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Approfondimenti

Concordato in continuità aziendale e transazione fiscale: l’ “osmosi tra diritto ed economia”

3 Maggio 2022

Luca Jeantet, Partner, Co-responsabile dipartimento insolvenze e ristrutturazioni, Gianni & Origoni

Paola Vallino, Managing Associate, Gianni & Origoni

Davide Traversa, Avvocato

Di cosa si parla in questo articolo

È configurabile il concordato preventivo in continuità aziendale ex art. 186bis l. fall., nella forma c.d. “debole”, ogni qual volta sia stipulato un contratto d’affitto, anche se in data antecedente al deposito della domanda prenotativa ai sensi dell’art. 161, comma 6, l. fall.

In caso di transazione fiscale ai sensi dell’art. 182ter l. fall., il debitore in concordato preventivo deve create due distinte classi, in luogo di un’unica, per i diversi creditori erariale e contributivo (se degradati al chirografo ex art. 160, comma 2, l. fall.), trasferendosi il potere di adesione, e di collegato sindacato di convenienza, in via totalmente surrogatoria al Tribunale, con conseguente possibilità di trasformare un voto negativo od un’assenza di voto di questi creditori quando la loro mancata adesione sia determinante per il conseguimento della maggioranza e contrasti con l’interesse generale dei creditori.

Il caso – Tribunale di Bologna, Sez. IV civ.,  25 gennaio 2022 (decreto)

La fattispecie in esame trae origine da una proposta concordataria, qualificata dalla società debitrice in continuità indiretta ai sensi dell’art. 186bis l. fall. e fondata su di un contratto di affitto d’azienda perfezionato anteriormente al deposito della domanda introduttiva ex art. 161, comma 6, l. fall., l’incasso dei futuri canoni d’affitto, la realizzazione dei crediti commerciali e il conseguimento di finanza c.d. “esterna” messa a disposizione da parte del socio di riferimento. Il Tribunale di Bologna ha (i) configurato il concordato preventivo in continuità aziendale ex art. 186bis l. fall., nella forma c.d. debole, negando dunque la ricorrenza di una fattispecie liquidatoria ogni qual volta vi sia un contratto d’affitto d’azienda, anche se stipulato prima della domanda prenotativa ai sensi dell’art. 161, comma 6, l. fall., (ii) ritenuto che, in caso di transazione fiscale ai sensi dell’art. 182ter l. fall., vadano create due distinte classi, in luogo di un’unica, per i diversi creditori erariale e contributivo se degradati al chirografo ex art. 160, comma 2, l. fall., e (iii) statuito che il potere di adesione, e di collegato sindacato di convenienza, spetti in via totalmente surrogatoria al Tribunale cui compete il potere di trasformare un voto negativo od un’assenza di voto di questi creditori quando la loro mancata adesione sia determinante per il conseguimento della maggioranza e contrasti con l’interesse generale dei creditori.

Le questioni giuridiche e le soluzioni

Il decreto del Tribunale di Bologna si segnala per affrontare e risolvere, in modo molto perspicuo, alcune fondamentali tematiche concordatarie, omologando la proposta di concordato presentata da una società esercente attività di produzione e vendita a rivenditori di capispalla con materiali pregiati, attraverso tre livelli di indagine cui corrisponde la statuizione di altrettanti principi di diritto.

Il Collegio giudicante affronta e risolve l’annosa, dibattuta ed assai vivace questione della qualificazione giuridica del concordato preventivo (liquidatorio oppure in continuità) in caso di stipulazione di un contratto d’affitto d’azienda prima del deposito della domanda prenotativa ai sensi dell’art. 161, comma 6, l. fall., ribadendo con forte convinzione il principio del “favor concordati” espresso dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 29742 del 19 novembre 2018 ed optando per l’applicabilità della disciplina dell’art.186bis l. fall. in caso di prosecuzione oggettiva dell’attività aziendale ed a prescindere dalla circostanza che il contratto d’affitto d’azienda sia accompagnato da una proposta irrevocabile d’acquisto da porre a base di un’asta competitiva ai sensi dell’art. 163bis l. fall.

I giudici bolognesi, inserendosi nella discussione dottrinale e giurisprudenziale formatasi sul punto, si mostrano consapevoli dell’ordinanza interlocutoria del Supremo Collegio n. 15690 del 4 giugno 2021 e, precedendo di poco tempo la recentissima pronuncia del medesimo Supremo Collegio n. 6772 del 1° marzo 2022, fanno proprio il principio per cui “il concordato con continuità aziendale, disciplinato dall’art. 186-bis l. fall., è configurabile anche qualora l’azienda sia già stata affittata o si pianifichi debba esserlo, palesandosi irrilevante che, al momento della domanda di concordato, come pure all’atto della successiva ammissione, l’azienda sia esercitata da un terzo anziché dal debitore, posto che il contratto d’affitto – sia ove contempli l’obbligo del detentore di procedere al successivo acquisto dell’azienda (cd. affitto ponte), sia laddove non lo preveda (cd. affitto puro) – assurge a strumento funzionale alla cessione o al conferimento di un compendio aziendale suscettibile di conservare integri i propri valori intrinseci anche immateriali (cd. “intangibles”), primo tra tutti l’avviamento, mostrandosi in tal modo idoneo ad evitare il rischio di irreversibile dispersione che l’arresto anche temporaneo dell’attività comporterebbe”.

