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Attualità

La direttiva “madre-figlia” e il “credito d’imposta” sui dividendi ai sensi della convenzione Italia-Francia: riflessioni a latere della sentenza 6 ottobre 2017 n. 23367 della Corte di Cassazione

7 Novembre 2017

Claudio Schettini, Socio, Studio Pirola Pennuto Zei e Ass.; Alessandro Giannelli, Dottore di ricerca in diritto tributario, Studio Pirola, Pennuto Zei e Ass.

Cassazione Civile, Sez. V, 6 ottobre 2017, n. 23367 – Pres. Di Iasi, Rel. Carbone

Di cosa si parla in questo articolo

1. Introduzione(*)

Con la sentenza in epigrafe la Cassazione torna ad occuparsi del “sofferto” rapporto tra il regime di esenzione previsto dalla Direttiva 90/435/Cee, poi rifusa nella Direttiva 2011/96/Ue, cosiddetta direttiva “Madre-Figlia”, e il particolare credito d’imposta sui dividendi previsto dalla convenzione contro le doppie imposizioni tra l’Italia e la Francia in coordinamento con il regime di imputazione all’epoca vigente in entrambi gli Stati [1].

Sul punto la sentenza in esame ribadisce – in linea con alcuni precedenti della medesima Corte – che tra la Direttiva e il predetto credito d’imposta non può esservi cumulo. Secondo la Corte, infatti, il regime comunitario di esenzione risulta già di per sé sufficiente a rimuovere la doppia imposizione sul dividendo e, quindi, la sovrapposizione del credito di fonte convenzionale, ove concessa, determinerebbe un fenomeno di doppia non imposizione che la Cassazione giudica inammissibile rispetto ai (presunti) scopi della suddetta convenzione.

Al di là delle particolari argomentazioni con cui i giudici hanno giustificato tale conclusione, e che come più avanti rilevato non paiono del tutto condivisibili, la sentenza in esame appare comunque di particolare interesse offrendo alcuni spunti per riflettere sul tema, particolarmente delicato e di estrema attualità, soprattutto alla luce del Progetto Beps, del rapporto tra lo scopo delle convenzioni e la prevenzione della doppia non imposizione.

2. Il problema del rapporto tra il “credito d’imposta” ex art. 10, comma 4, lett. b) della Convenzione Italia-Francia e il regime di esenzione ai sensi della Direttiva Madre-Figlia attuato in Italia dall’art. 27-bis del D.p.R. n. 600/73

In via preliminare è utile precisare che la Convenzione tra l’Italia e la Francia è stata firmata a Venezia il 5 ottobre 1989 (in vigore dal 1° maggio 1992) e, quindi, in un’epoca in cui tanto in Francia quanto in Italia le distribuzioni interne di dividendi erano soggetto al meccanismo del credito d’imposta quale modalità di coordinamento del prelievo tra socio e società – cosiddetto “sistema dell’imputazione” [2]. Ciò spiega, infatti, le particolari disposizioni recate dall’art. 10 di tale Convenzione che prevedono, a seconda dai casi, il riconoscimento di un pagamento equivalente ad credito d’imposta in favore della “società madre” residente nell’altro Stato qualora, ai sensi del regime interno di imputazione, un’omologa società madre residente avesse avuto diritto ad un credito di imposta sul dividendo ricevuto. Più nel dettaglio, ai sensi del comma 4, lett. b) del citato art. 10, oggetto della sentenza in rassegna, una società residente in Francia ha diritto al pagamento di una somma da parte del Tesoro italiano pari alla metà del credito d’imposta che sarebbe spettato alla società madre italiana, qualora la predetta società madre francese risulti soggetta alla legislazione francese sulle società madri oppure abbia detenuto, direttamente o indirettamente, nel corso di un periodo di almeno 12 mesi antecedenti la delibera di distribuzione del dividendo, almeno il 10% del capitale della società figlia residente in Italia [3].

Ebbene, con il recepimento in Italia (così come in altri Paesi comunitari) delle disposizioni previste dalla ricordata Direttiva “Madre-Figlia”, avvenuto con il D.Lgs. 6 marzo 1993, n. 136 che ha inserito l’art. 27-bis nel corpus del D.P.R. n. 600/73, è sorto il tema del rapporto tra il regime di esenzione previsto da tale articolo e le ricordate disposizioni convenzionali che riconoscono al socio (i.e. la società madre) un particolare credito d’imposta sui dividendi percepiti (ossia sui medesimi redditi che beneficerebbero della citata esenzione dalla ritenuta “in uscita”); in particolare, ci si è chiesti se fosse possibile beneficiare del predetto credito d’imposta in via cumulativa all’esenzione, garantita dal predetto art. 27-bis, dalla ritenuta applicabile nello Stato della fonte. Tale dubbio era, in effetti, alimentato da un fumoso inciso contenuto al comma 4 del citato art. 27-bis (poi abrogato dall’art. 1, comma 1, lett. e), D.Lgs. n. 49/2007) secondo cui “resta impregiudicata l'applicazione di ritenute alla fonte previste da disposizioni convenzionali che accordano rimborsi di somme afferenti i dividendi distribuiti” [4].

