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Approfondimenti

La percentuale minima di pagamento “assicurata” e l’utilità specificatamente individuata ed economicamente valutabile

4 Aprile 2016

Avv. Giorgio Paludetti, Dipartimento Banking & Finance, Freshfields Bruckhaus Deringer LLP

Di cosa si parla in questo articolo

La legge 6 agosto 2015, n.132, con cui è stato convertito il decreto legge 27 giugno 2015, n. 83 ha apportato rilevanti innovazioni alla legge fallimentare che appaiono, prima facie, finalizzate ad agevolare le soluzioni della crisi d’impresa. Una delle modifiche che ha riscontrato maggior favore tra gli esponenti della dottrina[1] è rappresentata dall’introduzione, fatta eccezione per i concordati in continuità, del comma 4 all’art. 160, l. fall., secondo cui “la proposta di concordato deve assicurare il pagamento di almeno il 20% dell’ammontare dei crediti chirografari”.

Con la reintroduzione della percentuale minima di soddisfazione[2] quale una delle condizioni di ammissibilità appare chiaro l’intento del legislatore di voler restituire connotati di serietà ad una procedura concorsuale, quella del concordato preventivo, che nel corso degli anni ha perso di credibilità consentendo ad imprenditori tutt’altro che virtuosi si esdebitarsi a totale discapito dei creditori. Sempre più spesso, soprattutto in uno scenario di difficile congiuntura economica come quello attuale, si è assistito all’omologazione di proposte concordatarie che garantivano la soddisfazione di creditori chirografari per percentuali irrisorie (talvolta persino prossime allo 0%)[3]. L’assenza nell’apparato normativo di una soglia minima di soddisfazione innescava un meccanismo che incentivava di fatto il debitore a formulare proposte concordatarie con una percentuale di soddisfazione dei creditori particolarmente esigua, nella consapevolezza che gli stessi creditori, obtorto collo, avrebbero con ogni probabilità comunque espresso un voto favorevole pur di evitare il rischio di imbattersi in scenari ulteriormente peggiorativi per le rispettive ragioni creditizie in caso di fallimento dell’imprenditore.

In prima approssimazione la novella normativa sembrerebbe inoltre assolvere la funzione di incentivare il debitore a far emergere tempestivamente la crisi d’impresa prima che l’erosione dell’attivo sia tale da non consentire il raggiungimento della soglia del 20% con conseguente impossibilità di essere ammesso alla procedura. In quest’ottica la modifica in commento merita certamente un plauso in quanto ha l’effetto di impedire sostanzialmente che il debitore sia l’unico arbitro della propria possibilità di esdebitazione.

Ciò premesso occorre segnalare che il legislatore, pur introducendo una soglia minima di soddisfazione dei creditori chirografari, non ha modificato l’art. 162, comma 2, l. fall., il quale continua a prevedere

che il tribunale è chiamato a dichiarare inammissibile il concordato preventivo nel caso in cui non sussistano i presupposti delineati dall’art. 160, commi 1 e 2, e dall’art. 161, l. fall.. In questo contesto il mancato richiamo al comma 4 della medesima disposizione è tuttavia da considerarsi quale mero difetto di coordinamento tra norme, considerando che la soglia del 20% è indefettibilmente da considerarsi quale ulteriore requisito di ammissibilità della domanda di concordato.

La nuova disposizione, nonostante l’apparente chiarezza lessicale, è tuttavia foriera di alcuni dubbi di natura interpretativa. Invero, la lettera della norma riferisce la percentuale del 20% all’interno della platea dei creditori chirografari. Sorge dunque spontaneo domandarsi se, in caso di suddivisione di tale categoria di creditori in classi diverse, la predetta percentuale debba essere garantita a ciascun creditore, ovvero se nella valutazione della sussistenza di tale presupposto non si debba piuttosto tenere conto del montante complessivo dei crediti unsecured. Badando alla ratio sottostante l’introduzione della norma pare preferibile la seconda delle soluzioni prospettate. Ne consegue pertanto che, ove il concordato preveda la divisione dei creditori chirografari in diverse classi, sarà possibile che per alcune di esse venga previsto un pagamento inferiore al 20%, fermo restando che la media ponderata della percentuale di pagamento non dovrà essere inferiore al limite di legge[4].

