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Editoriali

Causa variabile e causa meritevole dei derivati

25 Giugno 2020

Antonella Sciarrone Alibrandi

Prorettore, Ordinario di Diritto bancario, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano; Presidente dell’Associazione dei Docenti di Diritto dell’Economia (ADDE)

Di cosa si parla in questo articolo

1.- È trascorso poco più di un mese dalla pubblicazione della sentenza SS.UU. 8770/20 e parecchie sono già le voci levatesi a discuterla. Altre, senz’altro, ne seguiranno perché la sentenza è di quelle destinate a far rumore.

Perciò, credo importante indicare subito la linea in cui questa deve, a mio avviso, essere approcciata. Scorrendo i primi commenti, ho avuto spesso l’impressione di letture chiuse sui profili immediatamente disciplinari che alla pronuncia conseguono; sul “riflesso pratico” che la stessa può avere sul contenzioso in essere o, forse meglio, potrebbe avere, anche a mezzo di (più o meno) opportune manipolazioni.

A me pare che questa prospettiva sia sbagliata, risultando affetto da miopia. Il rischio è di immiserire una pronuncia, che in sé si manifesta invece ricca; di ridurla a un «nudo dispositivo» oppure al frutto di un percorso inutile.

In realtà, alla pronuncia delle Sezioni Unite va piuttosto riconosciuto il ruolo – ulteriore e di tutt’altro livello rispetto a quello di preparare una via di uscita per i giudizi sui derivati di «ristrutturazione» delle passività degli enti locali – di segnare una prospettiva di corretto posizionamento dell’analisi (giuridica e più fattivamente) giurisprudenziale in tema di derivati.

2.- Rispetto al fine ora prospettato – che solo una lettura estranea alla comprensione delle modalità evolutive del diritto vivente potrebbe pretendere fosse del tutto compiuto mediante quello che, a ben vedere, è solo il secondo provvedimento della Cassazione davvero meditato sul tema –, il punto di partenza inevitabile è l’apertura di un discorso rivolto alla fattispecie e alle condizioni del suo essere nel concreto approvata ovvero respinta dall’ordinamento.

Inevitabilità, quella del previo vaglio sulla nullità, per rendersi persuasi della quale è sufficiente richiamare, da un lato, l’istituzionale ruolo nomofilattico delle Sezioni Unite; dall’altro, e comunque, la rilevabilità d’ufficio (solo) di quel vizio, che nel fondare un principio di consequenzialità nell’analisi della fattispecie (prima la validità, poi la disciplina) conduce dentro il giudizio il principio di superiorità gerarchica, in punto di valori perseguiti dal processo, del controllo in ordine alla meritevolezza degli interessi perseguiti dalle parti mediante l’atto di autonomia.

Nel contesto della contrattazione in derivati, è la stessa Suprema Corte (19013/17) ad avere già precisato che il parametro-base della valutazione è integrato dalla regola dell’art. 21 TUF: servire al meglio l’interesse dei clienti e l’integrità dei mercati.

3.- Posta la sentenza in questa più adeguata prospettiva, il discorso si viene ad aprire complesso e ampio. Il mio intento, in questa sede, è quello di fornire solo qualche spunto, volto a fermare, a mo’ di segnalibro, gli snodi dogmatici nel cui orizzonte la pronuncia si muove.

Il primo livello dell’analisi delle Sezioni Unite è dato dal profilo strutturale. A livello di lessico giuridico, la locuzione «contratto derivato» designa una struttura incompleta nel lato causale: non, dunque, riguardo alla definizione degli effetti destinati a prodursi (oggetto), bensì riguardo alla logica sottesa al loro concreto articolarsi, rispetto alla quale logica l’ordinamento è chiamato a esprimere il proprio giudizio.

Il riferimento, esplicito nel provvedimento, va ai negozi a causa variabile. Come è facile notare, la prospettiva della variabilità è propriamente aperta dall’incompletezza causale: nelle parole del Collegio, «occorre considerare gli swap come negozi a causa variabile, perché suscettibili di rispondere ora ad una finalità assicurativa ora di copertura di rischi sottostanti»; o anche, invero, ad un’altra funzione (purché, va da sé, ammessa dal sistema vigente).

L’ingresso nel diritto applicato della figura di contratto a causa variabile è avvenuto – lo si ricorderà – per il tramite della cessione dei crediti. In effetti, il codice civile detta una disciplina della posizione del titolare del diritto di credito propriamente e specificamente riferita alla disposizione del medesimo, del tutto astratta dalla prospettiva delle cause riconosciute dal sistema.

Ora, è appena il caso di precisare che l’astrazione lì realizzata sul piano dell’enucleazione della fattispecie – e conseguente imputazione del relativo set di regole – è di ordine meramente sistematico, non essendo in alcun modo intesa a suggerire un’efficacia dell’atto di disposizione che prescinda dal momento causale. A parte i fenomeni di astrazione sostanziale, nel nostro sistema del tutto eccezionali (ove pure realmente esistenti), la produzione dell’effetto traslativo non trova mai in sé la propria giustificazione, ma richiede sempre un «antecedente causale … della fattispecie traslativa» (Realmonte-Mengoni), interno o anche esterno all’atto di disposizione medesimo.

4.- Prendere, dunque, in considerazione il «contratto derivato» in quanto tale è solo un’astrazione, un’operazione meramente concettuale. La fattispecie va comunque completata, con gli altri profili che la vengono, nel concreto, a denotare. Su questo aspetto, la sentenza, a me pare, mette proprio un punto fermo.