Sul punto parte della dottrina si era dimostrata favorevole al cumulo, rilevando, da un lato, che “la ratio della disposizione italiana di attuazione recante il regime di alternatività (il comma 4 dell’art. 27-bis) consisterebbe nella circostanza che le convenzioni realizzano già l’eliminazione della doppia imposizione e, pertanto, rappresentano un regime alternativo a quello previsto dalla Direttiva” e dall’altro che“tale pretesa alternatività non sembra essere consentita dalla Direttiva in quanto l’esenzione da ritenuta alla fonte è ivi espressa in forma incondizionata” [5]; secondo una diversa opinione, invece, “il comma 4 dell’art. 27-bis del D.P.R. n. 600 ha la funzione precipua di evitare la sovrapposizione dei benefici convenzionali del rimborso del credito d’imposta o della maggiorazione con i benefici accordati dal regime delle società madri e figlie” con la conseguenza “che è da escludere che l’applicazione della ritenuta alla fonte sui dividendi e sul rimborso sia destinata a rimanere ferma anche quando non vi sia alcuna sovrapposizione, in quanto la società madre ha rinunciato ad avvalersi dei benefici convenzionali” [6].

Al fine di risolvere la questione, che peraltro aveva creato alcune tensioni tra le amministrazioni finanziarie degli Stati contraenti [7], il Ministero delle Finanze, con la circolare 10 agosto 1994, n. 15/E, ha salomonicamente stabilito che, sebbene “non possano cumularsi sic et simpliciter gli effetti della Direttiva e delle singole convenzioni”, è comunque compito dell’autorità di ciascun Stato contraente indicare, dietro apposita consultazione bilaterale, se ed in che limiti le citate previsioni convenzionali possano ritenersi compatibili, e quindi cumulabili, con il regime di esenzione previsto dalla Direttiva “Madre-Figlia”; in altri termini, come osservato dalla dottrina, il Ministero, rimanendo scettico sulla possibilità di cumulare in astratto i suddetti regimi [8], ha comunque ammesso in concreto tale possibilità allorché ciò avvenga a condizioni di reciprocità in forza di un apposito accordo di diritto internazionale [9].

La “soluzione” ministeriale non ha evidentemente posto fine alla querelle generando al contrario un contenzioso di non trascurabile entità che, come visto, è giunto sino in Cassazione – anche perché, come ricordato dalla dottrina, la questione è stata oggetto di un’intesa tra l’Amministrazione italiana e le autorità fiscali francesi secondo cui nel caso di rimborso della maggiorazione di conguaglio [10] a favore di una società madre qualificata come tale ai sensi del diritto interno, nessuna ritenuta doveva essere prelevata sull’importo oggetto di distribuzione [11].

3. La soluzione della Corte di Cassazione al “cumulo” del credito d’imposta convenzionale e dell’esenzione comunitaria: alcune considerazioni critiche

A fronte di tale magmatico contesto, la Corte di Cassazione, così come testimoniato dalla recente sentenza n. 23367/2017 nonché da alcuni precedenti della medesima corte [12], ha senza subbio imboccato la via segnata dalla ricordata circolare ministeriale, ossia quella della “alternatività” escludendo, quindi, che il credito convenzionale fosse cumulabile (sia in astratto che in concreto) con il regime di esenzione di cui all’art. 27-bis del D.P.R. n. 600/73.

Tuttavia, se può risultare in linea di principio condivisibile l’idea che i regimi in esame non siano tra loro cumulabili, anche perché questa pare essere la voluntas legis trasfusa nella relazione allo schema del D.Lgs. 6 marzo 1993, n. 136 [13], non risulta del tutto convincente l’iter logico-deduttivo seguito dalla Cassazione nella sentenza in rassegna. In particolare, pur volendo dare per pacifica la tesi enunciata in tale arresto, secondo cui “la sommatoria della detassazione [i.e. esenzione] e del credito eccede la finalità di evitare la doppia imposizione, generando semmai una fattispecie di c.d. doppia non-imposizione”, non sembrano corrette, rispetto al caso sub iudice,le due tesi assunte dalla Corte quali premesse alla propria conclusione.

