Il presente contributo analizza la possibile responsabilità in capo al dipendente pur danneggiato da comportamenti illegittimi del datore.
1. Premessa.
Nell’ambito del rapporto di lavoro possono insorgere conflittualità suscettibili di determinare nei confronti del dipendente un danno, che presuppone una responsabilità in capo al datore di lavoro.
In tali casi, può talvolta configurarsi anche una responsabilità del dipendente danneggiato, che rende necessario valutare quali siano le conseguenze sul piano giuridico.
Per rispondere alla domanda è preliminarmente opportuna una breve disamina delle fattispecie più frequentemente esaminate in sede giudiziaria.
2. Mobbing, Straining, Bossing e Stalking.
La giurisprudenza ha individuato alcune ipotesi in cui il lavoratore può subire comportamenti illegittimi.
Ad esempio, anche recentemente, è stato affermato che è configurabile il mobbing – fattispecie non tipizzata legislativamente, ma elaborata dalla giurisprudenza muovendo dalle prescrizioni dell’art. 2087 c.c. (si tratta di “una nozione di tipo medico – legale, che non ha autonoma rilevanza ai fini giuridici”: Cass. 7 giugno 2024, n. 15957) – ove ricorra un elemento “obiettivo”, consistente nella pluralità di comportamenti pregiudizievoli per la persona, e quello “soggettivo” dell’intento persecutorio nei confronti della vittima (Cass. 12 maggio 2025, n. 12518).
Il bossing è una sottocategoria del mobbing, che si verifica quando le condotte vessatorie provengono direttamente dal datore di lavoro o da un superiore gerarchico (la giurisprudenza, infatti, ha già da tempo definito il bossing come una fattispecie di “mobbing verticale”: tra le tante, si ricorda Cass. 8 aprile 2022, n. 11521).
È configurabile lo straining (nozione giurisprudenziale elaborata per disciplinare situazioni simili al mobbing, ma meno gravi e strutturate) quando vi siano comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche se manchi la pluralità delle azioni vessatorie e le stesse siano quindi limitate nel numero (Cass. 12518/2025, cit.).
Resta confermato, anche alla luce di recenti orientamenti della giurisprudenza, che l’onere di provare i comportamenti illegittimi dedotti (nonché l’eventuale danno) spetta al lavoratore (Cass. 14 novembre 2024, n. 29400).
Sotto un profilo più specificamente penale si ricorda lo stalking, fattispecie tipizzata penalmente dall’art. 612-bis c.p., configurabile anche sul luogo di lavoro (c.d. “workplace stalking”).
3. La condotta del lavoratore. Possibili riflessi giuridici.
E’ ragionevole considerare, anche coerentemente ai principi generali dell’ordinamento giuridico (più avanti richiamati), che non ogni situazione di disagio lavorativo è ascrivibile unicamente al datore di lavoro e che il comportamento della vittima/dipendente (consistente, ad esempio, in mancanza di cooperazione, molestie, reazioni sproporzionate, provocazioni, magari anche nei confronti del collega accusato di mobbing o stalking) può ridurre l’entità del danno risarcibile e, talvolta, rilevare anche al fine di escludere una responsabilità datoriale.
D’altra parte, è pacifico che, nel rapporto di lavoro, il dipendente ha l’obbligo di comportarsi secondo buona fede e correttezza (artt. 1175 e 1375 c.c.).
Nel caso in cui il lavoratore agisca in sede giudiziale, il giudicante – soggetto esterno, non coinvolto nelle dinamiche aziendali – potrà quindi verificare ed accertare se, con riferimento alla condotta del lavoratore, si possa sostenere (come già affermato dalla giurisprudenza con riferimento al datore) che comportamenti, magari apparentemente legittimi, possano comportare una responsabilità dello stesso per eventuali danni subiti e/o incidere sulla quantificazione di tali danni.
D’altra parte, se dovesse essere accertato che la condotta scorretta del dipendente (eventualmente danneggiato) abbia contribuito al deterioramento del clima aziendale oppure abbia cagionato un danno all’organizzazione ovvero ad altri colleghi, non si comprende per quale ragione si debba escludere una responsabilità a suo carico.
