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Approfondimenti

Derivati del Comune di Milano: commento alla sentenza della Corte di Appello di Milano

7 Luglio 2014

G. Massimiliano Danusso, Allen & Overy

Di cosa si parla in questo articolo

Introduzione

La sentenza della Corte di Appello di Milano1 è una sentenza di importanza formidabile intervenuta nel lungo percorso del contenzioso in materia di derivati e nel conseguente intenso dibattito dottrinario.2 Non è, come ovviamente si è cercato di sostenere, una sentenza che si occupa esclusivamente dei profili penali come emersi della fattispecie: essa invece include una analisi sistematica, rigorosa e profonda, dei temi amministrativi, civilistici e finanziari che hanno alimentato il dibattito in materia e si pone come un inevitabile e indispensabile riferimento per la giurisprudenza futura. Nella prima parte di questa nota si riassumono in maniera compilativa i principi espressi nella decisione allo scopo di fornire una sintesi, auspicabilmente utile, delle 500 pagine della sentenza. Nella seconda parte si svolgono invece alcune analisi più ampie sui profili sistematici del provvedimento.3

1. La condotta di ente locale

Prima di soffermarsi sulla condotta delle Banche e sulle accuse di frode, la Corte ha ritenuto importante focalizzare la propria attenzione sulla condotta del Comune di Milano.

La Corte stigmatizza ripetutamente e severamente la condotta del Comune, evidenziando come il comportamento tenuto da alcuni dei funzionari coinvolti sia stato ben lontano da quello che ci si sarebbe aspettati da una pubblica amministrazione – sia essa un piccolo Comune o una grande Regione – specie per la verificata mancanza di diligenza e professionalità in capo ad alcuni suoi dipendenti.

Innanzitutto, la Corte rileva che un ente locale debba “obbligatoriamente attrezzarsi in proprio a stimare il valore dei derivati acquistati e, prima ancora, la loro rispondenza a quelle condizioni che reputa di complessiva convenienza economica in vista del contenimento del costo complessivo dellindebitamento”. Gli enti locali non possono esigere, afferma la Corte, qualcosa che – a parte la correttezza e la buona fede – è oggettivamente inesigibile dalla propria controparte contrattuale.

La Corte evidenzia poi che, con il supporto di consulenti tecnici indipendenti, un ente locale possa certamente “affrontare in posizione paritaria con lintermediario finanziario – da operatore qualificato quale deve essere, o de jure o de facto – anche il discusso e controverso tema dei costi o margini di transazione (che per convenzione continueremo a chiamare «impliciti»). “Una generalizzata impreparazione – inescusabile per lente pubblico e, ora, allo stato dellormai ricca esperienza giudiziaria anche per i giudici – ha infatti ingenerato il convincimento (errato) che [i costi delle operazioni in derivati] fossero infatti inesistenti, giacché neppure Candide ou lOptimisme riuscirebbe a immaginare la prestazione di un servizio di intermediazione e/o transazione bancaria del tutto gratuito”.

In argomento, i Giudici citano diffusamente la sentenza del Consiglio di Stato nel “caso Pisa”,4 laddove si afferma che “sussisteva certamente, o quanto meno poteva ragionevolmente pretendersi, un onere di diligenza nellinformarsi puntualmente e richiedere alle banche circostanziate notizie sui predetti contratti derivati, onde poter consapevolmente indirizzare le proprie scelte. Questo riferimento alla sentenza Pisa (che è ripetuto a pag. 317) è particolarmente importante ove si consideri che la Provincia di Pisa era stata classificata e trattata, almeno da parte di una delle Banche, come un cliente al dettaglio.

2. La convenienza economica di cui allArt. 41 Legge 448/2001

La Corte sostiene che il test di convenienza economica previsto dall’Articolo 41 sia imposto all’ente locale. La sentenza critica severamente il comportamento del Comune di Milano per non aver compiuto internamente, o quanto meno verificato, il calcolo della convenienza economica rispetto all’operazione che si accingeva a compiere, un dovere che la legge impone solo e soltanto all’ente pubblico e non alle sue controparti.

Secondo la Corte, infatti, lo svolgimento del test di convenienza economica spetta all’ente locale poiché non si risolve esclusivamente in un “calcolo”, ma postula una valutazione globale che si basa, tra le altre cose, su giudizi di natura politica inerenti la generale opportunità di un’operazione di ristrutturazione del debito. Si tratta, pertanto, di un precetto normativo destinato esclusivamente alle pubbliche amministrazioni e ai funzionari pubblici.