La prima delle citate tesi risulta essere la seguente: secondo “la giurisprudenza unionale … il credito d'imposta è uno strumento fiscale diretto ad evitare, in termini economici, una doppia imposizione degli utili distribuiti sotto forma di dividendi (Corte giust. 25 settembre 2003, C-58/01, Ocè van der Grinten, p. 56) … [e quindi] quando la società madre beneficia nel proprio Stato di una tassazione dei dividendi ad aliquota zero, il rischio di doppia imposizione (…) degli utili che le sono stati distribuiti dalla sua società figlia è escluso (Corte giust. 8 marzo 2017, C-448/15, Wereldhave, p. 40) [e dunque, quanto] la società madre francese gode dell'esenzione dei dividendi in entrata, il credito d'imposta eccederebbe la ratio di neutralizzazione della doppia imposizione”. Quindi, poiché “la società madre francese reclama il credito d'imposta di fonte convenzionale nonostante goda di una piena esenzione di fonte comunitaria, ritenendo che non osti l'esclusione dei dividendi dal proprio reddito imponibile”, la Cassazione – sulla scorta della richiamata giurisprudenza comunitaria – è giunta a negare l’ammissibilità del cumulo tra l’esenzione ai sensi della Direttiva “Madre-Figlia” e il credito d’imposta previsto dall’art. 10, comma 4, lett. b) della convenzione tra l’Italia e la Francia.

L’argomento appena riassunto non appare però convincente per almeno due ordini di ragioni.

In primo luogo, la società madre francese non ha “escluso” da imposizione il dividendo ricevuto, ma, in forza del regime francese delle società madri [14], il medesimo è stato soltanto esentato da prelievo nella misura del 95%; pertanto, nel caso di specie i dividendi ricevuti dalla società madre francese risultavano esenti da prelievo nello stato di residenza non a causa di una regola distributiva contenuta nella convenzione, ma in forza della legislazione francese che ha recepito la Direttiva “Madre-Figlia”. Tale precisazione appare di notevole importanza in quanto, se si pone attenzione al dettato dell’art. 10, comma 4, lett. b), ci si accorge che il cumulo tra il credito d’imposta e il regime francese delle società madri non appare di per sé in contrasto con il riconoscimento del credito d’imposta previsto dalla predetta disposizione. Infatti, come già osservato, il citato comma 4, lett. b) si applica per espressa previsione anche alle società madri francesi soggette alla legislazione francese prevista per le società madri e, quindi, anche alla società per cui i dividendi sono in concreto esenti da imposizione. Dunque, anche ammettendo che il cumulo tra il citato credito d’imposta e l’esenzione prevista dalla legislazione francese delle società madri determini un caso di doppia non imposizione, quest’ultimo non appare prima face in contrasto con l’art. 10, comma 4, lett. b) della convenzione tra Italia e la Francia.

In secondo luogo, merita di essere rilevato che l’art. 10, comma 4, lett. b) non subordina in alcun modo il riconoscimento del suddetto credito d’imposta all’effettiva tassazione del dividendo nello Stato di residenza – tant’è che, come appena visto, la citata disposizione è espressamente applicabile anche verso società che esentano da imposizione i dividendi. Ciò che si richiede è solo che la società madre sia “subject to tax”, ossia soggetta alle imposte a motivo della sua residenza. In tale ottica appare fuori luogo il rinvio contenuto nella sentenza in rassegna alla pronuncia della Corte di Giustizia dell’8 marzo 2017, causa C-448/15 e a cui di fatto la Cassazione risulta aver in parte affidato le sorti del giudizio. Infatti, tale sentenza non si occupa della nozione di “subject to tax” ai fini convenzionali, ma rispetto alla Direttiva “Madre-Figlia” limitandosi, peraltro, ad affermare che “quando una società madre, come gli OICF di cui trattasi nel procedimento principale, beneficia, in forza della normativa del suo Stato membro di stabilimento, di un’aliquota d’imposizione pari a zero per tutti i suoi utili a condizione che questi siano integralmente distribuiti ai propri azionisti, il rischio di doppia imposizione, in capo a tale società madre, degli utili che le sono stati distribuiti dalla sua società figlia è escluso”. Non si comprende, dunque, per quale ragione il principio in questione dovrebbe essere rilevante ai fini del caso affrontato dalla sentenza n. 23367/2017. Infatti, nella suddetta sentenza della Corte di Giustizia ciò che viene messo in discussione – per carenza del requisito soggettivo [15] – è la possibilità stessa di accedere al regime di esenzione previsto dalla Direttiva, mentre nel caso affrontato dalla Cassazione nella sentenza in rassegna tale aspetto non è mai messo in discussione e non risulta quindi rilevante [16].

In tal senso, visto che nel caso di specie ci si doveva riferire alla nozione convenzionale di “subject to tax”, non può che stupire la totale assenza di ogni riferimento da parte della Cassazione al Commentario OCSE al Modello di Convenzione [17] ed in cui, tra l’altro, si afferma – contrariamente a quanto sostenuto dalla Cassazione – che ai fini convenzionali il concetto di “subject to tax” deve essere inteso nel senso di “astratta imponibilità” del soggetto e non di effettivo pagamento delle imposte da parte del medesimo [18]. Sul punto non sembra pertinente neanche la replica della Cassazione secondo cui “quando insiste sulla dimensione astratta e formale del requisito dell'"assoggettabilità" ad imposta, il ricorso si scontra con l'elaborazione giurisprudenziale sulla doppia imposizione dei dividendi transfrontalieri, che qualifica l'assoggettamento fiscale in termini concreti ed effettivi, come ancora recentemente evidenziato da questa Corte (Cass. 24 febbraio2017, n. 4771)”. Tale affermazione appare irrilevante in quanto la Cassazione dimentica di specificare che il principio in questione è stato enunciato dalla richiamata sentenza n. 4771/2017 con riferimento all’art. 27-bis e non pare che possa essere trasposto sic et simpliciter nel diritto convenzionale [19].

