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Diritto di ripensamento nell’offerta fuori sede di prodotti finanziari: dalle questioni semantiche all’eterogenesi dei fini

10 Giugno 2013

Avv. Fabio Civale, Zitiello e Associati Studio Legale

Di cosa si parla in questo articolo

Sommario: 1 La sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 13905 del 3 giugno 2013. 2. La ricostruzione (storica) del diritto di ripensamento nell’offerta fuori sede. 3. Le questioni semantiche. 4. L’eterogenesi dei fini. 5. Dell’ambito di applicazione del diritto di ripensamento individuato dalla Suprema Corte.

1. La sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 13905 del 3 giugno 2013

Nel tormentato dibattito in ordine al diritto di ripensamento nell’offerta fuori sede di prodotti finanziari si innesta, oggi, la sentenza della Corte di Cassazione, Sezioni Unite, n. 13905 del 3 giugno 2013.

La questione su cui la Suprema Corte è stata chiamata ad esprimersi concerne l’ambito di applicazione del diritto di ripensamento nell’offerta fuori sede (c.d. ius poenitendi), se in particolare tale diritto del cliente si applichi solo alle operazioni di investimento disposte nell’ambito del servizio di collocamento di strumenti finanziari prestato dall’intermediario, ovvero se lo stesso diritto di ripensamento sia applicabile alle operazioni disposte fuori sede dal cliente anche nell’ambito dei servizi diversi dal collocamento di strumenti finanziari, quali la negoziazione per conto proprio, l’esecuzione di ordini per conto dei clienti, la ricezione e la trasmissione di ordini.

Le Sezioni Unite della Suprema Corte, mutando radicalmente il precedente orientamento espresso dalla Prima Sezione della Cassazione (1), nonché in aperta antitesi con l’orientamento dell’Autorità di vigilanza di settore (2), hanno espressamente riconosciuto l’estensione del diritto di ripensamento da parte del cliente alle operazioni di investimento (e forse disinvestimento) disposte fuori sede nell’ambito dei servizi di negoziazione per conto proprio, esecuzione di ordini per conto dei clienti, ricezione e trasmissione di ordini, oltre che nell’ambito del servizio di collocamento di strumenti finanziari.

Anticipando le conclusioni, occorre rilevare che la sentenza delle Sezioni Unite, pur con il dovuto rispetto, non appare condivisibile sotto diversi profili.

La Suprema Corte dapprima concentra la sua analisi su questioni di natura semantica, per poi richiamarsi alla ratio della norma (art. 30, comma 6 del d. lgs. 24 febbraio 1998, n. 58) individuata nella finalità di tutela del cliente, rimanendo peraltro così vittima di un fenomeno di reale eterogenesi dei fini.

Le ragioni che conducono a non condividere la pronuncia sono molteplici e saranno di seguito esposte. Peraltro, al fine di inquadrare correttamente il diritto di ripensamento nell’offerta fuori sede di prodotti finanziari, si impone dapprima una rapida ricostruzione dell’origine storica della attuale previsione.

2. La ricostruzione (storica) del diritto di ripensamento nell’offerta fuori sede

La prima disciplina del diritto di ripensamento a favore del cliente risale all’art. 18 ter, comma 2, della legge 7 giugno 1974, n. 216, che disponeva la sospensione dei “contratti stipulati mediante vendite a domicilio per la durata di cinque giorni decorrenti dalla data di sottoscrizione”. Entro detto termine il cliente poteva comunicare il proprio recesso senza corrispettivo al “venditore o al suo agente, procuratore o commissionario”. La previsione del diritto di recesso doveva essere riprodotta nei contratti, applicandosi in assenza una ipotesi di nullità ai sensi dell’ultimo comma del citato art. 18 terdella legge 7 giugno 1974, n. 216.

