Il presente contributo analizza i casi in cui possa considerarsi legittimo il rifiuto da parte del dipendente di svolgere le mansioni assegnate nel contesto del rapporto di lavoro.
1. Considerazioni generali.
La possibilità che il dipendente possa rifiutarsi di svolgere le mansioni assegnate (oppure, come vedremo, di eseguire un ordine) è un evento che può verificarsi nel corso del rapporto di lavoro: quando ciò accade, il verosimile interrogativo riguarda la possibilità che tale comportamento configuri una responsabilità disciplinare.
Il punto di partenza per formulare una risposta coerente ai principi dell’ordinamento è la natura del rapporto di lavoro subordinato, che si fonda sullo scambio tra attività lavorativa e retribuzione (art. 2094 c.c.); pertanto, il rifiuto del lavoratore di eseguire la prestazione, può essere considerato un inadempimento contrattuale, salva la necessità di valutare la legittimità del rifiuto.
Infatti, il rifiuto opposto dal dipendente (frequentemente motivato da ragioni di “autotutela”) potrebbe essere giustificato, atteso che gli obblighi di cui egli è onerato, derivanti soprattutto dal codice civile (tra cui l’art. 2104 c.c., che sancisce il dovere di diligenza di cui è onerato il lavoratore), devono essere bilanciati con altre previsioni normative.
La norma prevalentemente richiamata al fine di valutare la legittimità del rifiuto è l’art. 1460 c.c. (eccezione di inadempimento), secondo cui, nei contratti a prestazioni corrispettive, ciascuna parte può rifiutare (in buona fede) l’adempimento se l’altra non adempie.
Tuttavia, un inadempimento datoriale non legittima automaticamente il rifiuto della prestazione da parte del dipendente, poiché tale rifiuto, avuto riguardo alle circostanze del caso concreto (ad esempio, il comportamento complessivo di entrambe le parti), non deve essere contrario alla buona fede (tra le tante, Cass. 18 aprile 2023, n. 10227).
Ad esempio, nel valutare la singola fattispecie, si deve accertare, non solo, se nel comportamento datoriale siano eventualmente ravvisabili profili di illiceità (non riconducibili ad una mera percezione soggettiva del lavoratore) e le ricadute nel rapporto di lavoro, ma anche le conseguenze negative che il rifiuto del dipendente può provocare sull’organizzazione del lavoro.
2. Il rifiuto di svolgere la prestazione per la tutela della salute.
Una delle più frequenti ragioni addotte dal lavoratore a fondamento del rifiuto di svolgere la prestazione lavorativa riguarda l’ipotesi che l’adempimento della prestazione possa compromettere il suo stato di salute.
In tal caso, la valutazione sulla legittimità del rifiuto prevede la comparazione/bilanciamento di obblighi e diritti, tra cui l’obbligo di fedeltà e di diligenza del lavoratore nonchè il suo diritto alla salute.
Volendo formulare un esempio circoscritto al tema della sicurezza sul lavoro, la posizione delle parti potrebbe essere rappresentata dagli obblighi nascenti dalle prescrizioni del d.lgs. n. 81/2008 (Testo Unico sulla Sicurezza nel luogo di lavoro) e, più precisamente, dall’art. 18 (che impone al datore di lavoro ed ai dirigenti l’obbligo di garantire la sicurezza, la formazione e l’informazione dei dipendenti) e dall’art. 20 (secondo cui lavoratori devono rispettare le norme di sicurezza e collaborare attivamente alla prevenzione).
Le fattispecie concrete, come si può agevolmente intuire, sono le più varie.
In particolare, la recente giurisprudenza ha esaminato quali siano i limiti entro cui il lavoratore possa legittimamente svolgere indagini autonome sulla sicurezza nel luogo di lavoro: il tema è rilevante, anche perchè tale iniziativa è spesso prodromica al suo rifiuto di svolgere le mansioni assegnate o di eseguire un ordine.
In una fattispecie esaminata dalla recente giurisprudenza di legittimità (Cass. 4 settembre 2025, n. 24562), è stato valutato il rifiuto di un infermiere di svolgere la prestazione in favore di un paziente al quale dovevano essere somministrati farmaci salvavita, rifiuto motivato dal lavoratore (che aveva precedentemente svolto un’indagine in Internet utilizzando il suo telefono cellulare) sull’assunto che il paziente fosse affetto da un’infezione simile al Covid e che non vi fossero adeguati mezzi apprestati dal datore a difesa della sua salute (nella fattispecie era inoltre era emerso che il dipendente aveva riferito l’esito della sua indagine ad altri colleghi).
Si tratta quindi di un rifiuto opposto dal lavoratore per la salvaguardia della propria salute.
Nella citata sentenza la Corte di Cassazione ha interpretato la portata delle norme di legge sopra richiamate.