Nel complesso, quindi, non appare convincente il tentativo della Cassazione di giustificare il divieto di cumulo tra i regimi in esame in forza del rinvio ad alcuni precedenti giurisprudenziali relativi alla ratio della Direttiva “Madre-Figlia” e più nel dettaglio riguardanti il significato da attribuire alla nozione di “subject to tax”.

Ciò posto si deve rilevare che nella sentenza in rassegna la Corte di Cassazione giustifica il suddetto divieto ricorrendo anche ad un ulteriore argomento, ossia rilevando che dal cumulo dell’esenzione da ritenuta ai sensi dell’art. 27-bis con il “credito d’imposta” previsto dal citato art. 10, comma 4, lett. b), discenderebbe una doppia non tassazione del dividendo che, tuttavia, sarebbe contraria alla convenzione tra l’Italia e la Francia in forza dell’art. 15 del Protocollo del medesimo trattato. Nella citata sentenza si legge, infatti, che “la Convenzione italo-francese vieta la doppia esenzione bilaterale (art. 15 Protocollo), mercè una tipica clausola di assoggettamento (subject to tax clause)”.

Tuttavia, il suddetto art. 15 non sembra autorizzare una simile conclusione – quanto meno stando alle argomentazioni addotte dalla Cassazione.

Per avvedersi di ciò occorre in primis ricordare che in base a tale articolo del Protocollo si prevede che “nei casi in cui, conformemente alle disposizioni della presente Convenzione, un reddito deve essere esentato da parte di uno dei due Stati, l'esenzione viene accordata se e nei limiti in cui detto reddito è imponibile nell'altro Stato”. Dunque, l’art. 15 risulterebbe applicabile al congiunto ricorrere delle seguenti condizioni: a) l’applicazione della convenzione comporta l’ esenzione di un certo reddito in uno dei due Stati contraenti e b) detto reddito è altresì non imponibile nell’altro Stato. Tuttavia nel caso di specie le suddette condizioni non pare siano rispettate. Infatti, l’art. 10, comma 4, lett. b) non prevede alcun regime di esenzione, bensì il pagamento di una somma equivalente ad un credito d’imposta; inoltre, anche a voler considerare l’ipotesi di una esenzione [20] nello Stato della fonte (ossia l’Italia), la non imponibilità del dividendo in Francia (ossia nell’altro Stato) non sarebbe comunque il frutto dell’applicazione della convenzione, ma del regime interno delle società madri [21]. Dunque, neanche da questa prospettiva, l’art. 15 pare poter “bloccare” la supposta ipotesi di doppia non imposizione individuata dalla Corte di Cassazione.

In conclusione, la sentenza in rassegna finisce per sollevare più d’un dubbio e lascia, inoltre, con l’impressione che la Corte si sia lasciata andare sul piano del rigore giuridico convinta che la sostanza dei fatti, ossia l’asserita doppia non imposizione del dividendo, fosse sintomatica di un malum in se. Di ciò appare sintomatico proprio l’approccio dei giudici nei confronti del citato art. 15 del Protocollo. Sembra, infatti, che la Corte, forte della valenza retorica del concetto di “doppia non imposizione”, abbia voluto ricercare a tutti i costi nel suddetto art. 15 un appiglio con cui giustificare una visione del diritto tributario internazionale secondo cui le convenzioni contro le doppie imposizioni – salvo eccezioni (come nel caso del tax sparing credit) –non dovrebbero in generale condurre a delle ipotesi di doppia non imposizione (essendo per l’appunto un male in sè) [22].

Insomma, senza andare troppo per il sottile, la Corte finisce per far valere una tesi ben precisa in merito allo scopo delle convenzioni e cioè che il loro obiettivo consisterebbe nella prevenzione tanto della doppia imposizione quanta della doppia non imposizione.