Muovendo da questo principio, è utile ripercorrere i passaggi del dibattito dottrinale e giurisprudenziale.

Nell’anno 2012, il legislatore ha introdotto la figura del concordato preventivo in continuità aziendale senza tuttavia menzionare, all’art. 186-bis l. fall., l’affitto di azienda, con ciò ponendo il dubbio se, al momento del deposito della domanda introduttiva del procedimento, il debitore debba essere l’effettivo gestore dell’azienda “in esercizio” di cui il piano “prevede” la prosecuzione da parte dello stesso debitore, ovvero la cessione o il conferimento a terzi.

Guardando al complesso normativo, è chiaro che le attestazioni di cui alle lett. a) e b) dell’art. 186bis l. fall., così come la continuità contrattuale di cui al comma 3, i contratti con la pubblica amministrazione di cui ai commi 3, 4 e 5 e la stessa ipotesi di revoca dell’ammissione al concordato di cui all’ultimo comma dell’art. 186-bis l. fall., poggino tutti sul presupposto che l’azienda sia gestita dal debitore, quand’anche in vista di una sua futura cessione o conferimento. Si tratta infatti di disposizioni confacenti al debitore, ma non (o quantomeno non altrettanto pienamente) al terzo affittuario, che, in quanto estraneo alla procedura, non può subire verifiche, attestazioni, autorizzazioni o sanzioni.

Ciò nonostante, si sono registrati, in dottrina e tra i giudici di merito, tre diversi orientamenti, in base ai quali l’affitto di azienda non rientrerebbe nel perimetro del concordato in continuità (ex multis, Trib. Como, decr. 29 aprile 2016) oppure vi rientrerebbe anche in ipotesi di affitto stipulato prima dell’ingresso in procedura (ex multis, Trib. Alessandria, decr. 18 gennaio 2016) oppure vi rientrerebbe indiscriminatamente dal momento in cui è perfezionato l’affitto (ex multis, Cass. Civ., sent. n. 9742 del 2018), considerando che il legislatore, tra il 2014 ed il 2019, non ha mai aggiunto alle figure del cessionario o del conferitario di azienda quella dell’affittuario e non ha mai precisato che la norma includesse anche quest’ultimo.

Se ciò è vero, è anche vero che il legislatore ha esplicitamente contemplato la figura dell’affitto di azienda quando, incidendo sull’autonomia negoziale delle parti per arginare il fenomeno dei concordati c.d. “chiusi”, ha introdotto nell’art. 163-bis l. fall. – per tutte le tipologie di concordato – le cd. procedure competitive, rendendole obbligatorie in caso di offerte o contratti con un soggetto individuato, aventi ad oggetto il trasferimento, anche prima dell’omologa, dell’azienda, di suoi rami o di singoli beni

A questa previsione si è aggiunta in progresso di tempo, nell’anno 2015 ed all’art. 160, u.c., l. fall., la previsione per cui è requisito di ammissione del concordato preventivo il pagamento di almeno il 20% dell’ammontare dei crediti chirografari solo se si sia in presenza di una fattispecie liquidatoria e non anche di una fattispecie in continuità aziendale ai sensi dell’art. 186-bis l.fall., divenendo così di grandissima attualità la questione se rientrasse o meno in quest’ultima ipotesi l’affitto d’azienda anteriore in considerazione delle ovvie ricadute sulla soglia minima di soddisfazione dei creditori concordatari.

Un segnale di novità è sopravvenuto nell’anno 2017, giacché con la legge delega n. 155 per la riforma organica della materia concorsuale è stata prevista, all’art. 6, comma 1, lett. i), n. 3, una integrazione della disciplina del concordato con continuità aziendale, prevedendosi, per la prima volto in modo esplicito, “che tale disciplina si applichi anche nei casi in cui l’azienda sia oggetto di contratto di affitto, anche se stipulato anteriormente alla domanda di concordato”.

Quale conseguenza, il Codice della Crisi d’Impresa ha incluso nella continuità c.d. indiretta anche l’affitto di azienda, ma, al tempo stesso, ha introdotto nel concordato in continuità vincoli occupazionali sconosciuti al sistema della vigente legge fallimentare, secondo le innovative (ed assai criticate) disposizioni contenute nell’art. 84, comma 2.