Da un punto di vista pratico non può tuttavia non menzionarsi che i creditori appartenenti ad una classe chirografaria la cui soddisfazione, in base alla proposta concordataria, dovesse risultare inferiore rispetto alla soglia minima, sarebbero probabilmente disincentivati ad esprimersi favorevolmente, con possibili ripercussioni sulle maggioranze richieste dalla legge ai fini dell’approvazione della proposta e, per l’effetto, sull’esito della procedura stessa.

Un’ulteriore problematica che potrebbe sorgere in relazione all’applicazione della novella recentemente introdotta potrebbe aversi nell’ipotesi in cui, nonostante il provvedimento di ammissione alla procedura concordataria pronunciato dal tribunale ai sensi dell’art. 163, comma 1, l.fall., in base ad un piano che preveda il soddisfacimento dei crediti chirografari in misura almeno pari al 20%, il commissario giudiziale, all’interno della relazione redatta ex art. 172, comma 1, l.fall., sconfessi i contenuti del piano esprimendosi negativamente circa la possibilità del raggiungimento della predetta soglia minima. In questo scenario difetterebbe una condizione di ammissibilità in un momento successivo all’apertura della procedura concorsuale stessa, ipotesi atipica e non contemplata dalle disposizioni in materia di concordato. Proprio i contenuti della suddetta relazione uniti alla mancanza della possibilità di assumere un provvedimento ad hoc ai sensi di legge, ha indotto il tribunale, in un caso pratico recentemente trattato dal sottoscritto, ad avviare un procedimento di revoca della proposta concordataria ex art. 173, l. fall. (successivamente interrotto a causa del deposito da parte del debitore di accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182 bis, l.fall.), nonostante la norma non richiami esplicitamente il venir meno delle condizioni di ammissibilità successivamente all’apertura della procedura di concordato tra le ipotesi legittimanti la revoca.

Ciò detto, a parere di chi scrive, snodo cruciale ai fini della corretta applicazione della nuova norma è quello di delineare, per quanto possibile, una netta linea di demarcazione tra concordato di tipo liquidatorio e quello con continuità aziendale ex art. 186-bis, l. fall. (per cui, come detto, non è estensibile il principio della soglia minima del 20%).

E’ infatti di tutta evidenza come l’erronea classificazione della tipologia concordataria esenterebbe il debitore, inter alia, dall’obbligo di rispettare la percentuale minima di soddisfazione dei creditori chirografari.

In linea di principio il concordato con continuità si fonda su un piano che prevede la prosecuzione dell’attività d’impresa al fine di consentire il superamento della crisi aziendale e costituisce un’alternativa rispetto al concordato con cessione dei beni consistente prevalentemente nella dismissione atomistica dei beni con finalità prettamente liquidatorie. Esistono tuttavia delle ipotesi “ibride” di concordato che hanno intrattenuto tanto la dottrina quanto la giurisprudenza[5] e la cui sussunzione all’interno dell’una o dell’altra tipologia concordataria non è sempre agevole.

La procedura tipizzata dall’articolo 186 bis, l. fall., può infatti assumere i connotati di un concordato con continuità diretta, ipotesi in cui la gestione dell’impresa resta in capo al debitore anche nella fase successiva all’omologazione da parte del tribunale, ovvero quelli di continuità indiretta in cui la gestione dell’azienda è riservata all’imprenditore istante per un lasso di tempo limitato onde consentirne, in un primo momento, la conservazione e, in un secondo momento, la cessione a terzi o il conferimento in altra società.

Appare evidente che in entrambi gli scenari la procedura concorsuale è contraddistinta dalla prosecuzione della gestione aziendale da parte dell’imprenditore, fermo restando che nel primo caso è di carattere duraturo e comunque finalizzata a generare flussi di cassa tali da garantire il pagamento dei propri creditori in esecuzione del piano concordatario, mentre nel secondo si tratta di una gestione meramente interinale volta principalmente a conservare il valore del complesso aziendale nell’ottica di una cessione i cui proventi saranno poi successivamente destinati a rimborsare i rispettivi aventi diritto.

Orbene, mentre è pacifica l’esclusione dell’applicazione della soglia minima di accesso ai casi di concordati con continuità diretta, non può dirsi lo stesso per quelli con continuità impura (o indiretta), le cui finalità sembrano comunque assimilabili a quelle proprie di un concordato per cessio bonorum, quindi di natura liquidatoria. In tutti i casi in cui la gestione interinale dell’azienda permanga in capo al debitore ma l’impresa sia comunque destinata alla cessione, sarà applicabile la novella ex art. 160, comma 4, l. fall., e dovrà dunque essere rispettata la soglia minima del 20%, pena l’inammissibilità dalla proposta concordataria.