Misurandosi con un contesto di variabilità causale, in effetti, il giudizio sul derivato si può, per definizione, esprimere solo sulla struttura completa. Compiere questo stepsignifica realizzare, sul piano dell’esame della fattispecie, il passaggio dall’analisi della struttura incompleta all’intera fattispecie negoziale. Così, per restare al raffronto con la cessione del credito, non si può rispondere alla domanda sulla tenuta causale di questa prima di avere esteso la visuale alla più ampia realtà in cui l’alienazione si inserisce.

Portato l’assunto sul terreno dei derivati, la struttura incompleta risulta propriamente costituita dal meccanismo differenziale. Rispetto alla complessiva operazione negoziale, esso rileva allora come co-elemento che deve trovare il suo necessario momento di completamento in un altro e distinto fattore.

Quale sia il fattore è presto detto: la specifica situazione del cliente su cui l’operazione è costruita e verso cui si proietta (o meglio, non può non proiettarsi) per soddisfare l’interesse del cliente medesimo. In sintesi: si parla del c.d. «sottostante».

E va anche notato, seppur in limine, che il «pezzo di fattispecie» dato dalla struttura del derivato sembra porsi in termini rovesciati rispetto a quelli che caratterizzano l’atto di disposizione. Se quest’ultimo propone un calco nel cui ambitoviene a collocarsi la fattispecie analizzata in funzione di una sua qualificazione ulteriore (si pensi alla compravendita rispetto all’atto di disposizione), il derivato realizza invece un’integrazione della fattispecie concreta rappresentata dal «sottostante», con questa il meccanismo differenziale ponendosi su un piano di complementarietà.

5.- In definitiva, solo accettando la prospettiva della necessaria sussistenza di un effettivo rapporto tra la struttura differenziale (chi paga a chi, e quanto paga, a ciascuna scadenza intermedia), da un lato, e il «sottostante», dall’altro, si può avviare un ragionamento in ordine alla causa dei contratti derivati. Quale che ne sia il concreto atteggiarsi, mai può mancare la programmazione di una specifica funzione del derivato, cioè l’instaurazione pattizia di un preciso raccordo tra meccanismo differenziale e «sottostante», poiché – come precisano le Sezioni Unite – «in mancanza di una adeguata caratterizzazione causale, detto affare sarà connotato da una irresolutezza di fondo che renderà nullo il relativo contratto perché non caratterizzato da un profilo causale chiaro e definito (o definibile)».

E proprio perché «lo spostamento patrimoniale non si presenta come effetto di un negozio che contenga in sé la sua causa» (Giorgianni), nei derivati l’expressio causae (realizzata dall’indicazione del mark to market e, ancor più, degli scenari probabilistici) diventa lo strumento necessario per prevenire tale irresolutezza di fondo.

In tal modo muovendo il discorso dal profilo strutturale a quello funzionale, le Sezioni Unite segnalano l’urgenza di individuare, fattispecie concreta per fattispecie concreta, «la funzione che l’affare persegue … esaminando il caso concreto»: nella prospettiva – pare chiaro – di stabilire «se tali tipi di contratti perseguano interessi meritevoli di tutela ai sensi dell’art. 1322 cod. civ. e siano muniti di una valida causa in concreto».

Fissati tali necessari assunti di impostazione del tema, la sentenza viene poi – in coerenza con se stessa – a convergere dal generale al particolare (cioè al concreto o, per meglio dire, al più concreto). Va da sé, infatti, che, nel caso degli enti locali oggetto di giudizio, la prospettiva si deve misurare pure con gli specifici dati normativi che regolano la finanza pubblica.

Non sarebbe tuttavia corretto accreditare l’impressione di un provvedimento caratterizzato da uno scarto tra l’affermazione della necessità di un controllo sulla causa meritevole e la soluzione dei temi in concreto inerenti all’indebitamento degli enti locali. La sentenza, in realtà, fornisce un importante vettore del vaglio di meritevolezza.

E infatti, se tale vaglio deve passare attraverso una seria verifica della «misura qualitativa e quantitativa dell’alea» quale terreno su cui mettere alla prova «l’utilità sociale» del singolo derivato, a tracciare la strada è la dimensione d’impresa e i relativi principi ordinanti: primo fra tutti, il paradigma dell’agire per servire al meglio l’interesse dei clienti e l’integrità del mercato. In questa prospettiva, la sentenza delle Sezioni Unite si presta a essere letta in continuità con il già menzionato precedente del 2017, il cui portato le Sezioni Unite oggi consegnano a un livello più generale: non limitato, cioè, alla considerazione dei derivati connotati dalla c.d. funzione di copertura.

In questa medesima linea, precisano infine le Sezioni Unite che l’attività d’impresa – di cui il derivato si pone come frutto operativo – dà pure ragione della regola (23, comma 5, t.u.f.) che esclude per i derivati stipulati da soggetti abilitati la regola di mera soluti retentiofissata dall’art. 1933 c.c. in materia di contratto di scommessa: la norma del t.u.f. intendendo «delimitare, con un criterio soggettivo, la causa dello swap, ricollegandola espressamente al settore finanziario»). L’argomento qui speso dalla Corte sembrerebbe riecheggiare quell’orientamento dottrinale (Dolmetta-Minneci) che ha colto nella norma dell’art. 23, comma 5, t.u.f. non un’affermazione di necessaria validità dei derivati, bensì l’esclusione di una specifica disciplina (quale appunto quella di cui all’art. 1933), in sé estranea alla detta dimensione d’impresa dell’attività.

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