Il diritto di recesso, previsto dall’art. 18 ter della legge 7 giugno 1974, n. 216, si applicava a tutti i contratti aventi ad oggetto valori mobiliari conclusi in seguito a sollecitazione al pubblico risparmio svolta fuori sede (“porta a porta”).

Successivamente, e senza alcuna abrogazione del richiamato art. 18 ter, comma 2, della legge 7 giugno 1974, n. 216, è stato adottato l’art. 8, comma 1, lett. c) della legge 2 gennaio 1991, n. 1, che prevedeva un analogo (ma non identico) diritto di ripensamento per il cliente in relazione al contratto di gestione di patrimoni conclusi tanto in sede quanto fuori sede (3).

L’art. 8, comma 1, lett. c) della legge 2 gennaio 1991, n. 1 è stato quindi ripreso e soppiantato dall’art. 20 del d. lgs. 23 luglio 1996, n. 415 che, sempre limitatamente ai contratti di gestione di portafogli, assicurava al cliente uno ius poenitendi di sette giorni dalla data di sottoscrizione in caso di offerta fuori sede (disciplinata dall’art. 22 del d. lgs. 23 luglio 1996, n. 415) o di collocamento a distanza (disciplinato dall’art. 24 del d. lgs. 23 luglio 1996, n. 415).

Anche a seguito dell’art. 20 del d. lgs. 23 luglio 1996, n. 415, restava applicabile l’ulteriore diritto di ripensamento previsto dall’art. 18 ter, comma 2, della legge 7 giugno 1974, n. 216 avente di per sé un più ampio ambito di applicazione.

In breve, prima dell’entrata in vigore del d. lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, la disciplina del diritto di ripensamento riconosciuto al cliente era contenuta in due distinte previsioni: l’art. 18 ter, comma 2, della legge 7 giugno 1974, n. 216 e l’art. 20 del d. lgs. 23 luglio 1996, n. 415 (c.d. decreto Eurosim).

Con l’adozione del d. lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (T.U.F.), abrogate le precedenti e citate norme, è stata introdotta una nuova disciplina dell’offerta fuori sede e dello ius poenitendi riconosciuto al cliente.

In particolare, l’attuale comma 6 dell’art. 30 del T.U.F. chiarisce che “l’efficacia dei contratti di collocamento di strumenti finanziari o di gestione di portafogli individuali conclusi fuori sede è sospesa per la durata di 7 giorni decorrenti dalla data di sottoscrizione da parte dell’investitore. Entro detto termine l’investitore può comunicare il proprio recesso, senza spese né corrispettivo al promotore finanziario o al soggetto abilitato; tale facoltà è indicata nei moduli o formulari consegnati all’investitore. La medesima disciplina si applica alle proposte contrattuali effettuate fuori sede”.

Il successivo comma 7 dell’art. 30 del T.U.F. prevede la nullità dei contratti in cui sia omessa la facoltà di recesso, nullità che può essere fatta valere solo dal cliente.

3. Le questioni semantiche

Il deflagrare del contenzioso tra banche e clienti concernenti operazioni di investimento ha acceso una luce sulla interpretazione e portata applicativa da attribuire all’art. 30, comma 6, del T.U.F..

Due ed opposte sono le posizioni riscontrabili in dottrina e giurisprudenza (4).

Secondo una prima lettura, che muove dal dato letterale dell’art. 30, comma 6, del T.U.F. ma si articola in ulteriori annotazioni di carattere sistematico ed operativo, il diritto di ripensamento riconosciuto al cliente nell’ambito dell’offerta fuori sede sarebbe da applicarsi esclusivamente ai “contratti di collocamento di strumenti finanziari” ed ai “contratti di gestione di portafogli individuali conclusi fuori sede”.

All’opposto, parte della giurisprudenza e della dottrina, facendo perno sulla necessità di tutela del cliente potenzialmente sorpreso dalle modalità dell’offerta fuori sede, ritiene che il diritto di ripensamento riconosciuto al cliente sarebbe da applicarsi a tutte le operazioni concluse fuori sede, ciò a prescindere dallo specifico servizio di investimento prestato dall’intermediario.

