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Attualità

Il diritto di critica nel rapporto di lavoro

9 Giugno 2025

Antonio Cazzella, Partner, Trifirò & Partners Avvocati

Di cosa si parla in questo articolo

Il presente articolo analizza il tema del diritto di critica del lavoratore, soffermandosi sul suo fondamento normativo e sui limiti al suo esercizio.


1. Considerazioni generali.

La “critica” rientra nella (più generale) libertà di espressione, tutelata dall’art. 21 della Costituzione, che garantisce a “tutti” il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto ed ogni altro mezzo di diffusione. Tale diritto è altresì tutelato dall’art. 10 CEDU e, con specifico riferimento al rapporto di lavoro, dall’art. 1 dello Statuto dei Lavoratori.

La critica è un’interpretazione di fatti considerati di pubblico interesse ed ha, più precisamente, il fine (non di informare, ma) di interpretare l’informazione, ovvero, muovendo da un fatto storico, fornire giudizi e valutazioni di carattere personale (dall’autore di una critica non si può pretendere la stessa imparzialità richiesta a chi trasmette un’informazione).

E’ stato infatti precisato che “la manifestazione del pensiero in chiave critica reca con sé, di regola, un giudizio negativo, di disapprovazione dei comportamenti altrui o di dissenso rispetto alle opinioni altrui e possiede, quindi, una incomprimibile potenzialità lesiva nei confronti del destinatario, del suo onore e della sua reputazione” (Cass. 24 aprile 2025, n. 10864, che ha recentemente ribadito, come illustrato nel successivo paragrafo, i requisiti necessari per un legittimo esercizio di tale diritto).

2. Limiti del diritto di critica.

Parimenti ad altre situazioni giuridiche, in cui convivono interessi contrapposti (giuridicamente rilevanti), è necessario un bilanciamento tra il diritto di critica ed altri diritti, tra cui quello (di pari rilevanza costituzionale) all’onore ed alla reputazione.

A tal riguardo, “la giurisprudenza ha individuato i limiti del legittimo esercizio del diritto di critica nella continenza formale e sostanziale, legati rispettivamente alla correttezza e misura del linguaggio adoperato e alla veridicità dei fatti, intesa in senso non assoluto ma soggettivo, nonché nel requisito di pertinenza, intesa come rispondenza della critica ad un interesse meritevole di tutela in confronto con il bene suscettibile di lesione” (Cass. 10864/2025, cit.).

Quanto alla continenza formale è stato precisato che “l’esposizione della critica deve avvenire nel rispetto dei canoni di correttezza, misura e rispetto della dignità altrui. Possono essere utilizzate espressioni di qualsiasi tipo purché siano strumentalmente collegate alla manifestazione di un dissenso ragionato dall’opinione o comportamento preso di mira e non si risolvano in un’aggressione gratuita e distruttiva dell’onore e della reputazione del soggetto interessato (Cass. 10864/2025, cit.).

Con specifico riferimento al rapporto di lavoro, si è affermato che il limite della continenza può dirsi “esemplificativamente superato ove si attribuiscano all’impresa datoriale od ai suoi rappresentanti qualità apertamente disonorevoli, con riferimenti volgari e infamanti e tali da suscitare disprezzo e dileggio, ovvero si rendano affermazioni ingiuriose e denigratorie, con l’addebito di condotte riprovevoli o moralmente censurabili, se non addirittura integranti gli estremi di un reato, oppure anche ove la manifestazione di pensiero trasmodi in attacchi puramente offensivi della persona presa di mira” (Cass. 10864/2025, cit.).

Sempre con riferimento alla “continenza formale”, il Giudice adito – accertata la veridicità dei fatti – deve compiere un’analisi volta a stabilire se i toni “più accesi” siano espressione di un’ampia critica e dello stato d’animo dell’autore o se, invece, “la critica si risolve in un’offesa autonoma, ultronea, in nessun modo agganciata alle rivendicazioni e al rammarico narrato, avente quale unico o prevalente scopo quello di colpire, in modo gratuito e in nessun modo circostanziato, l’operato del datore di lavoro” (Cass. 10864/2025, cit.).

