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Giurisprudenza

Anatocismo: commento a Corte Suprema di Cassazione, Sesta Sezione Civile, Ordinanza n. 20172 del 03 settembre 2013

17 Settembre 2013

Avv. Filippo Maria De Stefano Grigis

Cassazione civile, sez. VI, 03 settembre 2013, n. 20172

Di cosa si parla in questo articolo

Massima

Per i contratti bancari stipulati in data anteriore al 22 aprile 2000 (data di entrata in vigore della delibera CICR 09 febbraio 2000), ove sia accertata la nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi, non è ammessa alcuna altra forma di capitalizzazione.

Commento

La Suprema Corte torna sul tema dell’anatocismo, confermando un orientamento ormai consolidato nella sua giurisprudenza. Il caso. Il Tribunale di Nocera Inferiore aveva dichiarato la nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi, escludendo che, ferma tale nullità, potesse applicarsi qualsiasi altra forma di capitalizzazione. La Corte d’Appello di Salerno, invece, nel confermare la nullità della clausola in tema, aveva ritenuto applicabile una forma di capitalizzazione annuale, con ovvio vantaggio per l’Istituto di credito interessato. Adita la Suprema Corte, quest’ultima ribaltava la pronuncia della Corte d’Appello, con la seguente argomentazione: “[…] si osserva che Cass. Sez. Un. 24418/2010, richiamata dal ricorrente, ha chiarito che, una volta dichiarata la nullità della previsione negoziale di capitalizzazione trimestrale, per contrasto con il divieto di anatocismo stabilito dall’art. 1283 c.c. (il quale osterebbe anche ad un’eventuale previsione negoziale di capitalizzazione annuale), gli interessi a debito del correntista debbono essere calcolati senza operare capitalizzazione alcuna”.

L’argomentazione appare – per quanto possa ancora spendersi in merito – senz’altro condivisibile. Tale argomentazione prende le mosse dall’art. 1283 cit., il quale, salve le ipotesi tassativamente previste, non ammette la produzione di interessi su interessi. Né è data alcuna previsione normativa che consenta la capitalizzazione annuale, che possa invocarsi ed applicarsi, con inserzione automatica in luogo della clausola contrattuale illegittima ex art. 1339 cod. civ.. Gli sforzi interpretativi che, in tal senso, si sono mossi sono stati infine tutti rigettati dalla giurisprudenza, che bene distingue la periodicità di maturazione degli interessi, anche esaminando l’art. 1284 cod. civ., dalla richiesta di produzione di ulteriori interessi su quelli già maturati, che non può avvenire se non – ex art. 1283 cit. – “per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza, e sempre che si tratti di interessi dovuti almeno per sei mesi”. E’ una logica tanto elementare quanto stringente, anche solo ponendo mente ad una circostanza, che può apparire banale, ma che merita di essere valorizzata, e cioè che, nella compilazione codicistica, il divieto di anatocismo precede la disciplina del saggio degli interessi legali; quest’ultimo è sì determinato “in ragione d’anno”, ma nulla autorizza a dedurre che tale misura annuale possa risalire al predetto divieto e neutralizzarlo o, quantomeno, derogarlo con base annuale anziché trimestrale.

Ciò detto, la Corte dedica una breve riflessione, quasi un obiter dictum, al noto fenomeno dell’overruling, sostenendo che, in punto di anatocismo, tale argomentazione non coglie nel segno, posto che, rispetto a quel fenomeno, non si tratta di alcun repentino revirement interpretativo di norme di carattere processuale e che, in ogni caso, dovrebbe essersi prodotto per la parte una restrizione del diritto di azione e di difesa processuale. Tutti presupposti che nel caso di specie non sussistono, di talché nessun tutela può accordarsi all’”affidamento incolpevole” della Banca sul meccanismo dell’anatocismo e la sua legittimità sancita dalla giurisprudenza (della stessa Corte) per oltre vent’anni. A tale riguardo, viene alla mente una felice definizione di questo revirement data dal Tribunale di Trani nella sentenza n. 1305/2004, che parlava di “una vera e propria rivoluzione copernicana”.

Ora, se è stato così – ed è stato innegabilmente così – preso atto che l’overruling, così come è stato fin qui inteso, è un fenomeno soltanto processuale, non si vede per quale ragione, sul piano sostanziale, l’affidamento incolpevole di un contraente su di un’interpretazione del Supremo Collegio, la cui funzione nomofilattica non è certo esclusa per le norme di diritto sostanziale, non possa, comunque, trovare una adeguata tutela. Non si tratta, in effetti, della tutela di un uso negoziale contrario a norme imperative, ma di riconoscere che una norma (l’art. 1283 cit., per l’appunto) è stata applicata, nell’esecuzione di un contratto, in modo conforme all’uniforme interpretazione che di essa è stata promossa, ripetuta e consolidata dalla Suprema Corte di Cassazione per decine di anni; con la conseguenza che, nel momento in cui la stessa Corte sconvolge il proprio orientamento, così sconvolgendo il sistema normativo, con la stessa forza dirompente con la quale Copernico aveva rivoluzionato il sistema astronomico, coloro i quali hanno uniformato la loro condotta al precedente sistema non possono essere né rimproverati per avere in esso, senza colpa confidato, né tantomeno possono essere patrimonialmente depauperati, per effetto della ritenuta applicabilità dell’azione di ripetizione d’indebito oggettivo.

Può apparire questo, oramai, un mero flatus vocis a favore del contraente più forte; ma non deve essere la maggiore forza del contraente, che ha beneficiato della suddetta interpretazione, a fare velo all’applicazione di un principio di diritto, che qui involge il cardine della buona fede contrattuale e l’osservanza della legge secondo l’interpretazione che di essa viene data, tempo a tempo, da parte del massimo organo giurisdizionale, che è chiamato ad orientare la condotta dei consociati ed ai quali, indistintamente, non si può muovere alcun rimprovero per essersi limitati ad osservare la legge secondo quell’interpretazione, cui i medesimi devono tendere per assicurare l’ordinato svolgersi dei rapporti sociali.

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