La sentenza della Corte di Cassazione, Sezioni Unite, n. 13905 del 3 giugno 2013, avvalora tale seconda ricostruzione, sulla base in primo luogo di alcune considerazioni di carattere prettamente semantico.

La Suprema Corte annota come l’espressione collocamento sia utilizzata nell’art. 30, comma 1,del T.U.F. in senso ampio, generico e con un’accezione atecnica.

Il collocamento, quale servizio di investimento previsto dall’art. 1, comma 5, lett. c) e c-bis), del T.U.F. può avere ad oggetto esclusivamente strumenti finanziari. L’offerta fuori sede, disciplinata nell’art. 30, comma 1, del T.U.F. ha invece un oggetto più ampio in quanto ricomprende la promozione ed il collocamento fuori sede di strumenti finanziari ed anche, qui la differenza, di servizi ed attività di investimento (5).

Allorquando l’offerta fuori sede ha ad oggetto servizi di investimento, siamo evidentemente in un ambito diverso dal servizio di collocamento di cui all’art. 1, comma 5, lett. c) e c-bis), del T.U.F.e potremmo ritenere che la stessa espressione “collocamento” sia assimilabile all’espressione “distribuzione” di servizi di investimento (6).

Sin qui le considerazioni della Cassazione appaiono pienamente condivisibili.

E’ il successivo passaggio che suscita perplessità allorquando la Suprema Corte afferma che, proprio in ragione del significato ampio da attribuire all’espressione “collocamento” di cui all’art. 30, comma 1, del T.U.F., “nasce da ciò il dubbio che nell’intero art. 30 l’espressione collocamento sia stata adoperata dal legislatore con un significato più ampio e generico, quasi come sinonimo di qualsiasi operazione volta ad immettere sul mercato prodotti finanziari o servizi di investimento” .

La Cassazione giunge a chiedersi se “la portata delle disposizioni in tema di recesso e di eventuale nullità sia circoscritta ai soli contratti stipulati fuori sede a mezzo dei promotori da intermediari impegnati nella prestazione di veri e propri servizi di collocamento, quali sopra definiti (oltre che nel servizio di gestione di portafogli), oppure se anche qui, come già visto a proposito della definizione dell’offerta fuori sede contenuta nel primo comma, la parola collocamento sia da intendere in un’accezione più ampia ed in qualche misura atecnica, cioè quale sinonimo di qualsiasi operazione implicante la vendita all’investitore di strumenti finanziari, anche nell’espletamento di servizi di investimento diversi (negoziazione, esecuzione, ricezione e trasmissione di ordini) se effettuata dall’intermediario al di fuori della propria sede”.

A tale quesito la stessa Suprema Corte ritiene non possa darsi “una risposta soddisfacente” mediante il “mero dato letterale”.

La questione semantica è stata quindi posta e lasciata irrisolta dalla Suprema Corte.

L’ambiguità del dato letterale, ritenuta dalla Suprema Corte, del termine “collocamento” è peraltro il presupposto stesso su cui poggia l’intera sentenza qui in commento.

Affermando l’insufficienza del dato letterale, infatti, la Suprema Corte ha potuto “superare” il criterio ermeneutico principe di cui all’art. 12, comma 1, delle preleggi rappresentato dal “significato proprio delle parole” ed al quale l’interprete deve attenersi quando esso sia sufficiente ad individuare in modo chiaro ed univoco la portata precettiva della norma, potendo quindi ricorrere a criteri di ermeneutica sussidiari costituiti dalla ricerca, attraverso l’esame complessivo del testo, della “mens legis”.

Ciò che non convince, in particolare, è tanto l’affermata ambiguità ed insufficienza del dato letterale della norma, quanto l’assimilazione compiuta tra primo e sesto comma dell’art. 30 del T.U.F..