Peraltro, è stato recentemente precisato che, essendo la critica un’espressione di dissenso e/o di disapprovazione, l’offensività di una singola parola o di una specifica frase, magari estrapolata da un intero contesto, in tanto può oltrepassare il limite della continenza formale in quanto sia veicolata con epiteti volgari, disonorevoli o infamanti, oppure qualora non abbia alcun nesso con la disapprovazione espressa e motivata, e si risolva quindi in una aggressione gratuita, fine a sé stessa, dell’altrui reputazione (Cass. 12 febbraio 2025, n. 3627; sulla potenziale lesività dell’altrui sfera giuridica utilizzando una parola inappropriata, vedi anche infra sub paragrafo 4).

Quanto alla “pertinenza”, si è affermato che la critica deve rispondere ad un interesse meritevole di tutela: “nel rapporto di lavoro è sicuramente interesse meritevole quello che si relazioni direttamente o indirettamente con le condizioni del lavoro e dell’impresa, come le rivendicazioni di carattere sindacale o le manifestazioni di opinione attinenti al contratto di lavoro, mentre sono suscettibili di esondare dal limite della pertinenza le critiche rivolte al datore di lavoro, magari afferenti le sue qualità personali, oggettivamente avulse da ogni correlazione con il rapporto contrattuale e gratuitamente mirate a ledere la sua onorabilità” (Cass. 10864/2025, cit.).

A tali principi si è uniformata, sempre recentemente, la giurisprudenza di merito, che ha rilevato, ad esempio, come le espressioni utilizzate “non soddisfano neppure l’interesse del lavoratore in quanto non affini alle prestazioni e alle condizioni di lavoro, ma legate a vicende politiche indimostrate e dirette al solo scopo di ledere l’onore della società datrice” (C. App. Bari, 11 marzo 2025, n. 322).

L’avvenimento rispetto al quale si esprime il giudizio deve stimolare l’interesse pubblico alla conoscenza delle varie opinioni a favore o contrarie ad esso (ciò comporta, tra l’altro, che potrebbe non risultare lecito giudicare e rendere pubblici fatti privati di sconosciuti).

Inoltre, i limiti all’esercizio del diritto di critica – anche se finalizzata a generare una reazione (positiva o negativa) di avvenimenti che riguardano la comunità – devono ritenersi travalicati quando la stessa consista in attacchi personali che colpiscono sul piano individuale un soggetto, senza alcuna finalità di pubblico interesse e quindi, di fatto, con l’unico scopo di aggredire l’altrui sfera morale o professionale.

Pertanto, anche ove i fatti rappresentati dal lavoratore si siano verificati, e siano quindi veritieri, “l’esposizione della critica deve avvenire con modalità espressive che possano dirsi rispettose di canoni, generalmente condivisi, di correttezza, misura e civile rispetto della dignità altrui. Consapevoli dell’inevitabile latitudine di tali concetti, occorre tenere presente che essi, in quanto mutuati dai limiti del diritto di critica e di cronaca in ambito giornalistico e letterario, non possono prescindere dal contesto di riferimento …. Nella valutazione del caso concreto … il confine in discorso può dirsi esemplificativamente superato ove si attribuiscano all’impresa datoriale od ai suoi rappresentanti qualità apertamente disonorevoli, con riferimenti volgari e infamanti e tali da suscitare disprezzo e dileggio, ovvero si rendano affermazioni ingiuriose e denigratorie, con l’addebito di condotte riprovevoli o moralmente censurabili, se non addirittura integranti gli estremi di un reato, oppure anche ove la manifestazione di pensiero trasmodi in attacchi puramente offensivi della persona presa di mira” (Cass. 18 gennaio 2019, n. 1379).

Da ultimo, stante l’attuale diffusione e rilevanza di nuovi mezzi di comunicazione, si ricorda che i limiti al diritto di critica devono essere rispettati anche nel caso di espressioni pubblicate su Facebook (Cass. 27 aprile 2018, n. 10280, che ha evidenziato la “idoneità del mezzo utilizzato a determinare la circolazione del commento tra un gruppo di persone, comunque, apprezzabile per composizione numerica”), mentre appare criticabile la differente posizione della giurisprudenza nell’ipotesi di comunicazioni su chat private (fondata sulla natura “chiusa” delle conversazioni in esse contenute), in quanto tale differente valutazione comporta, inevitabilmente, un sacrificio di valori giuridici (onore e reputazione) di indubbio rilievo costituzionale.