Pertanto, condotte non corrette del lavoratore possono dar luogo non solo ad una responsabilità disciplinare, ma anche ad una responsabilità verso il datore di lavoro (ex art. 2087 c.c.) nonchè verso terzi (ex art. 2043 c.c.).
In ogni caso, è importante prendere in considerazione che persino in situazioni di conflitto generate inizialmente dal datore o da colleghi, il lavoratore (che attui i comportamenti sopra descritti) può, quantomeno, contribuire al danno.
Invero, la Corte di Cassazione, anche nella differente (talvolta più grave) ipotesi di infortunio sul lavoro, ha riconosciuto una responsabilità del dipendente nel verificarsi dell’evento dannoso, affermando che “non può, peraltro, escludersi che il comportamento colposo del lavoratore, autonomamente intrapreso ma non tale da integrare gli estremi del rischio elettivo, possa determinare un concorso di colpa, da regolare ai sensi dell’art. 1227 c.c., allorquando l’evento dannoso non possa dirsi frutto dell’incidenza causale decisiva del solo inadempimento datoriale, ma derivi dalla indissolubile coesistenza di comportamenti colposi di ambo le parti del rapporto di lavoro” (Cass. 26 novembre 2021, n. 36865).
Conseguentemente, può ritenersi pacifico che, in materia di mobbing o straining (o, più in generale, di condotte vessatorie e/o stressogene), il comportamento colposo o concorsuale del dipendente possa incidere sulla valutazione della responsabilità del datore di lavoro e sulla quantificazione del danno risarcibile, che può quindi subire una riduzione proporzionale.
Per completare il quadro della rilevanza giuridica dei comportamenti attuati dal dipendente, si ricorda che l’ordinamento non consente di farsi giustizia da sé (art. 392 c.p., che contempla il reato di “esercizio arbitrario delle proprie ragioni”) e che la vittima non può abusare di un proprio diritto a scapito altrui (art. 2043 c.c. in combinato con l’art. 833 c.c., che prevede il divieto di atti emulativi).
Rimane quindi confermato, anche alla luce delle norme da ultimo richiamate, che la condotta del dipendente possa generare una responsabilità a suo carico.
In tale ottica, è stato affermato, anche recentemente, che l’azione violenta (o la condotta di resistenza) della persona offesa integra il concorso del fatto colposo del danneggiato ai sensi e per gli effetti dell’art. 1227 c.c. (Cass. 5 febbraio 2025, n. 2847).
In particolare, è anche possibile, nel valutare il caso concreto, che il comportamento del lavoratore non rilevi solo come concorso di colpa, ma possa escludere la sussistenza di un comportamento anche solo colpevole del datore di lavoro.
Infatti, in una fattispecie in cui una lavoratrice aveva dedotto l’esistenza di vari comportamenti illegittimi imputabili al datore, la Suprema Corte – nel rigettare il gravame proposto dalla dipendente – ha rilevato come dagli atti di causa (nonché dalle risultanze istruttorie) emergesse un’accesa conflittualità tra la dipendente ed i datori succedutisi nel tempo, ovvero, in altri termini, una “situazione di forti divergenze sul luogo di lavoro”, che “non intercettano una situazione di nocività, perché il rapporto interpersonale, specie se inserito in una relazione gerarchica continuativa e tanto più in una situazione di difficoltà amministrativa quale emerge dagli atti, è in sé possibile fonte di tensioni” (Cass. 6 ottobre 2022, n. 29059).
4. Considerazioni conclusive.
In conclusione, si può sostenere – anche in ipotesi differenti dall’infortunio sul lavoro (dove il tema del comportamento del lavoratore è stato più frequentemente trattato) – che condotte abnormi o, comunque, “autolesive” del dipendente (che non siano, quindi, riconducibili ad una fisiologica conflittualità sul luogo di lavoro) possano non soltanto essere valutate al fine di configurare un concorso di colpa, ma anche per escludere del tutto la responsabilità datoriale.