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Attualità

La deducibilità degli interessi passivi nell’ambito della proposta di Direttiva UE per limitare l’erosione della base imponibile e il trasferimento degli utili

30 Marzo 2016

Elio Andrea Palmitessa

Di cosa si parla in questo articolo

Nell’ambito della proposta di Direttiva recante norme contro le pratiche di elusione fiscale che incidono direttamente sul funzionamento del mercato interno (per brevità la “Direttiva”) approvata dalla Commissione Europea lo scorso 28 gennaio 2016 (cfr. contenuti correlati), l’art. 4 ha introdotto specifiche norme per limitare l’importo degli interessi deducibili dal reddito d’impresa.

Questa azione, che si inserisce all’interno di un più ampio pacchetto di proposte finalizzate al contrasto di pratiche di pianificazione fiscale aggressiva (oltre alla citata limitazione sulla deducibilità degli interessi, ricordiamo che la Direttiva contiene disposizioni relative all’Exit Taxation, alla Switch-over-clause, alla General anti-abuse Rule, alla disciplina CFC o all’utilizzo degli Hybrid mismatches), si coordina con i lavori dell’Ocse in tema di erosione della base imponibile e trasferimento di utili (“base erosion and profit shifting”, per brevità “Beps”), integrando i presupposti per l’attuazione di una politica di protezione sui sistemi di imposta societaria dei paesi membri dell’UE, anche come misura di contrasto ad un approccio unilaterale delle misure Ocse/Beps.

Nell’ambito dello scenario appena descritto, il presente contributo vuole focalizzare l’attenzione (certamente, non in maniera esaustiva tenuto conto dell’ampiezza della tematica) sul tema della deducibilità degli interessi passivi, tracciando eventuali punti di continuità con la legislazione italiana definita dall’art. 96 Tuir e con il final report “Limiting base erosion involving interest deductions and other financial payments” pubblicato dall’Ocse in data 5 ottobre 2015 (per brevità “report Action 4”), introducendo al contempo brevi riflessioni in un’ottica di compatibilità della misura introdotta dalla proposta UE con i più diffusi indirizzi della giurisprudenza comunitaria (“Corte di Giustizia Europea”, per brevità “CGE”).

Innanzitutto, il nuovo meccanismo, che dovrebbe limitare l’importo che i contribuenti assoggettati all’imposta societaria (in uno Stato membro dell’Unione Europea) potrebbero dedurre in un esercizio fiscale nell’ambito della citata azione di contrasto agli schemi di pianificazione fiscale aggressiva attuata dai gruppi d’impresa (per brevità i “Gruppi”), nasce come strumento di difesa da un uso distorto di strutture posizionate in Stati a fiscalità privilegiata con le quali i Gruppi stipulano dei contratti di finanziamento (intragroup loans) a condizioni più onerose rispetto a quelle che si sarebbero configurate se tra finanziatore e finanziato non vi fosse stato un legame partecipativo. I più evidenti vantaggi fiscali nell’utilizzare tale struttura consistono in uno spostamento di utili nello Stato a fiscalità privilegiata, permettendo così di erodere base imponibile dell’erogante per il tramite di una “efficiente” deduzione delle spese per interessi passivi.

Tenuto conto di queste premesse e considerando quanto già emerso in sede OCSE (para. 22-24, report Action 4), con l’azione della Commissione Europea viene introdotto un duplice livello di protezione per contrastare l’indebita deduzione degli oneri finanziari. Un primo livello (de minimis threshold) con il quale gli interessi passivi sono deducibili fino a concorrenza degli interessi attivi (o di altri ricavi imponibili da attivi finanziari) maturati dal contribuente. Gli interessi netti eccedenti, che concorrono alla formazione del reddito imponibile del contribuente nell’ambito delle disposizioni previste con il secondo livello di protezione, sono deducibili nel limite del 30% dell’Ebitda (profitto al lordo di interessi, imposte, ammortamenti e svalutazioni) ovvero, se maggiore, dell’importo massimo di 1.000.000 Euro.

Notiamo dunque una forte sovrapposizione con la disciplina italiana (subentrata alla già abrogata norma rubricata “contrasto all’utilizzo fiscale delle sottocapitalizzazioni” nell’ambito dell’art. 98 Tuir) che fonda il diritto alla deduzione degli interessi passivi sulla coesistenza di interessi attivi (fino a concorrenza) e sul risultato operativo lordo (ROL), ovvero il risultato conseguito dalla gestione caratteristica dell’impresa determinato come differenza tra il valore e i costi della produzione di cui alle lett. A) e B) dell’art. 2425 del Codice Civile con esclusione dell’ammortamento delle immobilizzazioni immateriali e materiali e dei canoni di locazione finanziaria di beni strumentali così come risultanti dal Conto economico dell’esercizio, nel limite del 30%.