In quest’ottica la posizione assunta dalla Cassazione, per come qui ricostruita, potrebbe ritenersi in continuità con l’approccio suggerito dall’OCSE nell’Action 6 [23] del Progetto Beps l’OCSE con cui è stato inter alia raccomandato agli Stati di modificare i propri trattati al fine di includere nel relativo preambolo l’affermazione secondo cui il trattato non può essere utilizzato per generare casi di doppia non imposizione [24]. Sul punto appare però opportuno ricordare due aspetti: da un lato, i criteri e le misure indicati dal Progetto Beps non sono ancora dotati di piena cogenza [25] e quindi la giurisprudenza dovrebbe astenersi dal tentativo di anticiparne gli effetti; dall’altro, benché non sia questa la sede per approfondire una così complessa tematica, va altresì osservato che sul piano del diritto pattizio, anche a voler considerare i principi indicati dall’Action 6, quest’ultimi non sembrano vietare la doppia non imposizione tout court, ma solo quella risultante da condotte abusive [26][27]. In tale ottica, fattispecie analoghe a quelle affrontata dalla Corte di Cassazione nella sentenza in rassegna dovrebbe reputarsi sindacabili solo laddove sia raggiunta la prova della loro portata abusiva e non in forza del mero verificarsi di una doppia non tassazione.

Su queste basi risulterebbe, quindi, utile distinguere tra doppia imposizione “intenzionale” e doppia imposizione “non-intenzionale” [28] intendendo con la prima quella prevista da entrambi gli Stati contraenti, mentre con la seconda quella avente il carattere oggettivo della doppia non imposizione, ma anche quello soggettivo dell’evasione o elusione fiscale [29]; perciò solo la doppia imposizione di tipo non-intenzionale – cioè non prevista dagli Stati, ma generata dai contribuenti – sarebbe perseguibile, essendo per l’appunto frutto di comportamenti patologici che non possono di certo ritenersi in linea con lo scopo delle convenzioni [30].

Pertanto, si dovrebbe ammettere – diversamente da quanto sembra suggerire la sentenza in rassegna – che, almeno sul piano del diritto pattizio, la doppia non imposizione non dovrebbe reputarsi un male in sé [31], ma solo a certe condizioni – ossia quando non sia il risultato delle libere e reciproche scelte degli Stati contraenti [32][33].

 

[*] La presente nota è stata chiusa prima della pubblicazione della sentenza del 27 ottobre 2017, n. 25585della Corte di Cassazione che si è occupata del medesimo caso assumendo, peraltro, una posizione sostanzialmente conforme al precedente arresto del 6 ottobre 23667 oggetto del presente contributo.

[1] Con riferimento al trattato tra l’Italia e la Francia, il tema del cumulo tra regime di esenzione comunitario e credito d’imposta convenzionale sui dividendi era, infatti, già stato affrontato nella sentenza n. 8621/2011 in cui la Corte di Cassazione ha osservato che “la opzione operata dalla ricorrente in ordine al riconoscimento del credito d’imposta, in ottemperanza alla Convenzione, esclude infatti automaticamente l’applicazione del diverso regime di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 27 biscit. – che non prevede, e non consente comunque, il cumulo di due benefici”.

[2] Attraverso la concessione del credito, infatti, la tassazione dell’utile oggetto di distribuzione scontata dalla società veniva ad essere sterilizzata in capo al socio garantendo, quindi, che i proventi oggetto di distribuzione risultassero de facto tassati una sola volta (in capo al socio).

[3] L’importo del suddetto credito va, tuttavia, diminuito della ritenuta alla fonte prevista dal comma 2 del medesimo art. 10 e pari al 5%. Per completezza si ricorda che ai sensi del suddetto comma 2 “tali dividendi sono imponibili anche nello Stato di cui la società che paga i dividendi è residente ed in conformità della legislazione di detto Stato, ma, se la persona che percepisce i dividendi ne è l'effettivo beneficiario, l'imposta così applicata non può eccedere: a) il 5 per cento dell'ammontare lordo dei dividendi se l'effettivo beneficiario è una società assoggettabile all'imposta sulle società che ha detenuto direttamente o indirettamente nel corso di un periodo di almeno 12 mesi precedenti la data della delibera di distribuzione dei dividendi, almeno il 10 per cento del capitale della società che paga i dividendi; b) il 15 per cento dell'ammontare lordo dei dividendi, in tutti gli altri casi. Le disposizioni del presente paragrafo non riguardano l'imposizione della società per gli utili con i quali sono stati pagati i dividendi”.

[4] Disposizione abrogata dall’art. 1 del D.Lgs 6 febbraio 2007, n. 49 al fine di coordinare il recepimento della Direttiva con il sopravvenuto regime della partecipation exemption con cui si è definitivamente posto fine al meccanismo del credito d’imposta sui dividendi “interni”.

[5] MAISTO, G., Il regime tributario dei dividendi nei rapporti tra “società madri” e “società figlie”, Milano, 1996, p. 269.

[6] ESCALAR, G., Il rimborso di imposte a soci non residenti tra normativa “madri-figlie” e accordi bilaterali, in Rassegna Tributaria, I, 1995,p. 71.