Questa nuova fattispecie del concordato in continuità aziendale (i cui minuziosi vincoli potrebbero peraltro cadere nella legislazione futura) presenta evidenti tratti di diversità, per ratio e presupposti, da quella vigente, tanto che sarebbe quantomeno opinabile ravvisarvi quella “continuità” di regime su cui si fonda, secondo il recente insegnamento delle Sezioni Unite, la possibilità di rinvenire nel Codice della Crisi d’Impresa un utile criterio interpretativo degli istituti concorsuali vigenti (Cass. Sez. U, 12476/2020, 8504/2021, 12154/2021).

Un ulteriore, parametro di raffronto “de iure condendo” potrà derivare dalla dir. 1023/19, che nell’art. 2, n. 1), contempla la mera facoltà per gli Stati membri di includere nella nozione di ristrutturazione la continuità indiretta, altrimenti esclusa («e, se previsto dal diritto nazionale, la vendita dell’impresa in regime di continuità aziendale»), senza peraltro contenere alcun riferimento alla fattispecie dell’affitto di azienda, di per sé non del tutto compatibile con il concetto di viability sotteso ai quadri di ristrutturazione preventiva (cfr. art. 4 par. 1 e 3).

Infine, il recente d.l. 118/21 ha ulteriormente scompaginato il quadro di riferimento, qualificando come concordato preventivo liquidatorio (sia pure “semplificato”, senza voto e senza soglia del 20%) quello il cui piano preveda l’offerta di un soggetto individuato avente ad oggetto il “trasferimento”, anche prima dell’omologazione, dell’azienda, di suoi rami o di specifici beni (secondo la formulazione delle procedure competitive ex art. 163-bis l. fall.). Ne è derivato che, in sostanza, quella che tradizionalmente veniva intesa come continuità indiretta è stata attratta nel perimetro del concordato liquidatorio.

Così sommariamente ricostruito il contesto normativo, è innegabile che una rigorosa interpretazione della legge fallimentare vigente sarebbe compatibile con l’esclusione dell’affitto di azienda dal perimetro del concordato in continuità aziendale, quanto meno se stipulato (come nel caso di specie) prima della domanda di concordato preventivo, e soprattutto se a stipularlo sia (sempre come nel caso di specie) una società già posta in liquidazione.

Nel contesto magmatico di cui si è detto, deve ammettersi che l’indirizzo indicato dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 29742 del 18 novembre 2018 – già ampiamente sostenuto da gran parte della dottrina e condiviso da parte dei giudici di merito – ha svolto la preziosa funzione di eliminare insidiose difformità applicative ed orientare la prassi in una direzione sicuramente rispondente al criterio del favor concordati.

Ciò non toglie che tutte le divergenze, delle quali sopra si è dato conto, debbano essere invece attentamente considerate nel valutare altri aspetti a tutela dei creditori, come quello fondamentale dell’abuso dello strumento concordatario elaborato dal debitore; e se ad alcuni possibili abusi ha già posto rimedio il legislatore del 2015 con le procedure competitive, particolare attenzione va prestata all’eventuale uso strumentale del concordato in continuità aziendale per mascherare un concordato liquidatorio elusivo della soglia satisfattoria del 20%.

Il secondo argomento trattato dal Tribunale di Bologna consiste nell’affermazione per cui, in caso di transazione fiscale ai sensi dell’art. 182ter l. fall., vadano create due distinte classi, in luogo di un’unica, per i diversi creditori erariale e contributivo (se degradati al chirografo ex art. 160, comma 2, l. fall.), evidenziando il dato letterale della norma che indica in “apposita” e non “unica” classe.

Il tema della costituzione delle classi, requisito di ammissibilità della proposta, si pone in tutta la sua concretezza nell’ambito della transazione disciplinata dall’art.182ter l. fall.

L’interpretazione della norma qui fornita, oltre che poggiare sul dato testuale, appare coerente con il principio di consentire al creditore contrario di contestare la convenienza della proposta concordataria in maniera autonoma e diretta; il legislatore, si ritiene, abbia previsto la costituzione di singole e distinte classi formate dai creditori privilegiati previdenziali e tributari degradati al chirografo per incapienza e ciò allo scopo di consentire ad ogni ente di poter contestare autonomamente la convenienza della proposta concordataria ed evitare di disperdere il proprio voto all’interno di una classe che riunisce creditori con posizione giuridica ed interessi economici non omogenei.

La conclusione è supportata anche dell’art. 88, comma 1, del Codice della Crisi di Impresa che, oltre ad avere abrogato la previsione del classamento obbligatorio per i crediti privilegiati degradati, ha previsto che gli stessi non debbano godere di un trattamento differenziato rispetto a quello riservato agli altri crediti chirografari oppure, nel caso di suddivisione in classi, dei crediti rispetto ai quali è previsto un trattamento più favorevole.

