Il Tribunale di Brindisi, con sentenza del 6 luglio 2025 si è soffermato sulla configurabilità come abusiva, per contrarietà a buona fede oggettiva, della condotta della banca che, nonostante la regolarità dei pagamenti del mutuatario, ad eccezione del periodo di emergenza Covid, si sia avvalsa della decadenza dal beneficio del termine.
Sulla decadenza dal beneficio del termine
Rileva preliminarmente il Tribunale che nel caso di specie (ritardi nei pagamenti di qualche mese di alcune rate di un mutuo fondiario, iniziati appena due mesi antecedentemente l’emergenza Covid, e quindi proseguiti in piena emergenza pandemica) non era applicabile il decreto c.d. “cura Italia”, in quanto, per poter ottenere beneficiare della sospensione legale, il mutuo doveva essere finalizzato all’acquisto della “prima casa”, mentre il contratto stipulato dai mutuatari era un “contratto di mutuo fondiario per completamento lavori di costruzione prima casa”.
Il Tribunale ricorda quindi che la disciplina di cui all’art. 1186 C.c. sulla decadenza dal beneficio del termine – eccepita dal mutuatario opponente – non può trovare applicazione al contratto di mutuo fondiario oneroso, disciplinato, in regime di specialità, dall’art. 40, comma 2, del T.U.B.: in base a tale norma, “La banca può invocare come causa di risoluzione del contratto il ritardato pagamento quando lo stesso si sia verificato almeno sette volte, anche non consecutive. A tal fine costituisce ritardato pagamento quello effettuato tra il trentesimo e il centottantesimo giorno dalla scadenza della rata”.
Nel caso di specie, tuttavia, per il Tribunale tale art. 40 TUB non risulta più applicabile, in concreto, nel momento in cui la banca ha di fatto accettato i pagamenti effettuati dalle parti, seppur in ritardo, nel periodo appena antecedente l’emergenza Covid ed in quello successivo.
Pertanto, la condotta della banca che, nonostante la regolarità dei pagamenti dell’opponente, con l’esclusione del breve intervallo temporale, corrispondente all’emergenza Covid, abbia deciso di avvalersi di uno strumento – particolarmente, invasivo, nelle sue conseguenze giuridiche – della decadenza dal beneficio del termine, deve considerarsi abusiva per contrarietà a buona fede oggettiva.
Ad abundantiam, pur non ritenendo applicabile l’art. 1186 C.c. (per cui “Quantunque il termine sia stabilito a favore del debitore, il creditore può esigere immediatamente la prestazione se il debitore è divenuto insolvente o ha diminuito, per fatto proprio, le garanzie che aveva date o non ha dato le garanzie che aveva promesse”), il Tribunale è entrato altresì nel merito della questione circa l’asserita diminuzione delle garanzie originariamente offerte dai mutuatari e costituite da ipoteche su beni immobili donati.
Nel caso de quo, tale donazione era stata risolta, ed i beni oggetto di ipoteca alienati a terzi: il Tribunale ricorda quindi che, in virtù del principio dello ius sequelae, l’ipoteca “segue” l’immobile, consentendo al creditore di far valere la propria garanzia anche nei confronti dei terzi acquirenti del bene (ex artt. 2858 e ss. C.c.); ciò, mediante l’esercizio dello ius distrahendi, ossia del diritto di espropriare il bene sul quale è stata costituita, assicurando, in tal modo, adeguata tutela.
E, nel caso di specie, la banca aveva peraltro esercitato il proprio diritto di sequela intraprendendo l’esecuzione forzata nei confronti del terzo acquirente: pertanto non è ravvisabile, da parte dei debitori/mutuatari, una sostanziale diminuzione, per fatto proprio, delle garanzie offerte.
Pertanto, il presupposto di decadenza ex art. 1186 C.c. inerente alla diminuzione delle garanzie – conclude il Tribunale – è da escludersi.
Infine, circa l’altra condizione di decadenza ex art. 1186 C.c., ovvero l’insolvenza, per il Tribunale deve ritenersi che la “difficoltà momentanea” nell’adempiere non comporti insolvenza, ogniqualvolta il debitore sia in grado di adempiere, in un lasso di tempo ragionevole, al pagamento pattuito.
Invece, stato di insolvenza vero e proprio si verifica quando il debitore non abbia nel proprio patrimonio i mezzi per effettuare i pagamenti, né può procurarseli in futuro: pertanto, una difficoltà “momentanea” non comporta insolvenza a differenza di una difficoltà permanente e che si protragga nel tempo.