Sul punto notiamo viceversa un elementoparziale di rottura ed evoluzione rispetto agli indirizzi emersi in sede Ocse, laddove si valuta una deduzione degli interessi netti eccedenti che si colloca all’interno di un limite di range (“corridor”) tra il 10%-30% (“statutory benchmark fixed ratio”) dell’Ebitda (para. 94-98, report Action 4), da determinare al termine di un’appropriata analisi economica. La soluzione proposta dalla UE è dunque molto più selettiva, perché determina un fixed ratio (e non anche un group ratio come fatto in sede Ocse, para. 115-117, report Action 4) senza effettuare alcuna analisi preventiva per verificare la congruità del dato selezionato (a titolo esemplificativo, come anche evidenziato nel report Action 4, circa la metà dei Gruppi con azioni quotate sarebbero in grado di assorbire l’eccedenza netta di interessi già nel limite del 5% dell’ Ebitda, e pertanto aumentare tale limite fino al 30% vorrebbe dire creare una capienza inutilizzata di potenziali interessi passivi deducibili sei volte superiore al fabbisogno, e al cui interno si potrebbe inserire tranquillamente un’azione di pianificazione fiscale del gruppo per spostare base imponibile laddove vi siano opportunità). Dopodiché, come spiegato nelle more della Direttiva, sarà compito dei singoli paesi Membri introdurre percentuali di deducibilità più rigorose e stringenti per limitare la deducibilità degli interessi, nel momento in cui la proposta sarà recepita negli ordinamenti nazionali.

Questo aspetto rischia però di riaprire un filone affrontato più volte dalla CGE in relazione alla conformità di una normativa nazionale con il diritto dell’Unione Europea laddove, sulla scia di quanto previsto dalla Direttiva, vengano introdotte dai vari paesi Membri percentuali di deducibilità particolarmente ridotte che vadano oltre quanto necessario per giustificare una restrizione basata su motivi imperativi di interesse generale e sulla necessità di garantire la coerenza del sistema fiscale interno. Meritano un cenno, a questo proposito, i principi formulati dalla CGE nella sentenza Itelcar (causa C-282/12,Itelcar – Automòveis de Aluguer Lda contro Fazenda Pùblica, 3 ottobre 2013). Il caso riguardava il trattamento fiscale di interessi corrisposti da una società residente in un paese dell’Unione Europea (Portogallo) ad una società mutuante stabilita in un paese terzo (Stati Uniti) con la quale intercorrevano legami societari. Orbene, la Corte ha affermato che, l’applicazione da parte di uno stato Membro di un trattamento fiscale (deducibilità degli interessi subordinata alla dimostrazione che il livello di indebitamento è il medesimo che si sarebbe ottenuto, in condizioni analoghe, da controparte indipendente) meno favorevole di quello che si sarebbe verificato nel caso in cui la stessa società residente avesse contratto un analogo debito nei confronti di una società mutuante residente nello stesso territorio nazionale o in un altro paese Membro (interessi comunque deducibili dal reddito d’impresa), “va oltre quanto necessario per conseguire il suo obiettivo” di contrasto all’evasione fiscale e all’erosione di base imponibile dell’imposta sulle società, considerando invece che “una misura nazionale che restringa la libera circolazione dei capitali è giustificabile laddove riguardi costruzioni di puro artificio e prive di effettività economica”.

Riprendendo una diffusa giurisprudenza (causa C-324/00, Lankhorst-Hohorst Gmbh contro Finanzamt Steinfurt, 12 dicembre 2002; causa C-524/04, Test Claimants in the Thin Cap Group Litigation contro Commissioners of Inland Revenue, 13 marzo 2007) una soluzione al problema del coordinamento tra disciplina domestica e il tema delle libertà fondamentali andrebbe ricercato (più che in uno statutory benchmark fixed ratio) nell’art. 9 del Modello Ocse contro le doppie imposizioni. Le conclusioni dell’Avvocato Generale in Lankhorst-Hohorst Gmbh, caso attinente ad una società con sede in Germania che aveva ricevuto un finanziamento a titolo oneroso dalla holding del gruppo con sede in Olanda, introducono un concetto fondamentale evidenziando che “l’art. 9, n. 2, del modello di convenzione OCSE potrebbe fornire un indizio di soluzione (per garantire) da un lato, la ripartizione regolare del diritto d’imposizione e, dall’altro, le entrate fiscali degli Stati membri interessati” (para. 69). Dello stesso tenore la CGE in Thin Cap, laddove “gli interessi sono deducibili se, tenuto conto dell’importo del prestito in questione, l’importo degli interessi corrisponde a quanto sarebbe stato convenuto in assenza di speciali relazioni tra le parti o tra le parti e un terzo” (para. 7), ovvero “a condizioni commerciali che avrebbero potuto essere applicate da tali società se queste non fossero appartenute allo stesso gruppo societario” (para. 80). E ciò assume un’importanza ancora maggiore se consideriamo come i maggiori rischi di erosione della base imponibile e trasferimento di utili sono prioritariamente (pur se non esclusivamente) insiti all’interno dei Gruppi piuttosto che su standalone entities (sul punto vedi report Action 4, para 52).

