acte juridique par lequel une ou plusieurs personnes, dénommées associés, font un apport. Elle a un patrimoine et a pour objet l’exercice d’une ou plusieurs activités déterminées. Un de ses buts est de distribuer ou procurer à ses associés un avantage patrimonial direct ou indirect» dal quale si evince, già nella definizione del tipo societario, che la distribuzione degli utili non è lo scopo esclusivo dell’attività sociale.

[7] G. Strampelli, Gli investitori istituzionali salveranno il mondo? Note a margine dell’ultima lettera annuale di BlackRock, in Riv. soc., 2020, p. 51 ss.

[8] https://ec.europa.eu/info/publications/proposal-directive-corporate-sustainable-due-diligence-and-annex_en

[9] L. Bebchuck – R. Tallarita, The Illusory Promise of Stakeholder Governance, in Cornell Law Review, 2020, p. 91 ss., secondo i quali il rischio del diretto coinvolgimento degli stakeholders nelle scelte gestorie è di una sostanziale deresponsabilizzazione degli amministratori.

[10] Oltre alla disciplina sulle c.d. dichiarazioni non finanziarie di cui si è già detto, rilevano, ad esempio, anche i nuovi artt. 123-ter, c. 3-bis e 124-quinquies, c. 1, T.U.F., sulla «politica di remunerazione» degli amministratori, dei direttori generali e dei dirigenti con responsabilità strategiche (su cui v.) e sulla «politica di impegno» degli investitori istituzionali. Sul tema I. Capelli, La sostenibilità ambientale e sociale nelle politiche di remunerazione degli amministratori delle società quotate: la rilevanza degli interessi degli stakeholder dopo la SHRD II, in Rivista ODC, 2020, p. 553 ss.

[11] V. Calandra Bonaura, in Lo statement della Business Roundtable sugli scopi della società. Un dialogo a più voci, cit., p. 598.

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