Il Collegio giudicante si viene così ad inserire nel solco già tracciato dal Tribunale di Napoli (decreto 9 aprile 2021, n. 537), secondo cui la necessità di costituire una classe per i crediti previdenziali distinta da quella dei crediti fiscali deriva dalla ratio del comma 1 dell’art. 182-ter, che trae origine dalla disposizione per cui (art. 180, comma 4, secondo periodo), se un creditore appartenente a una classe dissenziente contesta la convenienza della proposta di concordato, il tribunale può omologare il concordato qualora ritenga che il credito possa risultare soddisfatto dal concordato in misura non inferiore rispetto alle alternative concretamente praticabili. Pertanto, il legislatore ha imposto la costituzione di singole e distinte classi aventi a oggetto i crediti privilegiati previdenziali e i crediti fiscali degradati al chirografo per incapienza dell’attivo, affinché ciascuno degli enti che ne è titolare possa autonomamente contestare la convenienza del concordato senza dover a tal fine contare sul sostegno di altri creditori della medesima classe, in assenza del quale potrebbe essergli impedito di esercitare il diritto previsto dalla citata disposizione.

La previsione contenuta nell’ultimo periodo del comma 1 dell’art. 182-ter l. fall. intende, infatti, rafforzare la tutela dei soggetti pubblici e, a tal fine, impone la costituzione di un’apposita classe per ciascuno di loro, allo scopo di evitare la neutralizzazione di ciascuno dei loro voti dovuta alla eventuale presenza di più di un creditore nella stessa classe (è evidente che, se il credito del fisco, ad esempio pari a 100, e quello dell’Inps, ad esempio pari a 40, potessero essere collocati nella medesima classe, il voto favorevole del primo, nonostante quello negativo del secondo, renderebbe la classe non dissenziente e quindi impedirebbe a quest’ultimo di contestare la convenienza del concordato).

In merito al tema dell’obbligatorietà (o meno) della suddivisione in classi, si evidenzia che, a discapito di un tenore letterario abbastanza chiaro (almeno quello sul concordato preventivo), la giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 3274/2011) abbia sostenuto che il legislatore non ha previsto alcun obbligo in tal senso.

Ne costituiscono prova, a parere dei giudici, primo, tutte le norme che si riferiscono alle classi, in particolare nell’ambito del concordato fallimentare (artt. 124, 125 e 128 L. F.), che ne affermano l’ipoteticità, e, secondo, l’inconsistenza delle argomentazioni che ne affermano l’obbligatorietà in relazione a presunti conflitti di interessi tra creditori o al fatto che questi ultimi potrebbero essere portatori di interessi non omogenei. In realtà il fine della procedura è proprio quello di sacrificare gli interessi individuali laddove si prospetta una soluzione anticipata della crisi in alternativa alla liquidazione fallimentare.

Questo assunto non è condiviso dall’amministrazione (Agenzia delle entrate, circolare n. 16/E/2018, § 5.1.4, nota 45), la quale, invece, si è espressa nel senso che, poiché il classamento è facoltativo, la previsione contenuta nell’art. 182-ter L. F. è subordinata alla disciplina generale e, pertanto, non è ravvisabile un obbligo di classamento. Piuttosto, il sistema è da interpretare nel senso che se il debitore opta per la suddivisione, e solo in questo caso, allora il credito tributario degradato deve essere inserito in un’apposita classe (per la parte residua, la quale dovrà essere soddisfatta almeno nella misura del 20%, sempreché non si tratti di un concordato in continuità).

Orbene, dal momento che, a seguito della novella in vigore dal 2017, la ‘transazione’ è obbligatoria, sembrerebbe necessario concludere, primo, che il trattamento dei crediti tributari non può risultare differente da quello degli altri crediti (e che pertanto deve essere riconosciuto all’istituto un effetto novativo e di consolidamento del debito) e, secondo, che la norma contenuta nell’art. 160 L. F. – che prescrive la non alterazione delle cause legittime di prelazione – deve essere interpretata in senso restrittivo, ossia che l’obbligo in questione si risolve nel divieto di prevedere il pagamento dei creditori posti ad un livello inferiore se prima non siano soddisfatti quelli di livello superiore.

Per quanto attiene ai crediti chirografari, invece, il trattamento imposto parrebbe migliore perché, mentre nell’art. 160 L. F. è richiesto che la formazione delle rispettive classi debba avvenire nel rispetto della loro posizione giuridica e del loro interesse economico, nell’art. 182-ter L. F. è stabilito che essi non siano differenziati rispetto agli altri creditori che ricevono il trattamento più favorevole. Se però non è stata effettuata la suddivisione in classi il credito chirografario deve essere trattato come tutti gli altri della stessa natura.