3. Il calcolo di convenienza economica

Successivamente la Corte affronta il tema della metodologia di calcolo della convenienza economica.

La Corte innanzitutto spiega che l’Articolo 41 si applica quando si crea un “nuovo debito”, il che significa che non si applica nel caso di una semplice modifica non novativa di un debito esistente (ad esempio nel caso in cui la durata dell’operazione venga semplicemente prolungata) ma solo nel caso di un vero e proprio rifinanziamento della passività.

Per quanto riguarda lo specifico metodo di calcolo, la Corte rileva come la norma non faccia riferimento a un particolare metodo piuttosto che a un altro, e illustra il criterio ritenuto più aderente al dettato letterale dell’Articolo 41 citando diverse disposizioni di testimoni ed esperti. In particolare, la Corte cita una testimonianza:

Cosa si fa? Si prendono i piani dei mutui cosi come sono … si calcola mutuo per mutuo qual è la rata: se cè un mutuo a tasso variabile si fa la stima del tasso variabile sulla base della curva forward, e si identifica la rata, se cè un tasso fisso la rata è costante, quindi è ancora più semplice; queste rate si attualizzano perché il calcolo deve essere fatto confrontando mele con mele e pere con pere, nel senso che siccome questi flussi si verificano nel tempo a scadenze diverse, bisogna renderle omogenee, bisogna considerarle tutte ad oggi. E per fare questa operazione si applicano dei fattori di sconto. Una volta applicati questi fattori di sconto, diciamo associati alla scadenza … si fa una moltiplicazione, poi si somma e si vede qual è il numero. Questo numero si mette a confronto con il nuovo debito, dove per nuovo debito si intende la rata, cosi come labbiamo costruita con lo swap, sia nella sua componente capitale sia nella sua componente interessi, e anche qui si stima, sulla base di dati precisi che sono, appunto, il tasso variabile sulla base della curva forward, qual è quel tasso che è associato a ciascun periodo. Quindi a questo punto si applicano i fattori di sconto, si fa una moltiplicazione, poi si fa una somma, si fa il calcolo sulleffetto della retrocessione fiscale che viene applicata agli interessi, quindi si fa unaltra moltiplicazione fra il 12,50% che … anzi fra il 6,25%, che è il valore della retrocessione fiscale, e si applica sugli interessi del Bond, che tra laltro era un numero fisso perché il Bond era a tasso fisso, una volta fatta questa moltiplicazione e poi questa somma si fanno delle sottrazioni. E questo e il calcolo di convenienza economico finanziaria. Quindi, mi scusi, il Comune di Milano che ha 3 miliardi di euro, uffici zeppi di ragionieri, questo calcolo poteva benissimo farlo)”.

E la Corte, all’esito di questa lunga citazione, conclude: “non poteva benissimo farlo, doveva farlo, bastassero o no i suoi ragionieri.”.

4. I derivati non devono essere considerati ai fini dellArt. 41 / I derivati non sono passività

A corollario delle suddette considerazioni, la Corte afferma che l’Articolo 41 non concerne i derivati, dal momento che questi ultimi non rappresentano un debito o una passività. In proposito la Corte cita, assieme ad altri riferimenti, la comunicazione del MEF inerente al caso dei derivati del Comune di Ferrara5.

Pertanto, secondo la Corte, la ristrutturazione di un’operazione in derivati che insista su passività di cui all’Articolo 41 non ricade anch’essa nel calcolo di cui all’Articolo 41, perché tale disposto concerne esclusivamente il rifinanziamento di un vecchio debito con un nuovo debito. Il market-to-market di un’operazione in derivati che insista su detto debito non deve essere incluso nel calcolo, dal momento non solo che tale valore è del tutto “neutrale” ai fini del calcolo, ma anche in quanto “gravava sul portafoglio del «debitore» anche prima della ristrutturazione delle passività”. In altre parole, il valore del mark to market, quale che esso sia, è presente prima e dopo il rifinanziamento.

La Corte tornerà sul concetto che i derivati non rappresentano un costo nei successivi passaggi della sentenza in cui affronta il tema dei costi occulti, e afferma che (i) non solo i derivati non possono avere un mark-to-market iniziale pari a zero; (ii) ma tale valore iniziale non costituisce un costo per l’ente locale o un profitto per le Banche (si veda il paragrafo 6 in proposito).