Un’ ulteriore problematica che ha intrattenuto i commentatori attiene alla riconducibilità dell’affitto d’azienda nell’ambito applicativo dell’art. 186 bis, l.fall., posto che la norma non ne fa espressa menzione[6].

Nonostante un approccio inizialmente critico non può negarsi che l’affitto d’azienda consente di mantenere in vita l’attività d’impresa preservando peraltro il suo intrinseco valore ed è spesso utilizzato come fase prodromica alla cessione o al conferimento della stessa in un’altra entità giuridica. Il ricorso a tale strumento appare di grande utilità anche perché impedisce che si concretizzino gravi ed irreversibili conseguenze che conseguirebbero da un arresto dell’attività d’impresa.

Ne consegue che l’affitto (a prescindere che la sua stipulazione sia precedente alla presentazione della domanda di concordato, ovvero da eseguirsi in esecuzione di essa), non è di per sé di ostacolo all’applicabilità della disciplina tipica del concordato in continuità, essendo l’affitto un mero strumento giuridico ed economico finalizzato ad evitare una perdita di funzionalità ed efficienza dell’intero complesso aziendale in grado comunque di assicurare il pagamento dei creditori.

Ciò che infatti contraddistingue il concordato liquidatorio rispetto a quello tipizzato dall’art. 186 – bis, l.fall., non è tanto la continuità soggettiva, intesa come attività gestoria condotta direttamente dal debitore, quanto quella oggettiva intesa genericamente come continuazione del complesso produttivo, a prescindere che sia garantita da parte di un terzo[7]. Nonostante questo principio generale, non risulta sempre immediato l’inquadramento di una proposta concordataria che contempli l’ipotesi dell’affitto dell’azienda (o di un ramo di essa) all’interno dello schema liquidatorio piuttosto che con continuità aziendale.

Ciò detto è di tutta evidenza come le proposte concordatarie, soprattutto in questi ultimi anni che hanno visto incrementarsi notevolmente il ricorso alla procedura di concordato preventivo, possano avere i contenuti più variegati e la loro riconducibilità ad un’ipotesi liquidatoria anziché con continuità potrebbe risultare problematica. Dato per assodato che la domanda depositata da parte del debitore non ha carattere vincolante, sempre più rilevanza è attribuita al ruolo del tribunale cui spetterà il compito di esaminare la proposta di volta in volta sottopostagli, onde verificare se possa essere effettivamente ricompresa all’interno dell’una o dell’altra tipologia di procedura. L’importanza di tale verifica è ancora più evidente a seguito della recente riforma in quanto dalla classificazione del concordato preventivo come ipotesi liquidatoria, ovvero con continuità, dipende anche l’applicazione della soglia minima del 20% dei creditori chirografari.

Il legislatore ha inoltre posto come obiettivo principale della riforma quello di “evitare che possano essere presentate proposte per l’ammissione alla procedura di concordato preventivo che lascino del tutto indeterminato e aleatorio il conseguimento di un’utilità specifica per i creditori”. Proprio in quest’ottica è stato innovato l’art. 161, comma 2, lett. e), l. fall., che prevede che “in ogni caso, la proposta deve indicare l’utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile che il proponente si obbliga ad assicurare a ciascun creditore”. Questa norma si applica a tutte le forme di concordato, senza distinzione alcuna, fermo restando che, al di fuori delle ipotesi di concordato con continuità aziendale, deve essere applicata congiuntamente all’art. 160, comma 4, l. fall., che impone al debitore l’obbligo di soddisfare i creditori chirografari nella misura minima del 20%.

Non sembra potersi dubitare che si tratti anche in questo caso di un’ulteriore condizione di ammissibilità della domanda concordataria consistente, almeno nelle intenzioni del legislatore, in una sorta di promessa di adempimento satisfattivo nei confronti di ciascuno dei creditori coinvolti all’interno della procedura. Il debitore è quindi chiamato a specificare nel dettaglio che cosa sta promettendo a ciascuno degli aventi causa. Il temine “utilità”, unito all’espressione “economicamente valutabile”, induce a ritenere che si tratti di un’obbligazione non necessariamente pecuniaria ma che al contrario possa assumere una forma diversa. Nella valutazione dell’innovazione apportata appare inoltre decisivo il termine “assicurare” che induce a ritenere vincolante l’impegno assunto da parte del debitore nell’ambito della proposta. La portata obbligatoria del predetto impegno[8] sembra peraltro essere del tutto in linea con l’intento del legislatore della riforma.