[7] Cfr. ESCALAR, G., op.cit.,pp. 66-67

[8] Successivamente con la circolare n. 165 del 24 giugno 1998 verrà precisato che “in base alle vigenti Convenzioni fiscali con la  Francia e con il Regno Unito é previsto a favore dei soci francesi e  britannici il pagamento di una somma pari al credito d'imposta sui dividendi o  a metà di esso qualora tale credito spetti al socio residente. In conformità dell'art. 12, comma 7, del decreto legislativo in  commento tali disposizioni sono comunque applicabili anche se il diritto al  credito di imposta sui dividendi é riconosciuto ai residenti solo nel caso di  opzione per la non applicazione della ritenuta”.

[9] ESCALAR, G., op. cit., p. 70.

[10] Il regime all’epoca vigente era caratterizzato, come ricordato, dal credito d’imposta sui dividendi pari ai nove sedicesimi degli utili distribuiti (corrispondenti ad un’aliquota IRPEG del 36%) con una maggiorazione d’imposta (detta appunto “di conguaglio”) nei casi in cui i dividendi distribuiti fossero di importo superiore al 64% del reddito dichiarato dalla controllata – tale maggiorazione era pari ai nove sedicesimi della differenza tra l’importo distribuito e la citata soglia del 64%.

[11] MAISTO, G., op.cit., p. 270.

[12] Si veda ad es. Cass. n. 8621/2011 (proprio con riferimento alla convenzione con la Francia) nonché Cass. n. 27111/2016 (trattato con la Germania) e Cass. n. 5943/2009 (convenzione con il Regno Unito).

[13] Nella relazione al D.Lgs. 6 marzo 1993, n. 136 si afferma, infatti, che “le convenzioni realizzano già l’eliminazione della doppia imposizione e, pertanto, rappresentano un regime alternativo a quello previsto dalla Direttiva”.

[14] In base agli art. 145 e 216 del Code général des impôts, all’epoca vigente, i dividendi ricevuti da una società madre risultano esenti da prelievo per il 95%.

[15] Nella sentenza in questione la Corte di Giustizia afferma, infatti, che “la direttiva 90/435/CEE del Consiglio, del 23 luglio 1990, concernente il regime fiscale comune applicabile alle società madri e figlie di Stati membri diversi, deve essere interpretata nel senso che il suo articolo 5, paragrafo 1, non osta alla normativa di uno Stato membro in forza della quale è prelevata una ritenuta d’imposta mobiliare sui dividendi distribuiti da una società figlia con sede in tale Stato membro a un organismo d’investimento collettivo a carattere fiscale, con sede in un altro Stato membro, assoggettato all’imposta sulle società ad aliquota zero a condizione che tutti i suoi utili siano distribuiti ai propri azionisti, posto che un siffatto organismo non costituisce una «società di uno Stato membro», ai sensi di tale direttiva”.

[16] Su tale questione si è, peraltro, espressa anche l’Agenzia delle Entrate con la circ. n. 32/E del 2011 precisando che “tale condizione [del “subject to tax”, NdA] va interpretata come assoggettabilità di carattere generale ad imposizione, soddisfatta da tutte quelle società potenzialmente soggette all'IRES (o alle corrispondenti imposte cui sono soggetti le società e gli enti non residenti), indipendentemente dalla circostanza che “godono, di fatto, di agevolazioni comunque compatibili con la normativa comunitaria” (cfr. circolare 2 novembre 2005, n. 47/E, par. 2.2., in relazione ad analogo requisito previsto dalla Direttiva 2003/49/CE, cd. Direttiva “interessi e canoni”). Ne consegue che possono fruire della ritenuta ridotta tutte le società o enti ai quali è riconosciuta soggettività passiva ai fini delle imposte societarie, inclusi quelli che non pagano imposte in virtù di particolari esenzioni oggettive collegate alla tipologia del reddito da loro prodotto (es. esenzione sui passive income) o del luogo in cui è svolta l’attività. Non beneficiano della ritenuta ridotta, per converso, gli enti e le società estere che non rientrano nel presupposto soggettivo di applicazione del tributo”.

[17] Infatti, se – come nel caso di specie – le parti hanno deciso di basare il trattato sul Modello OCSE, allora ne consegue che ai sensi dell’art. 31 della Convenzione di Vienna il Commentario fornisce un importante parametro di riferimento ai fini dell’interpretazione in “buona fede” del trattato e per la definizione del “contesto” (LANG, M., BRUGGER, F., The role of the OECD Commentary in tax treaty interpretation, in Australian Tax Forum, 23, 2008, pp. 99-10).

[18] Infatti, il Commentario OCSE, nel commento all’art. 4, si riferisce in prima battuta al termine “liable to tax” utilizzando l’espressione “full tax liability” (§ 8), che sembrerebbe richiedere una piena ed effettiva tassazione, ma al contempo precisa che “a person is considered liable to comprehensive taxation even if the contracting state does not in fact impone tax” (§8.6). In tal senso appare appropriata la distinzione tracciata dalla Corte Suprema dell’India, sent. 7 ottobre 2003 (Union Of India And Anr vs Azadi Bachao Andolan And Anr), secondo cui“liability to taxation is the same as payment of tax. Liability to taxation is a legal situation; payment of tax is a fiscal fact”.

