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Whistleblowing e risarcimento del segnalante demansionato e vessato

2 Dicembre 2025

Tribunale di Bergamo, 06 novembre 2025, n. 4306

Di cosa si parla in questo articolo

Il Tribunale di Bergamo, con sentenza n. 4306 del 06 novembre 2025, si è soffermato sugli aspetti risarcitori derivanti da condotte datoriali illecite, concretizzatesi nel demansionamento e nella lesione dell’integrità morale del lavoratore che aveva posto in essere segnalazioni qualificabili come whistleblowing.

In riferimento al caso di specie, la domanda della ricorrente era volta alla dichiarazione di nullità dei provvedimenti adottati nei confronti della stessa, a seguito delle sue segnalazioni quale c.d. whistleblower, ed al conseguente risarcimento dei danni subiti: la lavoratrice aveva infatti effettuato segnalazioni dapprima direttamente all’ente di appartenenza e poi all’ANAC, in riferimento a favoritismi nell’erogazione di buoni pasto, indennità di turno e permessi studio, in favore di soggetti non aventi i requisiti di legge.

In seguito, la lavoratrice aveva altresì effettuato una denuncia alla Guardia di Finanza in relazione a irregolarità commesse nell’utilizzo di fondi regionali e cofinanziamenti e nell’erogazione di premi di produzione.

Le condotte sussumibili fra le ipotesi di “whistleblowing

Per il Tribunale, tali ipotesi integrano innegabilmente segnalazioni annoverabili tra le ipotesi di “whistleblowing tutelate, ratione temporis, dall’art. 54 bis del D. Lgs. n. 165/2011: ciò non solo in quanto ANAC così espressamente definisce gli esposti pervenutigli dalla ricorrente, ma anche in quanto essi rientrano pienamente nel perimetro soggettivo e oggettivo di cui al citato art. 54 bis.

La norma, infatti sancisce che la segnalazione, avente ad oggetto “condotte illecite di cui è venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro” deve pervenire “dal pubblico dipendente” e deve essere diretta a determinati soggetti (responsabile della trasparenza, ANAC o autorità giudiziaria) e svolta nell’interesse dell’integrità della pubblica amministrazione (e non quindi a tutela di posizioni di natura strettamente personale o per contestazioni o rivendicazioni inerenti al singolo rapporto di lavoro), presupposti tutti integrati e rinvenibili nelle denunce effettuate dalla ricorrente.

A tutela del segnalante, la disciplina sul whistleblowing (art. 54 bis c. 1 d.lgs. 165/2001) prevede che egli non possa subire alcuna misura discriminatoria o ritorsiva e, segnatamente, che non possa essere “sanzionato, demansionato, licenziato, trasferito o sottoposto ad altra misura organizzativa avente effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro determinata dalla segnalazione“: in altri termini, la norma, pur non costituendo una esimente generalizzata per tutte le violazioni commesse dal dipendente, è volta alla salvaguardia del lavoratore da reazioni ritorsive dirette e indirette, provocate dalla denuncia, nonché dall’applicazione di sanzioni disciplinari ad essa conseguenti (Cass. Civ. sez. lav. ord. n. 9148 del 31.3.2023); la tutela è esclusa solamente a fronte dell’accertamento, con sentenza di primo grado, della responsabilità penale del segnalante per calunnia o diffamazione (cfr. art. 54 bis c. 9 del decreto citato).

Nel caso di specie, a fronte degli esposti, la ricorrente ha lamentato di aver subito una serie di atti ritorsivi, come:

  • l’avvio di due procedimenti disciplinari infondati
  • l’assegnazione all’ufficio notifiche
  • una valutazione professionale negativa per l’anno relativo alle segnalazioni effettuate.

Il Tribunale di Bergamo ha dunque dichiarato la nullità di tali atti, non avendo l’amministrazione assolto all’onere della prova, sulla medesima gravante, circa la giustificatezza di tali condotte e l’estraneità delle stesse alle segnalazioni inviate dalla ricorrente.

La convenuta infatti, a fronte della contiguità cronologica delle misure adottate in epoca immediatamente successiva agli esposti qualificabili quali ipotesi di whistleblowing, non ha dimostrato in modo efficace che esse erano, di contro, esclusivamente motivate da ragioni del tutto estranee alle segnalazioni:

  • quanto ai procedimenti disciplinari, essi sono stati successivamente archiviati dalla stessa amministrazione, sicché, per il Tribunale, deve concludersi che essi fossero sin dall’origine infondati o quantomeno non sufficientemente giustificati
  • quanto alla valutazione professionale negativa, non è stata fornita alcuna prova convincente e idonea a giustificare il giudizio estremamente negativo subito dalla ricorrente, che, di contro, nel 2019 e nel 2021 aveva ricevuto valutazioni positive, vicino al 100.
  • quanto all’assegnazione all’ufficio notifiche, basti ora rilevare che effettivamente è emerso che la ricorrente è stata adibita a mansioni inferiori (archiviazione, cambio dei rotolini delle stampanti portatili) ed è stata anche ostacolata nell’espletamento di tali compiti, non essendole state fomite le password per l’accesso al sistema operativo.