Il terzo ed ultimo argomento trattato dal Tribunale di Bologna interessa il potere di adesione, e di collegato sindacato di convenienza, che passa in via totalmente surrogatoria al Tribunale con possibilità di trasformare un voto negativo od un’assenza di voto di questi creditori quando la loro mancata adesione contrasti con l’interesse generale dei creditori.

A fronte del dibattito interpretativo sorto a seguito della modifica apportata all’art. 180 l. fall. dal D.L. n. 125/2020 convertito dalla L. n. 159/2020 (con l’introduzione della previsione secondo cui “il tribunale omologa il concordato preventivo anche in mancanza di voto da parte dell’amministrazione finanziaria o degli enti gestori di forme di previdenza o assistenza obbligatorie quando l’adesione è determinante ai fini del raggiungimento delle maggioranze di cui all’articolo 177 e quando, anche sulla base delle risultanze della relazione del professionista di cui all’articolo 161, terzo comma, la proposta di soddisfacimento della predetta amministrazione o degli enti gestori di forme di previdenza o assistenza obbligatorie è conveniente rispetto all’alternativa liquidatoria”) ed a decorrere dal 25 agosto 2021, le parole “anche in mancanza di voto” sono state sostituite dalle parole “anche in mancanza di adesione”, con ciò consentendo un’omologazione c.d. forzata non solo in caso di mancanza di voto del creditore erariale o previdenziale, ma anche in caso di suo voto negativo, che potrà quindi essere sindacato direttamente dal giudice fallimentare e dallo stesso superato se non congruamente motivato.

La precisazione contenuta nel Decreto Legge Pagni offre lo spunto per un approfondimento su quali siano gli elementi che il debitore e, insieme a lui, l’attestatore devono portare all’attenzione del giudice fallimentare in sede omologa affinché questi possa procedere con il c.d. cram down fiscale e previdenziale

Il profilo interessa, all’evidenza, il tema della convenienza di una proposta di concordato e conduce alla verifica delle condizioni alle quali, attraverso un giudizio comparativo, sia dimostrabile che la stessa consenta la migliore soddisfazione dei creditori rispetto alle alternative concretamente praticabili.

I Principi di attestazione (al § 7.3 – nella versione aggiornata 2020) precisano che “l’Attestatore, relativamente al termine di confronto rispetto al quale formulare il richiesto giudizio di comparazione quantitativa, deve considerare le sole ipotesi alternative di discontinuità concretamente praticabili. Quindi: la liquidazione del patrimonio del debitore, ove concretamente praticabile; il fallimento, in caso di impossibilità di procedere con una liquidazione in bonis, eventualmente mediante cessione dell’azienda o di rami d’azienda a seguito della prosecuzione dell’attività mediante esercizio provvisorio”.

Invero, dovendo(si) trattare di valutazione rispetto ad ipotesi di discontinuità concretamente praticabili, lo scenario alternativo soggetto a comparazione è, nella pratica, quello liquidatorio fallimentare.

Sull’oggetto del giudizio speciale di attestazione della miglior soddisfazione dei creditori, la giurisprudenza ha precisato che “il criterio del miglior soddisfacimento dei creditori deve essere valutato attraverso un confronto tra la proposta concordataria formulata dall’imprenditore e quella alternativa della liquidazione fallimentare, non potendo il tribunale prendere in considerazione un piano concordatario inizialmente proposto dall’imprenditore ma successivamente modificato; la scelta del piano resta, infatti, di esclusivo dominio dell’imprenditore, sicché, in assenza di una sua volontà, non potendosi coartare una diversa proposta liquidatoria, non è consentito al tribunale un confronto tra realtà effettiva e ‘realtà virtuale’” (Trib. Rovigo, 27.7.2018 in www.ilcaso.it . Nel senso di considerare (solo) le alternative concretamente praticabile è – tra gli altri – anche Trib. Firenze, 2.11.2016, ivi, secondo cui “nel concordato preventivo con continuità aziendale di cui all’art. 186-bis legge fall., la migliore soddisfazione dei creditori non deve essere intesa in senso assoluto come migliore soddisfazione astrattamente possibile, con conseguente devoluzione ai creditori di ogni utilità e profitto conseguiti dall’imprenditore in continuità, bensì come trattamento più favorevole attraverso un giudizio di comparazione tra il risultato economico prospettato dalla proposta in continuità e quello ricavabile da uno scenario alternativo caratterizzato dalla discontinuità e, quindi, dalla liquidazione dell’impresa)”.