Mentre nel primo comma il legislatore utilizza, volutamente e scientemente, l’espressione “collocamento” con valenza ampia ed al punto da ricomprendere anche l’attività di distribuzione di servizi di investimento, nel sesto comma si utilizza altra e distinta espressione, “contratti di collocamento di strumenti finanziari o di gestione di portafogli”, avente chiara ed univoca valenza tecnica e restrittiva, sussumibile nelle definizioni contenute nell’art. 1, comma 5, del T.U.F..

La differenza tra le due espressioni non può essere trascurata e riflette, a ben vedere, l’evoluzione storica della disciplina dell’offerta fuori sede e del diritto di ripensamento che, per lungo tempo, come ricordato nel paragrafo precedente, hanno avuto una disciplina distinta e solo in parte coincidente.

Nell’art. 30 del T.U.F., quindi, l’espressione “collocamento” (comma 1) e l’espressione “contratti di collocamento di strumenti finanziario di gestione di portafogli” (comma 6), hanno significati ed ambiti di applicazione diversi.

Nel primo comma dell’art. 30 del T.U.F., utilizzando l’espressione “collocamento”, il legislatore intende definire il fenomeno dell’attività di offerta fuori sede. Che la volontà del legislatore sia definitoria appare indiscutibile in quanto espressamente l’incipit del comma 1 dell’art. 30 del T.U.F. prevede che “per offerta fuori sede si intende …”.

Nel sesto comma dell’art. 30 del T.U.F., invece, utilizzando l’espressione “contratti di collocamento di strumenti finanziario di gestione di portafogli”, il legislatore intende disciplinare il fenomeno della sospensione dei citati contratti per la durata di sette giorni dalla data di sottoscrizione da parte dell’investitore. Non siamo in un ambito definitorio, bensì di disciplina di un fenomeno giuridico quale la sospensione dell’efficacia di specifici e nominati contratti.

Mentre nella individuazione e definizione di una attività, quale l’offerta fuori sede, il legislatore ha utilizzato in senso ampio l’espressione “collocamento” (comma 1), allorquando lo stesso legislatore ha inteso disciplinare un fenomeno giuridico di sospensione dell’efficacia dei contratti non ha potuto che utilizzare le espressioni secondo il significato proprio e coerentemente con le definizioni di cui all’art. 1, comma 5, del T.U.F..

Non è un caso che nel primo comma dell’art. 30 del T.U.F. l’espressione collocamento è accostata anche ai servizi di investimento, mentre nel successivo sesto comma è accostata in modo specifico ed esclusivo agli strumenti finanziari, in ossequio a quanto previsto dalla definizione del relativo servizio di investimento contenuta nell’art. 1, comma 5, lett. c) e c-bis), del T.U.F..

Non è un caso ancora che nel primo comma l’espressione “collocamento” è utilizzata in modo autonomo ed in connessione all’ulteriore espressione “promozione” essendo entrambe destinate a definire una attività di offerta, mentre nel sesto comma dell’art. 30 del T.U.F. l’espressione collocamento è utilizzata unitamente al termine contratto, essendo diretta a disciplinare un fenomeno di sospensione dell’efficacia giuridica.

Nessun dato letterale ambiguo, ma solo significati ed espressioni distinte.

Seppure poi si voglia attribuire all’espressione “collocamento” di cui al comma 1 dell’art. 30 del T.U.F. un significato ambiguo, non si comprende per quale ragione tale ambiguità debba poi ricondursi e trasferirsi anche alla distinta espressione di cui al comma 6 dell’art. 30 del T.U.F. riferita ai “contratti di collocamento di strumenti finanziario di gestione di portafogli”.

Il significato proprio dell’espressione “contratti di collocamento di strumenti finanziario di gestione di portafogli” di cui al comma 6 dell’art. 30 del T.U.F. non può essere di certo fatta dipendere dall’affermata ambiguità della distinta espressione “collocamento” di cui al comma 1 della medesima norma.