3. Il diritto di critica in ambito sindacale.

In ambito sindacale, il diritto di critica trova ulteriore fondamento nell’art. 39 Cost., che riconosce la libertà sindacale in ogni sua forma, e nell’art. 14 dello Statuto dei Lavoratori, che sancisce la libertà di attività sindacale nei luoghi di lavoro.

Nel contesto sindacale il diritto di critica assume particolare rilevanza stante il ruolo fondamentale svolto dai sindacalisti; tuttavia, anche in tale ambito, la critica deve rispettare i limiti individuati dalla giurisprudenza.

Infatti, “se in relazione all’attività di sindacalista, il lavoratore che sia rappresentante sindacale o in aspettativa sindacale, si pone su un piano paritetico col datore di lavoro cosicché il rapporto di subordinazione rimane sullo sfondo, tuttavia tale rapporto continua ad esistere, con tutto il suo corredo di diritti ed anche di obblighi e di corrispondenti poteri datoriali, pronti a riprendere vigore appena si fuoriesca dai confini del legittimo esercizio delle libertà e prerogative sindacali, e nella specie dai limiti al diritto di critica” (in tal senso, Cass. 16 novembre 2022, n. 33803).

Inoltre, anche più recentemente, è stato evidenziato che il rappresentante sindacale, pur essendo un lavoratore subordinato, non è soggetto al vincolo di subordinazione rispetto al datore di lavoro per l’attività sindacale svolta – in quanto tale attività è costituzionalmente garantita e mira alla tutela degli interessi collettivi dei lavoratori – fermo restando che “l’esercizio del diritto di critica deve rispettare i limiti della correttezza formale e non deve sfociare nell’attribuzione di qualità disonorevoli o riferimenti denigratori non provati all’impresa o ai dirigenti per evitare sanzioni disciplinari” (Cass. 5 settembre 2024, n. 23850).

Nel ricordare che “l’apprezzamento in ordine al superamento dei limiti di continenza e pertinenza costituisce … valutazione rimessa al giudice di merito”, la Corte di Cassazione ha rilevato come il comportamento di un lavoratore, nell’esercizio del diritto di critica, possa risultare illegittimo, nonostante l’assenza di critiche volgari e gratuite, quando le espressioni utilizzate risultino “del tutto esorbitanti rispetto alle modalità di gestione del rapporto di lavoro” (Cass. 23850/2024, cit.).

4. Ulteriori considerazioni.

Ferma l’autonomia del giudizio civile rispetto a quello penale, che costituisce un principio giurisprudenziale consolidato (tra le tante, Cass. 13 marzo 2025, n. 6644), si ricordano alcuni principi enunciati nell’ambito del diritto penale che possono comunque risultare utili per una più esaustiva illustrazione del diritto in esame e dei suoi limiti.

E’ stato recentemente affermato che la critica, quale espressione di opinione meramente soggettiva, ha per sua natura carattere congetturale e non è possibile, per definizione, che sia obiettiva ed asettica (si tratta, come detto, di un concetto illustrato anche dalla giurisprudenza civile); un reato (diffamazione) può quindi consumarsi anche divulgando la verità, essendo sufficiente, ai fini della configurabilità dell’elemento soggettivo, la consapevolezza di formulare giudizi oggettivamente lesivi della reputazione della persona offesa (Cass. Pen. 21 marzo 2025, n. 11571).

Pertanto, anche se il limite immanente della critica è costituito dal fatto che essa non possa essere avulsa da un nucleo di verità, essa non può trascendere in attacchi personali finalizzati ad aggredire la sfera morale altrui.

In particolare, è stata recentemente evidenziata la necessità di un corretto utilizzo della denominazione/qualità con la quale si fa riferimento ad un soggetto al fine di escludere la configurabilità del reato di diffamazione a mezzo stampa (nella fattispecie, “imputato” invece di quella, giuridicamente corretta, di “indagato”: Cass. Sez. Un., 19 maggio 2025, n. 13200).

La sentenza da ultimo citata può (implicitamente) considerarsi come un invito alla massima precisione e rigore nell’utilizzo della terminologia giuridica ma anche, verosimilmente e più in generale (quindi, anche nell’ambito del rapporto di lavoro), al corretto utilizzo di parole/frasi che potrebbero in concreto risultare idonee a cagionare una lesione dell’altrui onore e reputazione.

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