Nel senso sopra rappresentato si è espressa anche l’Agenzia delle Entrate – in ordine alle condizioni “giuridiche” per la falcidia dei crediti fiscali in applicazione della procedura ex art. 182 ter l. fall. – secondo cui “(…) l’attestatore si dovrà fare carico non solo del giudizio di veridicità dei dati aziendali e di sostenibilità prospettica del piano, ma anche del confronto tra i prevedibili esiti delle ipotesi alternative del concordato e della liquidazione fallimentare e tra i relativi gradi di soddisfacimento dei suddetti crediti. (…) La valutazione comparativa con l’ipotesi della totale liquidazione dei beni del debitore può̀ essere effettuata dal medesimo professionista che redige la più̀ generale relazione giurata di cui all’articolo 160 della L.F. ovvero da altro professionista comunque in possesso dei requisiti di cui all’articolo 67, terzo comma, lettera d), della L.F.” (Circ. Agenzia delle Entrate 23.7.2018 n. 16/E, par. 5.1.2).

I Principi di attestazione, al paragrafo 7.2, precisano che nel caso di concordato che preveda la soddisfazione non integrale per i creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca ai sensi dell’art. 160, comma 2 l. fall., non compete all’attestatore la pronuncia sulla convenienza della proposta del debitore per i creditori non soddisfatti integralmente.

Tale giudizio, infatti, deve emergere dalla perizia di stima ex art. 160, comma 2, l. fall. redatta dall’esperto nominato all’uopo dal debitore.

In questa fattispecie, l’attestatore è tenuto a valutare esclusivamente l’idoneità e completezza della perizia, allegata dal debitore al piano, dovendo nella propria relazione riportare la sintesi delle valutazioni e delle risultanze dello stimatore, anche in merito al presumibile ammontare delle spese di procedura, nonché della quota parte delle spese generali imputabili in diminuzione del valore di realizzo del bene o del diritto oggetto di garanzia.

L’art 160 l. fall., in tal senso, fissa due punti di riferimento essenziali per effettuare la valutazione, allorché afferma che la valutazione vada commisurata “sul ricavato in caso di liquidazione” e che bisogna avere riguardo “al valore di mercato attribuibile ai beni o diritti”. Sono, dunque, i due concetti di “liquidazione” e “valore di mercato” che insieme devono costituire la linea guida da seguire nell’attività estimatoria, richiedendo l’individuazione di una sorta di presumibile valore di realizzo in sede di vendita coattiva dei beni o dei diritti.

Altro tema di assoluto rilievo per raggiungere conclusioni concretamente considerabili, è quello della individuazione del momento di riferimento della valutazione operata dall’attestatore.

A tal proposito è corretto ritenere che il valore di mercato debba essere proiettato, se possibile, alla data di effettivo presunto realizzo dei beni, secondo le modalità ed i tempi prospettati nel piano e non anche ad un intervallo temporale prossimo alla formulazione della proposta concordataria. Il momento della valutazione non deve, in realtà, mai essere confuso con quello dell’individuazione dei beni, con l’ovvia conseguenza che mentre il riferimento alla data di presentazione del ricorso assolve esclusivamente a quest’ultima esigenza, il valore degli stessi non potrà che essere accertato in chiave prospettica al verificarsi dell’effettivo realizzo, coincidente con la verosimile data di loro vendita oppure di esercizio del diritto indicata nel piano. Sennonché, è inevitabile che le difficoltà connesse tanto ad una stima futura dei valori mobiliari ed immobiliari, quanto al trascorrere del tempo, possano finire per rendere la valutazione dell’attestatore non più attuale nel momento dell’effettiva traduzione in moneta corrente del bene o del diritto su cui insiste la garanzia.

Oltre ai valori liquidativi così determinati, l’attestatore dovrà considerare anche i risultati delle possibili azioni di reintegro, di revocatoria fallimentare e di risarcimento del danno teoricamente esperibili in quella sede e non invece esperibili nell’ipotesi concordataria proposta ai creditori.

Quanto alle azioni revocatorie e di reintegro, sarà necessaria una indagine sulle operazioni del semestre antecedente al deposito ricorso in bianco per ciò che attiene alle ipotesi considerate all’art. 67, comma 2, l. fall. e, invece, dell’anno antecedente per ciò che attiene alle ipotesi considerate all’articolo 67, comma 1, l. fall., tenuto conto delle sostanziali esimenti di cui al comma 3 del medesimo articolo.

In aggiunta, con riferimento alla fattispecie degli “atti anormali” di cui all’art. 67, comma 1, l. fall. la giurisprudenza ha “tipicizzato” alcune fattispecie che rientrano in questa categoria, ricomprendendo l’ipotesi di datio in solutum di beni in luogo del danaro o restituzione di merci impagate (Cass., sez. I, 14 febbraio 2011, n. 3581; Cass., sez. I, 18 febbraio 2009, n. 3905). La fattispecie della datio in solutum è quella relativa al caso in cui il creditore accetti una prestazione diversa da quella pattuita, in particolare quando venga trasferito un bene in luogo del danaro.

Il valore così calcolato, tuttavia, non può che essere considerato come un mero supporto informativo ai creditori e agli organi della procedura per consentire, in particolare ai creditori, di formare il proprio giudizio di voto tenendo conto di tutti gli aspetti rilevanti sulla materia e, data la complessità della materia, non può essere considerato come un risultato ottenibile con certezza.