Sempre in termini di questioni semantiche, verrebbe poi da chiedersi per quale ragione il legislatore, nell’ambito di un testo unico caratterizzato da specifiche definizioni, avrebbe poi utilizzato nel comma 6 dell’art. 30 del T.U.F. l’espressione “contratti di collocamento di strumenti finanziario di gestione di portafogli” volendo riferirsi non solo a tali nominati contratti (ed alle corrispondenti definizioni per quanto concerne i servizi), bensì ed in termini più generali alle operazioni di investimento effettuate fuori sede anche nell’ambito dei servizi di investimento diversi dal collocamento e dalla gestione di portafogli, quali la negoziazione per conto proprio, l’esecuzione di ordini per conto dei clienti, la ricezione e la trasmissione di ordini.

Se davvero fosse stata questa la volontà legislativa non si comprende per quale ragione operare un riferimento specifico a due servizi di investimento (collocamento e gestione) e non utilizzare invece un’espressione parimenti ampia (come nel comma 1) ed in grado di ricomprendere tutti i servizi esecutivi di ordini dei clienti e la gestione di portafogli individuale.

In conclusione, pare davvero dubbio possa attribuirsi all’art. 30, comma 6, del T.U.F. un significato ambiguo e di per sé non soddisfacente. Ai sensi dell’art. 12, comma 1, delle preleggi il “significato proprio delle parole” di cui all’art. 30, comma 6, del T.U.F. non consente di estendere la disciplina dello ius poenitendi a fattispecie diverse dal contratto di collocamento di strumenti finanziari e dal contratto avente ad oggetto il servizio di gestione patrimoniale conclusi fuori sede.

3. L’eterogenesi dei fini

Attribuendo carattere ambiguo e non soddisfacente al dato letterale di cui all’art. 30, comma 6, del T.U.F., nonché non valorizzando come decisiva l’evoluzione storica del diritto di ripensamento, la Suprema Corte di Cassazione ha ritenuto di affidare l’interpretazione della suddetta norma alla ricerca della ratio legis.

La sentenza della Corte di Cassazione, Sezioni Unite, n. 13905 del 3 giugno 2013 individua la ratio dell’art. 30, comma 6, del T.U.F. nell’esigenza di tutela connessa al “rischio che il cliente venga colto di sorpresa, quando il singolo ordine sia frutto di una sollecitazione posta in essere dall’intermediario fuori dalla propria sede”.

Ad avviso della Suprema Corte, nell’ambito dell’offerta fuori sede è “logico (…) presumere” che “l’investimento non sia conseguenza di una premeditata decisione dello stesso investitore, il quale a tale scopo si sia recato presso la sede dell’intermediario, ma costituisca invece il frutto di una sollecitazione proveniente da promotori della cui opera l’intermediario si avvale; sollecitazione che, perciò stesso, potrebbe aver colto l’investitore impreparato ed averlo indotto ad una scelta negoziale non sufficientemente meditata. Il differimento dell’efficacia del contratto, con la possibilità di recedere nel frattempo senza oneri per il cliente, vale appunto a ripristinare, a posteriori, quella mancanza di adeguata riflessione preventiva che la descritta situazione potrebbe aver causato”.

Qui si annida l’eterogenesi dei fini, tanto in termini di possibili conseguenze pregiudizievoli per gli investitori, quanto in termini di criticità sistematica.

Affermando che il diritto di recesso per il cliente di cui all’art. 30, comma 6, del T.U.F. si applica alle operazioni di investimento eseguite nell’ambito dei servizi di negoziazione per conto proprio, esecuzione di ordini per conto dei clienti e ricezione e trasmissione di ordini (oltre che di collocamento), la Cassazione ha di fatto affermato che a tali operazioni fuori sede si applica necessariamente la sospensiva dell’efficacia degli ordini dei clienti per un periodo pari a sette giorni dalla data di sottoscrizione da parte dell’investitore (7).