La Direttiva disciplina inoltre i casi di disapplicazione della limitazione alla deducibilità degli interessi passivi. Il co. 3 introduce una integrale deduzione degli oneri finanziari dal reddito d’impresa se il contribuente è “in grado di dimostrare che il rapporto tra il capitale proprio e i suoi attivi totali è pari o superiore al rapporto equivalente del gruppo”. Dopodiché sono identificate cinque situazioni (ancora non è chiaro quanto alternative o complementari tra di loro, sul punto si attendono chiarimenti) che subordinano in maniera più specifica la disapplicazione della norma a situazioni legate al livello di capitale proprio, alla redazione di un bilancio consolidato secondo i principi Ifrs o USGaap, all’uniformità dei criteri di valutazione generali del bilancio o a limitazioni nel numero delle transazioni effettuate con parti correlate sul totale degli interessi passivi netti di Gruppo. Tenuto conto delle specificità richieste per la disapplicazione della disciplina qui in commento, nonché la mancanza di una metodologia di calcolo del capitale proprio ai fini della presente Direttiva (che certamente richiederanno un intervento del legislatore in sede di recepimento), si ritiene che un significato più elevato all’interno della norma sia evidenziabile nei co. 4 e 5 dell’art. 4, con i quali si interviene per disciplinare, rispettivamente, capienze di Ebitda non utilizzate, ed il riporto dell’eccedenza di interessi passivi netti indeducibili a periodi d’imposta successivi.

La norma sul riporto in avanti di eccedenze di Ebitda non utilizzate in un periodo d’imposta, strutturata in modo analogo a quanto previsto a livello domestico dall’art. 96, co. 1 Tuir (eccedenze di ROL) e similarmente ripreso anche in sede Ocse (para. 159, report Action 4), risulta al momento ancora scarna di contenuti. Pur non conoscendo i limiti ed il grado di flessibilità concesso a ciascun paese Membro nel recepito delle norme, si ritiene che vi dovranno essere comunque degli interventi da parte del legislatore. La norma, infatti, non disciplina le fattispecie di riporto in avanti delle eccedenze di Ebitda in ipotesi di tassazione di gruppo, né affronta casi di attribuzione delle eccedenze nei casi di operazioni straordinarie. Allo stesso modo non vengono fatte ipotesi circa la riportabilità delle eccedenza entro certi limiti temporali né si evidenzia un eventuale obbligo di utilizzo di eccedenze di Ebitda da anni precedenti laddove vi sia capienza per un utilizzo nell’anno in corso. Insomma, tenuto conto che le medesime considerazioni possono essere fatte a specchio anche per le eccedenze di interessi passivi netti indeducibili, ci si chiede come, allo stato attuale, le norme introdotte con la Direttiva possano trovare applicazione.

Una risposta, parziale, è probabilmente da ricercare nel seguito della stessa Direttiva, laddove la Commissione Europea dispone che “i temi trattati nella presente direttiva sono stati discussi con le parti interessate nel quadro della proposta di direttiva per una CCCTB per vari anni”. Dunque, l’unica possibilità di successo sarebbe una completa integrazione con il progetto di una base imponibile consolidata comune per le società quale punto di convergenza tra i diversi sistemi tributari odierni, già in agenda della Commissione per il secondo semestre 2016.

Ricordiamo infine che, in continuità con le disposizioni già presenti al co. 5 dell’art. 96, le norme qui in commento non trovano applicazione per le imprese finanziarie (si rimanda al co. 4 dell’art. 2 della Direttiva per una definizione di “imprese finanziarie”). In sede Ocse, invece, nel report Action 4 non vi è alcun cenno di esclusione dal perimetro di applicazione della norma per tali soggetti.

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