[19] GRAAF., A., POTGENS., F, Worrying interpretation of “liable to tax” OECD Clarification would be welcome, in Intertax, 4, 2011, pp. 172-173

[20] Una limitata esenzione potrebbe essere rinvenuta in capo allo Stato della fonte in base al comma 2 del citato art. 10 (si veda sul punto il Commentario, pp. 340-341, § 56.2) e, quindi, si potrebbe pensare – ma tale ipotesi non è stata presa in considerazione dalla Cassazione – che in base al citato art. 15 lo Stato della fonte sarebbe legittimato ad applicare la ritenuta in misura piena, visto che in forza del regime francese delle società madri il medesimo reddito risulterebbe non imponibile nell’altro Stato (a fronte di una limitata esenzione). Tuttavia, una simile ipotesi non sembra percorribile visto che, come rilevato in precedenza, l’art. 10 comma 4, che opera nel presupposto del comma 2 del medesimo articolo, è espressamente formulato per applicarsi alle società soggette alla legislazione francese delle società madri; una simile ipotesi interpretativa sarebbe, quindi, illogica poiché equivarrebbe ad ammettere una tacita e sistematica abrogazione del comma 4 dell’art. 10 ad opera della stessa Convenzione che lo contiene.

[21] Sul punto, infatti, il Commentario al Modello OCSE di Convenzione precisa, rispetto all’art. 23 A e alle modalità di applicazione di una ipotetica subject to tax clause incentrata sullo Stato della fonte, che una simile disposizione non sarebbe applicabile laddove l’esenzione in detto Stato non fosse il risultato dell’applicazione della convenzione, ma di un regime interno dello Stato della fonte (Commentario, § 56.2, p. 31). Più in generalesul fatto che le convenzioni possano prevedere intenzionalmente delle ipotesi di doppia non imposizione si veda, ex multis LANG, M., Introduction to the Law of Double Taxation Conventions, Amsterdam, 2013, p. 31, capoverso n. 41. ContraAvi-Yonah, R.S., Full circle? e Single Tax Principle, BEPS, and the New US Model, in Global Tax'n, 1, p. 12.

[22] In tale ottica si veda Cass 16 dicembre 2015, n. 25281 nonché la nota di PITRONE, F., La soluzione della Corte di Cassazione alla pianificazione fiscale aggressiva: l’utilizzo della clausola del beneficiario effettivo quale norma generale antiabuso, in Diritto Bancario, 2015 (http://www.dirittobancario.it/giurisprudenza/fiscalita-internazionale/soluzione-corte-cassazione-pianificazione-fiscale-aggressiva-utilizzo-clausola).

[23] Rubricato, non a caso, “Preventing the Granting of Treaty Benefits in Inappropriate Circumstances”. A tale scopo l’Action 6 fornisce un minimum standard a cui gli Stati dovrebbero attenersi per rivedere gli attuali trattati al fine di combattere “a tutto tondo” i fenomeni di “treaty shopping”. Nel dettaglio le misure proposte dall’Action 6 si articolano sui seguenti piani: introduzione di una LOB clause (limitation of benefits clause), introduzione di una clausola antielusiva generale e nella modifica del preambolo dei trattati al fine di esplicitare il generale obiettivo di prevenzione del treaty shopping.

[24] Action 6, p. B-91.

[25] Sia perché non ancora recepiti nella loro interezza sia perché anche a voler considerare la recente convenzione multilaterale siglata il 7 giugno 2017 (“Convenzione multilaterale per l'attuazione di misure relative alle convenzioni fiscali finalizzate a prevenire l'erosione della base imponibile e lo spostamento dei profitti”), deputata a darne una parziale attuazione sul piano del diritto pattizio, non deve dimenticarsi che quest’ultima risulta non ancora in vigore e, in ogni caso, risulta soggetta a numerose riserve da parte degli Stati firmatari che, pertanto, rendono comunque ad oggi incerti i confini della sua efficacia quanto entrerà in vigore. Sul tema della possibile valenza self-executing della suddetta convenzione si rinvia a CRAZZAROLA, A., Il trattato multilaterale beps è self-executing?, in Rivista di Diritto Tributario, 24 maggio 2017 (http://www.rivistadirittotributario.it/2017/05/24/trattato-multilaterale-beps-self-executing/).