Per la disamina dei risultati astrattamente raggiungibili dai creditori nello scenario liquidatorio alternativo all’operazione di concordato, l’attestatore deve procedere anche a valutare l’esistenza di atti potenzialmente censurabili posti in essere dagli organi societari di gravità tale da consentire la possibile promozione, da parte della ipotecata procedura fallimentare, di ipotetiche azioni risarcitorie nei loro confronti aumentando così l’attivo a disposizione dei creditori sociali.

Esattamente come per i diritti revocatori, i risultati di questo esame devono essere considerati come mero esercizio svolto a favore dell’ampliamento del fronte informativo per i creditori, atteso che dall’eventuale esercizio di queste potenziali azioni, come anche previsto nei Principi, potrebbe non derivare un vantaggio differenziale a favore dei creditori rilevante ai fini del loro “maggior soddisfacimento”, essendo in astratto esercitabili da parte loro le azioni di risarcimento anche in caso di omologa del concordato.

Nella conduzione dell’analisi in parola, l’attestatore dovrà considerare alcuni necessari principi, tra cui quelli in base ai quali: ogni atto dell’impresa è, in astratto, idoneo a incidere – potenzialmente pregiudicandolo sino a renderlo insufficiente – sul patrimonio di una società ed è dunque valutabile ai fini dell’affermazione della responsabilità di chi lo abbia posto in essere, fermo restando il principio della insindacabilità nel merito, ad opera del giudice, delle scelte di gestione (c.d. business judgement rule cfr., ex multis, Cass. n. 1783/2015, Cass., n. 18231/09, Cass., n. 3409/13 e Cass., n. 3652/97); la responsabilità dell’amministratore (e/o dei soggetti ai quali la disciplina è estesa) potrà essere ravvisata solo ove il giudice, valutandone la condotta con riferimento al momento in cui la stessa è stata posta in essere (dunque ex ante), la giudichi non conforme a diligenza (Cass., n. 17441/16 e, nel merito, Trib. Roma, 25.9.2018 e Trib. Genova, 3.10.2017); a seguito dell’esperimento dell’azione da parte di soggetto a ciò titolato, l’oggetto di sindacato da parte del giudice non potrà avere ad oggetto la convenienza e/o l’utilità di un atto in sé – né il risultato che lo stesso abbia eventualmente prodotto – bensì unicamente le modalità di esercizio del potere discrezionale che deve essere riconosciuto agli amministratori, laddove le decisioni oggetto di esame non siano state assunte all’esito di un iter formativo e conoscitivo caratterizzato da un sufficiente grado di diligenza, in mancanza del quale la condotta “non informata” dell’organo gestorio diventa fonte di sua responsabilità; ovviamente, non tutti i comportamenti illeciti degli amministratori (e/o dei soggetti ai quali la disciplina è estesa) possono dar luogo a responsabilità risarcitoria, ma solo quelli che abbiano causato il danno sofferto dal patrimonio sociale; questo danno deve essere legato da un nesso eziologico agli illeciti commessi e va imputato soggettivamente, per dolo o colpa, ai soggetti ritenuti responsabili (Cass., n. 15847/00 e, conforme, ex multis, Cass., n. 20476/08); con specifico riguardo alla responsabilità derivante da illecita prosecuzione dell’attività sociale, occorre verificare se la perdita incrementale emergente dalle rettifiche bilancistiche è integralmente riconducibile (o meno) “alle nuove operazioni poste in essere o se essa in parte si sarebbe ugualmente determinata, anche se la società fosse stata correttamente posta in liquidazione o ne fosse stato dichiarato il fallimento” (Cass., n. 16211/07); in tema di quantificazione del danno nell’azione di responsabilità, se è vero che il novellato art. 2486 c.c. ne consente una determinazione presuntiva in misura pari al patrimonio netto fallimentare o al differenziale tra patrimoni netti (quello alla data di presunta perdita del capitale sociale e quello fallimentare), è altrettanto vero che questa norma pur comportando, nella sostanza, una inversione dell’onere della prova, non impedisce di contestare tanto la specifica violazione dei doveri imposti dalla legge, quanto la correlazione tra tali violazioni e il pregiudizio arrecato alla società; in sede di azione risarcitoria fallimentare, dovrà, quindi, accertarsi il nesso di causalità tra le condotte illecite e il danno riferibile a siffatte condotte, con sua determinazione nell’ammontare che, di regola, viene determinato mediante consulenza tecnica d’ufficio.