Si ponga l’attenzione sulla circostanza che l’esecuzione avverrà non solo dopo sette giorni, ma anche al “prezzo” che lo strumento finanziario registrerà alla scadenza del termine di sospensiva.

Ne consegue, pertanto, che allorquando il cliente conferisce un ordine fuori sede non solo non avrà un eseguito immediato, ma di per sé, la sua volontà di investimento seppur sospesa quanto ad efficacia sarà comunque espressa senza conoscere il prezzo in base al quale l’operazione di investimento sarà eseguita. E’ davvero difficilmente conciliabile con la dichiarata finalità di promuovere la tutela dell’investitore imporre a quest’ultimo di conferire un ordine di investimento senza l’esatta cognizione del prezzo dello strumento finanziario. In realtà, il meccanismo stesso della necessaria sospensiva dell’efficacia della disposizione del cliente pare da ricondurre e risultare giustificabile solo in relazione al caso di condizioni di offerta e di prezzo standardizzate (come avviene di norma nell’ambito del servizio di collocamento), ma oggettivamente inconciliabile con la negoziazione dei titoli in fase di mercato secondario in cui il prezzo è caratterizzato come noto da rapide e continue fluttuazioni.

Non è un caso, del resto, che anche le fattispecie di esclusione del diritto di ripensamento indicate nell’art. 30, comma 8, del T.U.F.sono riferiti a casi di fluttuazione dei prezzi, quali le offerte pubbliche di vendita o di sottoscrizione di azioni con diritto di voto o di altri strumenti finanziari che permettano di acquisire o sottoscrivere tali azioni, quando le azioni o gli strumenti finanziari sono negoziati in mercati regolamentati italiani o di paesi dell’Unione Europea.

Risulta quindi evidente che l’affermata estensione del diritto di recesso (e quindi della necessaria sospensiva di efficacia degli ordini) ai servizi di negoziazione per conto proprio, esecuzione di ordini per conto dei clienti e ricezione e trasmissione di ordini comporta possibili conseguenze pregiudizievoli per gli stessi investitori che si intendeva tutelare.

In termini sistematici, poi, mette conto ricordare come accanto alla indiscutibile esigenza di tutela gli investitori, la disciplina degli intermediari finanziari, ivi inclusa l’offerta fuori sede, debba essere preordinata ad assicurare la stabilità ed il buon funzionamento del sistema finanziario. Il contemperamento di tali esigenze, oggettivamente non semplice, è in ogni caso il metro di giudizio di qualsivoglia interpretazione della normativa di riferimento in materia di intermediazione finanziaria.

Nel perseguire il meritevole intento di assicurare ampia tutela all’investitore “sorpreso” da una attività di promozione e collocamento aggressiva quale l’offerta fuori sede, la Suprema Corte, quale ulteriore conseguenza (forse) non voluta finisce per non riconoscere (ed anzi elidere) le differenze che caratterizzano, da un lato, il servizio di investimento di collocamento e, dall’altro, i servizi di negoziazione per conto proprio, esecuzione di ordini per conto dei clienti, ricezione e trasmissione di ordini. Sebbene da tempo si parli di “despecializzazione” dei servizi di investimento, le differenze allo stato permangono, non fosse altro in termini di disciplina, primaria e secondaria, applicabile ai singoli servizi di investimento.

Rinviando ad altra e più opportuna sede l’esame delle persistenti differenze che connotano i servizio di investimento, è qui utile rilevare che solo nel servizio di collocamento è sempre presente una componente “propositiva” diretta nei confronti dello specifico investitore da parte dell’intermediario che ha ricevuto apposito incarico dall’emittente, incarico da cui sorge l’obbligo per l’intermediario collocatore di sollecitare il pubblico alla sottoscrizione o acquisto di uno specifico strumento finanziario (8).