Sul danno risarcibile

Premesso quanto sopra, e ribadita la responsabilità ex art. 2087 C.c. a fronte dell’ambiente di lavoro “stressogeno” nel quale la ricorrente ha dovuto operare sino alle dimissioni, il Tribunale ha quindi identificato e quantificato il danno dalla stessa subito.

Preliminarmente, premette che l’evoluzione giurisprudenziale in tema di danno non patrimoniale ha visto un approdo fondamentale nel 2008, quando le Sezioni Unite hanno tentato di arginare una prassi che tendeva a moltiplicare le voci di danno non patrimoniale risarcibili e hanno affermato che:

  • il danno non patrimoniale è risarcibile purché sia espressione di una lesione seria ad un diritto di rango costituzionale
  • che non sono risarcibili i meri fastidi o disagi
  • che è necessario evitare indebite duplicazioni risarcitorie dando nomi diversi allo stesso pregiudizio, essendo il danno non patrimoniale una categoria unitaria
  • che quindi le varie denominazioni (danno biologico, esistenziale, terminale … ) possono rivestire valore definitorio ma non costituiscono pregiudizi diversi autonomamente risarcibili
  • che tuttavia, al contempo, è importante risarcire tutte le componenti del danno non patrimoniale, in ossequio al principio di integralità del risarcimento.

La giurisprudenza successiva ha ulteriormente precisato i principi sopra richiamati e segnatamente ha affermato che nel danno non patrimoniale, che resta unitario, è distinguibile la componente c.d. “dinamico-­relazionale” (ovvero il pregiudizio subito dal danneggiato nel suo rapporto con gli altri, quale appartenente alle formazioni sociali, che nella normalità dei casi si esaurisce nel c.d. danno biologico) e la componente c.d. “da sofferenza soggettiva interiore”, ovvero il danno subito dal danneggiato per l’impedimento a svolgere le normali attività della vita quotidiana e sociale, nelle quali si esplica la sua personalità.

Di norma tale danno coincide con il danno c.d. “biologico”, vale a dire alla salute e all’integrità psicofisica che, a differenza di quello morale, è misurabile e suscettibile di valutazione medico­legale, e rappresenta quindi il pregiudizio sofferto dal danneggiato per il complessivo peggioramento della propria esistenza, nelle sue conseguenze ordinarie, generalmente subite secondo una valutazione di regolarità causale.

Il danno c.d. “morale”, invece, è l’intensa sofferenza patita dal soggetto nel suo rapporto con sé stesso, nella propria sfera interiore, prima definito “danno morale”.

Nello specifico, il danno dinamico-relazionale è il pregiudizio alla vita di relazione conseguenza dell’illecito, che si esplica della sua dimensione interiore e nel apporto che il danneggiato ha con se stesso, quale la vergogna, la disistima di sé, il dolore, il patimento d’animo, la paura, la disperazione sofferti al momento del fatto: entrambe le componenti devono essere rigorosamente allegate e provate dal danneggiato, non potendosi definire “in re ipsa”, onde per cui deve essere compiuta un’istruttoria finalizzata all’accertamento concreto e non astratto del danno, dando ingresso a tutti i necessari mezzi di prova, ivi compresi il fatto notorio, le massime di esperienza e le presunzioni.

Nel caso di specie, tuttavia, per il Tribunale, la ricorrente non ha dato prova di aver subito, a causa delle condotte datoriali, un danno dinamico-relazionale, in termini di danno biologico permanente; invece, ha riconosciuto il danno morale (paura, disperazione, disistima di sé, vergogna), ossia quale intensa sofferenza soggettiva provata dalla ricorrente in conseguenza delle condotte, protrattesi per quasi tre anni, sofferenza che può essere dimostrata anche tramite il ricorso alla prova presuntiva secondo l’id quod plerumque accidit.

Nel corso del giudizio è innegabilmente emersa infatti la penosità dell’ambiente di lavoro nel quale la ricorrente ha dovuto lavorare, il profondo senso di malessere, isolamento, emarginazione e umiliazione che ha provato nella consapevolezza di lavorare con colleghi che non perdevano occasione per manifestare, anche in modo brusco se non aggressivo, ostilità e rancore nei suoi confronti, per avere dato avvio a una serie di iniziative a controllo delle erogazioni di cui, negli anni precedenti, erano stati beneficiari (ovvero per le segnalazioni qualificabili come whistleblowing).

La quantificazione del danno a tutela della lavoratrice che ha posto in essere segnalazioni qualificabili come whistleblowing, nel caso di specie, è stata quindi effettuata dal Tribunale in via equitativa, ex art. 1226 C.c., in una somma pari a 25.000 euro.

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