Quanto agli accertamenti svolti dal lavoratore sull’infezione di cui era affetto il paziente al quale avrebbe dovuto prestare le cure, è emerso che il Tribunale (con accertamento disatteso in secondo grado), nel valutare le condotte contestate, tra cui, in particolare, quella consistente nell’aver ricercato informazioni sull’agente patogeno (e sui mezzi di prevenzione/contenzione del contagio), l’aveva ritenuta lecita, affermando che essa costituisse espressione di una facoltà di verifica sottesa al dovere di “segnalare immediatamente al datore di lavoro, al dirigente o al preposto le deficienza dei mezzi e dei dispositivi” (art. 20 D. Lgs. n. 81/2008) e concludendo che tale condotta fosse sostanzialmente riconducibile all’esercizio della sua libertà di opinione (cfr. Cass. 24562/2025, cit.).
A tal riguardo, la Cassazione ha invece precisato che al lavoratore non è preclusa la possibilità di acquisire autonomamente informazioni su eventuali fattori di rischio presenti nel contesto lavorativo, ma tale diritto deve essere esercitato conformemente alle istruzioni ricevute dal datore di lavoro, come previsto dal comma 1 dell’art. 20 sopra citato; pertanto, essendo nel caso in esame vietato – dal Regolamento di Servizio adottato dal datore – l’uso del telefono cellulare durante l’orario di lavoro (esclusa l’ipotesi di malfunzionamento dei sistemi telefonici interni), deve ritenersi che la condotta del lavoratore – anche ove riconducibile ad un’iniziativa finalizzata alla tutela della salute e della sicurezza sul luogo di lavoro (art. 20, comma 2, lett. a) – non sia scevra di rilevanza disciplinare, in quanto egli aveva divulgato informazioni che, a prescindere dalla loro fondatezza, erano state acquisite illegittimamente.
Richiamando le statuizioni della Corte di merito, è stato specificamente considerato il comportamento di un infermiere professionale – in particolare, è stato escluso “che l’infermiere professionale inserito in una struttura possa, senza interloquire con il superiore (caposala) e il personale medico, che in ogni caso, sovrintende alla corretta gestione dei protocolli (che si basano in ogni caso su letteratura scientifica), affermare autonomamente l’esistenza di una oggettiva condizione di pericolosità da contagio” (Cass. n. 24562/2025, cit.) – illustrando criteri di valutazione del comportamento tenuto dal dipendente in una situazione che potrebbe verificarsi, seppure con altre modalità, anche in altri contesti lavorativi.
In definitiva, ciò che emerge dalla pronuncia in esame, è che possibili accertamenti effettuati autonomamente da un dipendente – anche ove finalizzati alla tutela della salute e della sicurezza sul luogo di lavoro – devono essere attuati in conformità delle regole (datoriali) eventualmente esistenti, tenendo conto che, in relazione al contesto di riferimento, il comportamento del lavoratore può avere ricadute non solo sull’esecuzione della sua prestazione ma anche su quella dei colleghi.
3. Il rifiuto opposto dal lavoratore ad un ordine illegittimo.
Una delle ragioni poste dal lavoratore a fondamento del rifiuto di svolgere un compito assegnato riguarda la configurabilità di un ordine ritenuto illegittimo (il caso tipico è quello di un ordine che il lavoratore ritiene contrastante con una norma di legge o di contratto collettivo).
In tal caso, si deve valutare se il dipendente possa rifiutarsi di eseguire un ordine impartito dal datore di lavoro, posto che il rapporto di lavoro subordinato attribuisce al datore un potere direttivo ed organizzativo, in virtù del quale il prestatore è tenuto a eseguire le disposizioni ricevute dall’imprenditore o dai collaboratori di questo dai quali dipende (art. 2104 c.c.).
Pertanto, il rifiuto di eseguire un ordine deve essere motivato da una concreta illegittimità e non da una mera percezione soggettiva di ingiustizia, poiché il rifiuto non conforme a buona fede (pretestuoso) o sproporzionato (perchè non circoscritto all’ordine impartito) può essere considerato insubordinazione e, quindi, giustificare l’applicazione di una sanzione disciplinare.
Quanto al rapporto tra rifiuto di eseguire un ordine illegittimo e sanzioni disciplinari eventualmente applicabili, la giurisprudenza ha ribadito, nel tempo, che l’esecuzione di un ordine illegittimo non esclude la configurabilità di una giusta causa di licenziamento, in quanto non trova applicazione nel rapporto di lavoro privato l’art. 51 c.p. (che esclude la punibilità di chi esegue un ordine illegittimo) in assenza di un potere di supremazia, inteso in senso pubblicistico, riconosciuto dalla legge al superiore (Corte Appello Milano, 17 aprile 2025, n. 336; in senso conforme, Cass. 22 gennaio 2019, n. 1582).
In conclusione, anche con riferimento al tema del rifiuto opposto dal lavoratore a svolgere le mansioni assegnate (ovvero, ad eseguire un ordine del superiore) è necessaria una verifica del caso concreto per valutare se il rifiuto possa, o meno, assumere rilevanza disciplinare.