Il significato di tale norma ha tuttavia sin da subito diviso dottrina e giurisprudenza. Secondo una recente sentenza di merito[9], infatti, l’utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile che il debitore si obbliga ad assicurare a ciascun creditore coinciderebbe con l’obbligo del debitore di mettere a disposizione della massa creditoria il proprio patrimonio, senza che l’impegno del debitore nei confronti dei creditori in termini di soddisfacimento delle rispettive ragioni creditorie possa assumere carattere vincolante[10]. Così statuendo il giudice di fatto vanificherebbe la portata innovativa della riforma e continuerebbe a consentire al debitore di fruire dei benefici offerti dall’art. 184, l. fall. in termini di esdebitazione, anche nel caso in cui il pagamento dei creditori dovesse risultare inferiore rispetto a quello contenuto all’interno della proposta concordataria[11]. Tale posizione è principalmente legata alle variabili intrinseche a ciascuna proposta concordataria, in particolar modo quella che si fonda sulla cessione dei beni, tenuto conto che la sua riuscita è inevitabilmente soggetta all’aleatorietà dell’andamento del mercato, la cui volatilità e mutevolezza non è attribuibile al debitore. Ne consegue che l’utilità promessa dall’imprenditore all’interno della proposta non potrebbe essere considerata vincolante.

In dottrina[12] la presa di posizione del giudice di merito è stata aspramente criticata sia perché risulterebbe assolutamente distonica rispetto al contenuto letterale della norma, ma ancor di più perché sconfesserebbe l’intento innovativo che il legislatore ha voluto introdurre con la riforma, consistente principalmente nel garantire la massimizzazione della recovery dei creditori attraverso condotte quanto più virtuose da parte dei debitori concordatari. Proprio per questo motivo l’utilità che il debitore si obbliga ad assicurare implicherebbe che la proposta stessa non potrebbe limitarsi ad una prospettazione ai creditori di un eventuale adempimento, concretizzandosi di fatto in una mera ipotesi, dovendo invece assumere il rango di un vero e proprio impegno. Sempre secondo questa corrente interpretativa il debitore sarebbe pur sempre tutelato dall’aleatorietà della proposta concordataria dalla “non scarsa importanza” dell’inadempimento (quindi non da qualsiasi inadempimento) da cui potrebbe derivare la risoluzione del concordato[13]. Ad ulteriore suffragio di tale argomentazione si è sostenuto che non sarebbe d’altro canto giustificabile traslare unicamente sui creditori, soprattutto in caso di concordato con continuità aziendale, il rischio di qualsiasi inadempimento del debitore, anche grave, delle obbligazioni assunte nell’ambito della procedura concordataria sulla base del beneficio riconosciutogli ai sensi dell’art. 184, l. fall.. D’altro canto, la posizione assunta da parte del tribunale, se portata all’estremo, potrebbe anche portare ad una completa “decausalizzazione” della procedura concordataria in quanto, non riconoscendosi il carattere vincolante degli impegni assunti dal debitore nei confronti dei creditori, la stessa acquisterebbe natura prettamente aleatoria, non giustificandosi neppure un’eventuale risoluzione per inadempimento della stessa.

Tirando le fila, appare evidente come le innovazioni oggetto del presente elaborato siano comunque tese a restituire alla procedura concordataria connotati di serietà e certezza. Negli anni si è infatti assistito all’affermazione sempre più netta e pregnante di una procedura improntata a principi di natura contrattual-privatistici accompagnati da una tutela finanche eccessiva del debitore rispetto agli altri soggetti coinvolti. Questa direzione intrapresa dal legislatore della riforma non può che essere condivisa soprattutto se si considera che la crisi non rappresenta sempre un risvolto fisiologico della vita d’impresa, legata a fattori esogeni, ma ben può dipendere da una gestione scellerata e tutt’altro che virtuosa dell’imprenditore. Ebbene, la disciplina del concordato preventivo antecedente la riforma, suffragata dalla prassi attuativa della stessa, agevolava di fatto l’esdebitazione dell’imprenditore a discapito degli altri stakeholders. L’ago della bilancia, in termini di tutela, pendeva pertanto a favore del debitore. Proprio nel solco di questo paradosso si inserisce la novella introdotta dal legislatore, spinta dalla sacrosanta esigenza di riequilibrare gli interessi in gioco.