Sul rapporto fra abuso del diritto e buona fede
Buona fede e correttezza hanno, secondo la prevalente e preferibile ricostruzione teorica, un fondamento costituzionale, in quanto specificazione degli “inderogabili doveri di solidarietà sociale” ex art. 2 Cost., che impongono a ciascuna delle parti di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, a prescindere tanto da specifici obblighi contrattuali, quanto dal generale dovere extracontrattuale del “neminem laedere”; trova, tuttavia, un suo limite precipuo nell’impossibilità che il comportamento preteso dalle parti contrattuali (o, in genere, dai consociati, ove non legati da un rapporto negoziale) possa comportare un apprezzabile sacrificio a carico delle stesse (o degli stessi).
La buona fede oggettiva ha assunto valenza di fonte di obblighi ulteriori rispetto all’obbligo di prestazione riveniente dal contratto, che si pongono in posizione ancillare rispetto a quest’ultimo, assicurando la realizzazione dell’assetto di interessi prospettato dalle parti.
Il principio ha assunto una valenza generale in virtù del combinato disposto degli art. 1375 e 1175 C.c. che, dettati in materia contrattuale, si considerano espressione di un principio generale volto a conformare la condotta dei consociati anche al di fuori della sede contrattuale – e, quindi, in ambito extracontrattuale – tanto da considerare lo stesso quale una declinazione del più generale dovere del neminem laedere.
Deve ritenersi che l’abuso del diritto rappresenti uno dei criteri rivelatori della violazione del principio di buona fede oggettiva cui, talvolta, deve riconoscersi – in alternativa all’idoneità ad a generare un obbligo a contenuto risarcitorio – una funzione disapplicativa della regola negoziale o, comunque, di paralisi della singola pretesa azionata da una delle parti del rapporto.
Quanto al fondamento normativo del principio dell’abuso del diritto, come noto, nel nostro Codice non esiste una norma che sanzioni, in via generale, l’abuso del diritto; ciò, per quanto si ancori lo stesso, in materia proprietaria e di rapporti di vicinato, al divieto di atti emulativi ex art. 833 c.c., quale ipotesi paradigmatica di deviazione dell’esercizio di un diritto dal suo scopo tipico, ovvero da quello cristallizzato dalla norma attributiva dello stesso.
Il principio de quo ha conosciuto una positivizzazione, a livello sovranazionale ed, in particolare, comunitario, nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, all’art. 54 (“Divieto dell’abuso del diritto”) che, dopo l’entrata in vigore (nel 2009) del Trattato di Lisbona, ha assunto il medesimo valore giuridico dei trattati comunitari e delle norme comunitarie direttamente applicabili, perché sufficientemente determinate nel loro contenuto precettivo, godendo della c.d. primazia sulle norme interne.
Elementi costitutivi dell’abuso del diritto sono i seguenti:
- la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto
- la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate
- la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico
- la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrificio cui è soggetta la controparte
- il mero dolo generico della condotta, prescindendo la verifica giudiziale del carattere abusivo o meno della condotta dal dolo e dalla specifica intenzione di nuocere alla propria controparte contrattuale o, in genere, ad un terzo: elementi questi tipici degli atti emulativi, ma non delle fattispecie di abuso di potere contrattuale o di dipendenza economica.
Sulla configurabilità dell’abuso del diritto nella condotta della banca
La tutela riconosciuta al contraente che ha subito l’abuso del diritto è, infatti, l’exceptio doli generalis – quale rimedio di natura oggettiva, essendo sufficiente la prova della mera conoscenza o della conoscibilità della contrarietà alla correttezza del comportamento posto in essere – che attribuisce al titolare la possibilità di opporsi ad un’altrui pretesa o eccezione, astrattamente fondata ma che, in realtà, costituisce espressione di uno scorretto esercizio di un diritto, volto al soddisfacimento di interessi non meritevoli di tutela per l’ordinamento giuridico.
Tale rimedio è fruibile in caso di condotte sleali anche se non fraudolente e rappresenta, pertanto, un rimedio di natura oggettiva, a tal fine essendo sufficiente la prova della mera conoscenza o della conoscibilità della contrarietà alla correttezza del comportamento posto in essere.
In conclusione, per il Tribunale, declinando tali categorie con riferimento al caso di specie, e considerando come abusiva la richiesta di rientro per l’intera debitoria, potrebbe ritenersi prefigurabile il ricorso all’exceptio doli generalis, con conseguente paralisi degli effetti (di preordinazione all’esecuzione) del precetto intimato dalla banca, in conseguenza alla decadenza dal beneficio del termine.
In tal senso deporrebbe, secondo il Tribunale, anche l’attuale e già menzionata tendenza interpretativa a generalizzare l’ambito operativo della buona fede (oggettiva), evocandola al di fuori del suo alveo fisiologico, che è quello dei rapporti di natura negoziale, facendone, al contempo, un criterio integratore del più generale dovere del neminem laedere.
Ad essa viene riconosciuta, infatti, anche la vocazione a porsi quale parametro cui commisurare la liceità del comportamento di un soggetto nei confronti di un altro, al quale il primo non sia legato da un precedente vincolo negoziale.