Nella fisiologia dello svolgimento dei servizi di negoziazione per conto proprio, esecuzione di ordini per conto dei clienti, ricezione e trasmissione di ordini l’intermediario, per definizione, riceve un ordine da un cliente senza aver preventivamente svolto alcuna attività latu senso sollecitatoria.

Se, quindi, nell’ambito dei servizi di negoziazione per conto proprio, esecuzione di ordini per conto dei clienti, ricezione e trasmissione di ordini non è l’intermediario a prendere l’iniziativa, è quindi palese che l’investitore non potrà ritenersi “sorpreso” e, pertanto, anche sotto tale profilo, appare impropria l’applicazione di un diritto di ripensamento stando alla ratio della previsione di cui all’art. 30, comma 6, del T.U.F..

Non vale poi certo la facile controdeduzione che, in concreto, nell’attività di offerta fuori sede i promotori finanziari non si limitano a ricevere un ordine dal cliente ma svolgono, “quasi sempre”, un’attività propositiva. Se ciò in concreto avviene si tratterà di un problema di corretta qualificazione o riqualificazione del servizio (o dei servizi) di investimento in concreto prestato (o prestati), senza che possa peraltro ritenersi operante alcuna presunzione.

Sul punto pare opportuno segnalare che di recente la Consob ha precisato che lo ius poenitendi risulta applicabile, oltre che ai servizi di collocamento e di gestione di portafogli, anche “in tutti quei casi nei quali, sulla base di una consulenza non indipendente in ragione di una remunerazione riconosciuta dall’emittente – offerente all’intermediario, quest’ultimo consigli la sottoscrizione o l’acquisto di un determinato strumento finanziario” (9).

Anche al di fuori dei servizi di collocamento e gestione esiste un rimedio volto a sorreggere il cliente sorpreso da un’attività propositiva svolta fuori sede e presenta l’indubbio vantaggio di non scardinare l’impianto sistematico del testo unico della finanza.

Assumere (o presumere) che nei servizi di negoziazione per conto proprio, esecuzione di ordini per conto dei clienti, ricezione e trasmissione di ordini prestati fuori sede vi sia, di per sé e necessariamente, una attività propositiva da parte dell’intermediario a favore del cliente non pare possibile sulla base dell’attuale normativa di riferimento. Se l’attività propositiva è ritenuta presupposto fattuale fondante dell’applicazione del diritto di ripensamento, risulta evidente che nei servizi di negoziazione per conto proprio, esecuzione di ordini per conto dei clienti, ricezione e trasmissione di ordini anche prestati fuori sede tale presupposto non può darsi per assunto (o presunto) e, quindi, non risulta(sempre) applicabile l’art. 30, comma 6, del T.U.F..

5. Dell’ambito di applicazione del diritto di ripensamento individuato dalla Suprema Corte

Sebbene il risultato che la Suprema Corte intendeva porsi era superare le incertezze ed opposte interpretazioni presenti in giurisprudenza e dottrina, risolvendo altresì una questione di massima di particolare importanza, il risultato concreto della sentenza n. 13905 del 3 giugno 2013 appare davvero non soddisfacente.

Al di là delle perplessità sopra evidenziate circa gli assunti, le argomentazioni e le conclusioni adottate dalla Suprema Corte, resta il fatto che l’ambito di applicazione individuato dalla Cassazione in relazione al diritto di ripensamento concesso al cliente nell’offerta fuori sede risulta oggi ancor più incerto.

Affermata (ma non dimostrata) l’equivocità del dato letterale, la Cassazione ha adottato una pronuncia ancorata alla ratio della norma che, come detto, è strettamente connessa all’esigenza di tutela del cliente “sorpreso” da un’attività promozionale svolta fuori sede dall’intermediario, ciò a prescindere dal servizio di investimento prestato.

Tale attività promozionale se può ritenersi insita nella natura del servizio di collocamento, di per sé non è propria, né può fondatamente essere presunta o assunta come immanente nell’ambito dei servizi di negoziazione per conto proprio, esecuzione di ordini per conto dei clienti, ricezione e trasmissione di ordini quand’anche prestati fuori sede.