In tale direzione va certamente la reintroduzione della soglia minima di soddisfazione dei creditori chirografari che è da cogliersi con favore anche perché, come precedentemente menzionato, incentiva la tempestiva emersione della crisi prima che la gestione in perdita possa vanificare la possibilità dell’imprenditore di ricorrere alla procedura concordataria. Un ulteriore effetto di tale modifica, anch’esso benefico a parere di chi scrive, è che restituisce il giusto rilievo agli organi della procedura. Il commissario giudiziale è certamente tenuto a verificare, nell’ambito della relazione ex art. 172, l. fall., l’effettiva possibilità, in base agli assunti contenuti nel piano concordatario, che la percentuale di soddisfazione dei creditori chirografari sia almeno pari alla soglia minima di legge. D’altro canto sembrerebbe anche riprendere vigore il ruolo del tribunale da molti sminuito negli ultimi anni (seppur con sfumature diverse). Il raggiungimento della soglia del 20%, trattandosi di una condizione di ammissibilità, riguarda la realizzabilità della causa concreta del concordato, per cui sarebbe complicato sostenere che il tribunale debba astenersi dal sindacato in merito alla fattibilità della proposta concordataria. Ancora, il ruolo degli organi della procedura assume rilevanza nell’ambito della riconducibilità della singola proposta all’interno dello schema liquidatorio piuttosto che con continuità, aspetto, quest’ultimo, che non solo è spesso tutt’altro che agevole, ma risulta decisivo ai fini dell’applicazione della norma.

La ratio sottostante la reintroduzione della soglia minima di soddisfazione sembrerebbe anche giustificare l’innovazione legata all’indicazione dell’utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile che il debitore si obbliga a riconoscere a ciascun creditore. Nonostante la dottrina e prima ancora il tenore letterale della norma sembrerebbero ricollegare a tale normativa un impegno satisfattivo e vincolante a carico dell’imprenditore (seppur nei limiti contenuti all’interno della proposta concordataria), tale interpretazione è stata sconfessata dalla recente giurisprudenza. Nonostante le opposte interpretazioni circa l’effettiva portata dei contenuti della proposta concordataria non sembra tuttavia potersi dubitare che l’integrazione apportata alla lettera e) del comma 2 dell’art. 161, l.fall., implica la necessità che il debitore indichi esplicitamente, all’interno della proposta medesima, la percentuale di soddisfazione dei creditori. Per l’effetto dovrebbe negarsi l’ammissibilità di quelle proposte concordatarie dai contenuti assolutamente generici ed incerti, tali da non consentire, da un lato, l’apprezzamento sulla fattibilità da parte del tribunale, e, dall’altro lato, la valutazione preventiva dei creditori, in sede di approvazione, circa la convenienza economica. A destare maggiori perplessità da un punto di vista pratico resta tuttavia l’effettiva coercibilità degli impegni concordatari da parte dei diversi stakeholders coinvolti nei confronti del debitore, soprattutto in considerazione delle variabili del tutto aleatorie che contraddistinguono inevitabilmente ogni proposta concordataria. Per comprendere l’effettiva portata innovativa di questa modifica non resta quindi che attendere ulteriori pronunce da parte della giurisprudenza.



[1] Si segnalano, tra gli altri, A. Paganini, Fattibilità giuridica e soglie minime di soddisfazione al vaglio del Tribunale, in ilFallimentarista.it; C. Ravina, Concordato Preventivo: prime applicazioni delle nuove disposizioni di cui al d.l. 83/2015, in ilFallimentarista.com; G.B. Nardecchia, Le modifiche alla proposta di concordato, in ilFallimentarista.it; P. Pototschnig, Misura di soddisfacimento e azione di risoluzione del concordato con cessione dei beni; in il Fallimento, 2015, pg. 1238 ss.; F. Lamanna, La legge fallimentare dopo la miniriforma del D.L. n. 83/2015, 2015, Giuffrè, pg. 15 ss.

[2] Sulla disciplina previgente in materia di percentuale minima di soddisfazione dei creditori si veda, ex multis, F. Lamanna, La legge fallimentare dopo la miniriforma del D.L. n. 83/2015, cit, pg. 16.