5. I derivati non possono avere un valore iniziale del mark-to-market pari a “zero”

La Corte ha espressamente e ripetutamente sostenuto, in più parti della sentenza, che i derivati del tipo di quelli sub specie non possano avere un valore iniziale del mark-to-market pari a zero. E’ inoltre ovvio, per i Giudici, che le Banche ricevano un profitto a fronte dei servizi di investimento resi ai clienti.

Parlando in via generale della condotta del Comune di Milano (vedi il precedente paragrafo 1), la Corte d’Appello aveva già affermato che il mark-to-market iniziale di questo tipo di derivati è sempre negativo per la società o l’ente locale e sempre positivo per la controparte bancaria. Ciò è dovuto al fatto che i costi incorsi dall’intermediario in relazione all’operazione in derivati non sono tenuti separati dal prezzo ma, per costante prassi di mercato, sono incorporati nel prezzo applicato al cliente. Per questa ragione, tale prezzo si discosta dal prezzo cd. par o prezzo teorico, racchiudendo al suo interno anche i costi ed i rischi sostenuti dall’intermediario vis-à-vis la società o l’ente locale, nonché il cd. mark-up, ossia, il margine o profitto atteso.

A parere della Corte, non vi è ovviamente nulla di sbagliato o illecito in questo. La Corte afferma che il profitto è un elemento assolutamente lecito nel prezzo di un derivato. Fin dalla Firenze del Rinascimento, gli istituti di credito offrono servizi bancari e finanziari ai clienti in cambio di un compenso.Tale osservazione fattuale conduce a una sola conclusione per i Giudici: le motivazioni addotte nel procedimento penale in questione muovono da un equivoco concettuale: le “Banche sono imprese di lucro e devono giocoforza guadagnare. Se offrissero i propri servizi gratuitamente, tradirebbero il loro oggetto sociale, guai se le autorità di vigilanza lo venissero a sapere”.

Nell’ambito di tali considerazioni, la Corte menziona il cd. “Documento Rischi”6 (ossia, il documento CONSOB sui rischi degli investimenti in strumenti finanziari allegato al vecchio Regolamento Intermediari). A tal proposito, i Giudici osservano che un ente locale deve sapere che “norme regolamentari e voci oltremodo qualificate” relative al presunto valore iniziale di uno swap pari a zero (ivi compreso il Documento Rischi, come specificato nella nota n. 80 a piè di pagina) “devono essere correttamente intese”, nel senso che il concetto di uno swap dal valore nullo al momento della stipula è solo teorico, ed è utilizzato esclusivamente per finalità didattiche.

E’ dunque chiaro che la Corte ritenga che il Documento Rischi generi confusione in merito al valore pari a zero del derivato, invitando il legislatore, non certo gli intermediari, “a porvi rimedio” e interpreti tale Documento Rischi attribuendo a esso una valenza puramente teorica.

I Giudici affermano che un ente pubblico sa, o deve sapere (per scienza propria o derivata da consulenti esterni) che tali “costi impliciti” hanno molto poco a che vedere con l’“occulto”. Sa che i contratti swap par” sono considerati, dalla prassi dei mercati internazionali, inesistenti in rerum natura (quando i contraenti non siano entrambi intermediari finanziari e di pari rating). Sa bene che, dopo aver determinato il livello di prezzo teorico (sulla base del quale il valore attuale delle prestazioni a carico di una parte è equivalente a quello delle prestazioni a carico dell’altra), tale valore è modificato al fine di tenere conto dei costi sostenuti dalla Banca nonché della componente di profitto che l’attività di intermediazione finanziaria richiede.

Gli stessi concetti sono riaffermati in altre parti della sentenza, dove la Corte ad esempio chiarisce come sia del tutto ovvio che nel prezzo della ristrutturazione di uno swap siano compresi “nuovi” costi impliciti. Queste considerazioni sono svolte nuovamente a pagina 306, laddove la Corte osserva che la richiamata procedura di pricing è prassi costante seguita non solo dalle quattro Banche coinvolte nel caso Milano, ma da tutti gli intermediari finanziari sul mercato. “Si tratta di una operazione lecita, che può sorprendere solo il profano mentre è ben conosciuta da chi il mercato lo conosce e lo pratica, che nulla ha a che vedere con la fraudolenta ricerca del profitto ingiusto.