Se si esclude la possibilità di ricorrere a presunzioni, il diritto di ripensamento è quindi legato all’esistenza ed alla prova da parte dell’investitore di una attività latu senso sollecitatoria svolta dall’intermediario per il tramite dei propri promotori finanziari.

Se invece si volesse dare spazio a presunzioni legali, necessariamente relative (iuris tantum), circa l’esistenza di un’attività promozionale fuori sede, appare evidente come l’intermediario potrebbe fornire la prova contraria volta a vincere la stessa presunzione, prova che non sarebbe da individuare nella dimostrazione negativa dell’assenza di una attività di sollecitazione, quanto piuttosto ed in positivo nella dimostrazione dell’iniziativa assunta dal cliente fuori sede non preceduta da attività propositiva da parte dello stesso intermediario.

Appare quindi evidente come il perimetro di applicazione dell’art. 30, comma 6, del T.U.F. individuato nella sentenza n. 13905 del 3 giugno 2013 sia di per sé labile e non definibile a priori, in quanto direttamente e strettamente connesso al concreto dispiegarsi della relazione tra intermediario e cliente avvenuta fuori sede.

Il dubbio è se davvero tale incertezza possa giovareagli investitori ed agli intermediari.

1

Cfr. Cass. Civ., Sez. I, 14 febbraio 2012, n. 2065; Cass. Civ., Sez. I, 22 marzo 2012, n. 4564.

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2

Cfr.Comunicazione Consob n. DIN/12030993 del 19 aprile 2012.

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3

L’art. 8, comma 1, lett. c) della legge 2 gennaio 1991, n. 1, prevedeva che “salvo preventiva e specifica rinuncia scritta da parte del cliente, il contratto di cui alla lettera a) (gestione di patrimoni) non acquista efficacia prima del quinto giorno lavorativo successivo a quello della sua sottoscrizione; entro il medesimo termine, il cliente ha facoltà di recedere, senza spese né corrispettivo, facendo pervenire apposita comunicazione scritta alla società”.

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4

Per un’analisi delle due opposte posizioni assunte in dottrina e giurisprudenza riferite all’ambito di applicazione dell’art. 30, comma 6, del d. lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, si richiama l’ordinanza 21 giugno 2012, n. 10376 della Sezione Prima della Cassazione con cui è stata rimessa la “questione” alle Sezioni Unite della Suprema Corte (cfr. I Contratti, n. 2, 2013, pag. 131 e s.s.).

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5

Cfr. art. 30, comma 1, lett. b) del d. lgs. 24 febbraio 1998, n. 58.

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6

Nell’ambito dell’offerta fuori sede di prodotti bancari, similmente, si utilizza l’endiadi “promozione” e “collocamento”. Nel comunicato della Banca d’Italia in tema di offerta bancaria fuori sede (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, n. 11 del 14 gennaio 2006) si rileva come: (a) l’attività di “promozione” di prodotti e servizi bancari consiste nella “pubblicizzazione e consulenza nei confronti di potenziale clientela”; (b) l’attività di “collocamento” di prodotti e servizi bancari consiste invece nella “raccolta delle proposte contrattuali firmate da clienti, in una prima eventuale istruttoria e nel successivo inoltro della proposta stessa alla banca”.

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7

La Suprema Corte, sempre nella sentenza n. 13905 del 3 giugno 2013, ha espressamente escluso che il diritto di ripensamento possa applicarsi al “c.d. contratto quadro, che di per sé non implica l’acquisto di strumenti finanziari ed è perciò sicuramente estranea alla nozione di collocamento sia pur latamente intesa”.

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8

Cfr. Comunicazione Consob nn. 97006042/1997, del 9 luglio 1997.

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9

Cfr. Comunicazione Consob n. DIN/12030993 del 19 aprile 2012.

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