Su queste basi, l’attestatore è chiamato a procedere non solo all’approfondimento delle operazioni e situazioni specifiche per le quali nel ricorso è stata data “disclosure”, ma anche all’esame dei libri sociali, delle decisioni del consiglio di amministrazione, delle principali movimentazioni contabili ad esse riferite, delle rilevazioni dei verbali dell’organo di controllo, dei documenti e delle delibere relative alle operazioni societarie straordinarie, il tutto riferito al quinquennio anteriore all’apertura della procedura concordataria per verificare la possibile esistenza, o meno, di operazioni censurabili.

Anche in questo caso, come quello precedente evidenziato relativo alle possibili revocatorie, l’esercizio di queste azioni trova sempre percorsi molto complessi con durate ultrannuali dei relativi giudizi che normalmente impiegano dai tre ai cinque anni per arrivare ad una sentenza esecutiva, con aggiunta degli ulteriori tempi necessari per l’esecuzione, il tutto accompagnato dall’incertezza sia del giudizio sia della consistenza patrimoniale “ab origine” dei potenziali convenuti, sia del suo effettivo mantenimento di valore, nel corso del tempo, tenuto conto delle ampie durate descritte; il tutto senza dimenticare la circostanza che, nella maggior parte dei casi (e soprattutto in quelli in cui le pretese della curatela vengono contestate in giudizio con motivazioni sostenibili), i giudizi risarcitori tendono a risolversi in via transattiva, mediante il versamento – a tutto concedere – di un importo in favore del fallimento, a tacitazione di ogni sua pretesa risarcitoria, che potrebbe attestarsi, secondo quelle che sono le prassi in caso di transazioni di questo tipo, in una percentuale tra il 5% e il 30% dell’ammontare complessivo del petitum azionato in giudizio.

Per concludere il panorama informativo sulle azioni risarcitorie, l’attestatore dovrà riportare l’elenco dei soggetti che risultavano in carica nel periodo di riferimento, enunciando anche il risultato delle ricerche patrimoniali svolte.

Volendo trarre le fila di quanto sinora osservato, è ragionevole concludere nel senso che: il giudizio comparativo tra una proposta concordataria e l’alternativa fallimentare non si può tradurre in un semplice raffronto tra l’ammontare del ripagamento concordatario proposto e la sommatoria dei valori liquidativi, ma deve invece tradursi nel raffronto tra l’ammontare del ripagamento concordatario proposto ed il valore di liquidazione giudiziale dei diritti astrattamente liquidabili ed azionabili, tale intendendosi il risultato concretamente ricavabile da un creditore attraverso la promozione di una esecuzione forzata nei confronti dei patrimoni e/o delle assicurazioni dei soggetti ritenuti responsabili; questo risultato deve essere, poi, soggetto ad una necessaria attualizzazione che tenga conto del tempo necessario per conseguire l’anzi detto risultato liquidativo; l’esercizio di un’azione revocatoria e di responsabilità, nella maggior parte delle ipotesi, tende a concretizzarsi in un percorso processualmente complesso, che prende dapprima avvio da una fase stragiudiziale, e che prosegue poi mediante l’instaurazione di un procedimento giudiziale di durata ultrannuale (normalmente tali processi impiegano dai quattro ai sette anni per arrivare ad una prima sentenza esecutiva); dopodiché, sempre in tema di tempistiche di recupero, una volta ottenuta una sentenza esecutiva nei confronti dei soggetti individuati come responsabili, è necessario porre la medesima in esecuzione; il che crea un ulteriore dilatazione di tempi (e di costi) che devono essere sopportati dal creditore.

Conclusioni

Nella disamina di una proposta concordataria, il Tribunale di Bologna giunge ad affermare l’esistenza di una forma di continuità c.d. “debole”, pur sempre rientrante nella fattispecie di cui all’art. 186bis l. fall. e dunque destinata a beneficiare della relativa disciplina, e fondata su una continuità aziendale in senso oggettivo, ancorché con soggetto diverso, mediante un contratto di affitto d’azienda perfezionato anteriormente al deposito della domanda introduttiva ex art. 161, comma 6, l. fall..

In questa fattispecie, nella quale è inclusa un’ipotesi di transazione fiscale ai sensi dell’art. 182ter l. fall., viene altresì sancita la necessità di creare due distinte classi, in luogo di un’unica, per i diversi creditori erariale e contributivo se degradati al chirografo ex art. 160, comma 2, l. fall., e l’esercizio di un potere di cram down del Tribunale rispetto agli Enti che hanno espresso un voto negativo (o che non si sono espressi, con parità di esito negativo) nel caso in cui sia dimostrata la convenienza dello strumento concordatario e la relativa adesione sia determinante ai fini del conseguimento della maggioranza nell’interesse della massa dei creditori.

Minimi riferimenti giurisprudenziali e bibliografici

In considerazione della pluralità e complessità dei temi affrontati, si è preferito inserire i riferimenti giurisprudenziali e bibliografici direttamente nel corpo del testo, onde consentire una loro immediata ricognizione ed identificazione.

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