[26] LANG, M., BEPS Action 6: Introducing an Anti-Abuse Rule in Tax Treaties, in Tax Notes Int’l, 7, 2014, p. 655

[27] Ed, infatti, l’Action 6 suggerisce la seguente formulazione da inserire nel preambolo dei trattati: “PREAMBLE TO THE CONVENTION (State A) and (State B), Desiring to further develop their economic relationship and to enhance their cooperation in tax matters, Intending to conclude a Convention for the elimination of double taxation with respect to taxes on income and on capital without creating opportunities for non-taxation or reduced taxation through tax evasion or avoidance (including through treaty-shopping arrangements aimed at obtaining reliefs provided in this Convention for the indirect benefit of residents of third States)”. Dunque è solo la doppia non imposizione causata da evasione ed elusione quella che s’intende colpire e, cioè , solo le forme di doppia non imposizione “create” abusando del trattato, ossia impiegandolo per finalità non previste dagli Stati contraenti. Per converso, le forme di doppia non imposizione espressamente previste dal trattato, o comunque sorrette da una sua interpretazione in buona fede, non dovrebbero ritenersi in contrasto con l’approccio suggerito dall’OCSE. Sul punto è stato peraltro osservato che una diversa visione potrebbe rivelarsi lesiva della generale funzione dei trattati, che come visto si pongono anche obiettivi di policy non sempre spiegabili alla luce del mero scopo di prevenire la doppia imposizione (e la doppia non imposizione). In altri termini, diversamente ragionando si rischia di contrastare anche tutti i casi in cui la doppia non imposizione è voluta dagli Stati per ragioni del tutto genuine. In tal senso è stato, infatti, osservato che “BEPS should recognize that tax jurisdiction and sovereignty allow countries to use tax treaties with a double non-taxation purpose. BEPS implementation should not comprise the sovereignty of each country and, for this reason, it should be implemented as a set of options that countries can consider” (Algorta, C.,Preventing Treaty Abuse: The United Nations’ Perspective, in Preventing Treaty Abuse, a cura di D. W. Blum e M. Seiler, Vienna, 2016, p. 67).

[28] MOLINA, F. J., DTCs and Double Non-Taxation, In Preventing Treaty Abuse, a cura di D. W. Blum e M. Seiler, Vienna, 2016, pp. 72-73 e p. 80.

[29] MOLINA, op. cit. p. 79 secondo cui “the new rules suggested by the OECD require that double non-taxation has to include both an objective double non-taxation outcome and a subjective component of evasion or avoidance”.

[30] In tal senso secondo MOLINA, op. cit. p. 79, “the changes that are suggested by Beps Action 6 intend to tackle certain double non-taxation outcomes that are the product of tax avoidance. This is why intended double non-taxation should not be considered to be part of the scope of the amendments proposed by the Beps project and should be protected from the application of the new OECD rules”.

[31] LANG, M., General report. Cahiers de droit fiscal international, vol. 89A, double non taxation, Amersfoort, 2004, p. 82; SCARPA, A., HEINE, L.A., Avoidance of Double Non-Taxation under the OECD Model Tax Convention, in Intertax, 6/7, 2005, p. 266.

[32] Si noti, tuttavia, che allo stato – ossia fin tanto che i trattati non verranno riformulati secondo le indicazioni fornite dal Progetto Beps – il generale contrasto alla doppia non imposizione non può ritenersi pacifico ed anzi non immediatamente percorribile alla luce dei limiti interpretativi posti dall’art. 31 della Convenzione di Vienna; tale conclusione appare valida soprattutto con riferimento alle ipotesi specifiche di doppia non imposizione derivanti esclusivamente da condotte elusive laddove il trattato di riferimento sia stato concluso sulla base del Modello OCSE di Convenzione antecedente alla sua revisione del 2003 (che per la prima volta ha espressamente introdotto la prevenzione delle condotte abusive tra gli scopi dei trattati). In quest’ottica non sembra del tutto convincente l’atteggiamento assunto sul punto dalla Corte di Cassazione nella citata sentenza del 16 dicembre 2015, n. 25281 secondo cui le regole distributive dei trattati in vigore non possono essere interpretate nel senso di rendere ammissibili delle ipotesi di doppia non imposizione poiché a ciò osterebbe un generalissimo divieto di abuso del diritto, vigente – secondo i giudici – anche nell’ordinamento nazionale, e da cui deriverebbe – al fine di scongiurare la doppia non imposizione – la necessaria riespansione della potestà impositiva dello Stato della fonte in tutti quei casi in cui, secondo le regole pattizie, il reddito ivi prodotto risulterebbe detassato anche nello Stato di residenza (come nel caso oggetto della sentenza in rassegna).

[33] In ambito comunitario tale conclusione non pare possa essere messa in discussione invocando il primato del diritto comunitario, visto che quest’ultimo non prevede un generale divieto di doppia non imposizione in generale, mentre ai sensi della recente Direttiva 2017/952, che ha modificato la direttiva 2016/1164, cosiddetta Anti Tax Avoidance Directive, éravvisabile un divieto di doppia non imposizione unicamente laddove quest’ultima sia il frutto di condotte elusive (Cfr. https://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/17/DOSSIER/1036138/index.html?part=dossier_dossier1-sezione_sezione31h2_h216&parse=si&spart=si)

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