[3] Emblematica in tal senso è la pronuncia della corte di merito di Roma con cui era stata negata l’ammissione alla procedura di concordato a una società che prevedeva la soddisfazione dei crediti chirografari nella misura dello 0,03%. Trib. Roma, 16 aprile 2008, in Dir. fall., 2008, 6, II, 551-572, con nota adesiva di Piccinini e in Banca, borsa, tit. cred., 2009, 6, II, 736-745, con nota favorevole di Macario, in cui il tribunale, dopo aver chiarito che “non è compito del Giudice di vagliare la congruità della percentuale di pagamento offerta nella proposta di concordato” osserva che il concordato “deve [però] essere fornito di una causa: deve cioè assolvere a una funzione oggettivamente apprezzabile sotto il profilo della ragionevolezza economica. Non può allora sfuggire che offrire una percentuale di pagamento irrisoria e sostanzialmente simbolica ai propri creditori […] non soddisfi i requisiti minimi del concordato”.

[4] In tal senso si veda F. Lamanna, La legge fallimentare dopo la miniriforma del D.L. n. 83/2015, cit. pg. 19; Circolare Operativa 2/2016 dei Tribunale di Bergamo in merito ai principi da adottarsi nella pratica applicazione delle norme contenute agli artt. 160, 161, 163 e 163 bis l. fall. Dopo la legge n. 132/2015, di conversione del d.l. n. 83/2015 consultabile su www.ilCaso.it.

[5] Si segnalano, tra gli altri, D. Galletti, La strana vicenda del concordato in continuità e l’affitto di azienda, in ilFallimentarista.it; F. Lamanna, Ancora sulla incompatibilità fra affitto di azienda e concordato con continuità aziendale, in ilFallimentarista.it; A. Maffei Alberti, sub art. 186 bis, in Commentario breve alla legge fallimentare, diretto da A. Maffei Alberti, 2013, pg. 1328. In giurisprudenza si Trib. Pordenone 4 agosto 2015, in ilFallimentarista.it; Trib. Monza 11 giugno 2013, in ilFallimentarista.it.

[6] Sulle digressioni inerenti alle proposte concordatarie che ricomprendono ipotesi di affitto di ramno d’azienda si veda, tra gli altri, D. Fico, Riflessioni sul concordato con continuità dopo il D.L. 83/2015, consultabile in ilfallimentarista.it; S. Ambrosini, Appunti in tema di concordato con continuità, in Crisi d’Impresa e Fallimento, consultabile in ilCaso.it; R. Amatore, Il Concordato “misto” ed i limiti di compatibilità con il concordato con continuità aziendale e il concordato liquidatorio, in ilFallimentarista.it.

[7] A tracciare questo discrimen è stata da ultimo una sentenza pronunciata dal Tribunale di Bolzano il 10 marzo 2015, consultabile in ilFallimentarista.it.

[8] L’esperienza pratica insegna che l’indicazione di una percentuale di soddisfacimento è sempre presente nelle proposte di concordato. L’indicazione della percentuale può, tuttavia, essere espressa in vari modi: in misura fissa, in un range tra due percentuali, in una misura minima suscettibile di essere aumentata a fronte del verificarsi di determinati eventi oggettivamente riscontrabili.

[9] Sentenza del Tribunale di Pistoia, 29 ottobre 2015, consultabile su www.ilcaso.it.

[10] Secondo il Tribunale di Pistoia il requisito dell’utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile si riferirebbe a null’altro di più che l’obbligo del proponente di mettere a disposizione del concordato il proprio patrimonio, senza che la norma possa essere interpretata nel senso della natura vincolante della percentuale di soddisfacimento dei creditori promessa ai sensi della proposta concordataria. Nulla sarebbe quindi variato rispetto al periodo antecedente la riforma non potendo essere “eliminata l’alea connessa all’esito satisfattivo derivante dalla cessione di un patrimonio nel suo complesso”.

[11] A ben vedere questa posizione è stata assunta, precedentemente alla riforma, anche da altre sentenze, tra le quali, App. L’Aquila 31 maggio 2012, in il Fallimento, 2013, 59, con nota di F. Casa, Interpretazioni simmetriche dell’art. 186 l.fall.; App. Firenze 10 febbraio 2014, in www.ilCaso.it.

[12] Si veda in tal senso C. Ravina, Concordato Preventivo: prime applicazioni delle nuove disposizioni di cui al d.l. 83/2015, (cit.).; S. Ambrosini, La disciplina della domanda di concordato preventivo nella “miniriforma” del 2015, in www.ilCaso.it.

[13] La giurisprudenza milanese ha ritenuto che possa essere ritenuto “grave” e pertanto idoneo a giustificare la risoluzione del concordato preventivo un inadempimento nella misura in cui da questo generi uno scostamento del 25% rispetto alla percentuale di soddisfacimento promessa ai creditori.

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