La Corte conclude sul punto affermando che è una tipica caratteristica dei mercati finanziari che gli spread bid/ask nel mercato interbancario siano completamente differenti da quelli applicati tra una banca e un cliente finale.

Può non piacere la Corte conclude ma è certamente così.

6. Il mark-to-market iniziale dello swap non rappresenta un costo

La Corte afferma che – oltre a non essere pari a zero e a essere assolutamente lecito – il mark-to-market iniziale di un derivativo del tipo in questione non rappresenta un costo, ma è piuttosto un valore virtuale.

A tal proposito, la Corte cita nuovamente il caso Pisa7, sostenendo che tale precedente giurisprudenziale ha finalmente risolto (in favore delle Banche) il contrasto interpretativo sviluppatosi sul tema dei costi occulti.

La Corte richiama e cita, dunque, il Consiglio di Stato, il quale ha stabilito che i cosiddetti “costi occulti” non rappresentano un costo effettivo e reale per l’investitore, né un profitto per la banca, “rappresentando soltanto il valore che lo swap avrebbe potuto avere in una astratta ed ipotetica (ma assolutamente irrealistica e non vera) contrattazione”. Infatti non vi è alcun pagamento che una parte effettui all’altra in funzione diretta del markto market, fatti salvi i casi di up front, al momento della stipula dell’operazione.

E’ perciò evidente che la Corte d’Appello di Milano interpreti la sentenza Pisa come una sentenza in cui viene chiaramente affermato non solo che i derivati non hanno un valore mark-to-market iniziale pari a zero; ma anche che, in ogni caso, tale valore non rappresenta un costo per una parte e un profitto per l’altra. La Corte fa anche riferimento alle sentenze della Corte di Cassazione sul caso Messina8 e alle numerose altre pronunce che hanno espresso l’orientamento secondo cui il mark-to-market non è un costo.9

In un successivo passaggio della sentenza, i Giudici notano, poi, che: “forse un po storditi dagli inusuali concetti di mark-to-market e «valore equo» conoscibili solo attraverso formule matematiche che paiono inconoscibili ai più, i giuristi si sono ritirati nellangolo dimenticando che pur sempre di contratti si sta parlando e che le definizioni di PREZZO e di VALORE che sono qui di interesse non vanno cercate nelleconomia dei classici ma nel manuali di diritto privato dove il prezzo è, molto semplicemente, il corrispettivo che un contraente paga allaltro per riceverne la controprestazione da non confondersi con il valore del contratto chè cosa ben diversa”.

In un passaggio ancora successivo, i Giudici notano come, del resto, il diritto e la legge – salva l’eccezionale ipotesi di prezzi calmierati – non intervengano mai a determinare imperativamente né il prezzo dei beni né a verificare che questo coincida perfettamente con il valore teorico dei beni medesimi: esso è semplicemente affidato al mercato e al libero scambio di domanda e offerta.

Infine, è opportuno menzionare che la Corte – trattando dei costi impliciti e del valore iniziale necessariamente “non par” dei derivati – afferma anche che i valori del cap e del floor di un collar swap non possono essere “finanziariamente equivalenti”, e perfino gli esperti nominati dalla Corte di primo grado avevano ritenuto che la struttura collar fosse conforme alle disposizioni dell’articolo 3 del Decreto 389.

7. La questione del conflitto di interessi

Stipulando il contratto di swap con il Comune di Milano, le quattro Banche – già arranger (e, secondo la ricostruzione dei giudici di primo grado e secondo quanto sostenuto dal Comune, advisor per quanto riguarda il bond e la convenienza economica) – sono divenute anche controparti contrattuali del Comune, e ciò le ha poste in un’evidente posizione di conflitto di interessi.

La Corte afferma che ciò che la legge esige in tema di conflitto di interessi è molto semplice, e anche razionale: la legge vuole che un qualsiasi conflitto di interessi non palese sia oggetto d’informativa in forza della regola nota come “disclose or abstain” e cioè a dire: “disvelalo o astieniti” dall’operazione conflittuale, “la quale non è vietata in sé, ovviamente, ma il cliente deve solo essere messo nelle condizioni di conoscere lesistenza del conflitto per poter liberamente decidere se, nonostante questultimo, loperazione proposta valga comunque la pena di intraprenderla oppure no”. Se invece il conflitto è palese e dunque la controparte della Banca è consapevole del ruolo di controparte che la Banca assume, allora non c’è bisogno di ulteriore informativa.

La Corte inoltre menziona la clausola di “non-reliance” contenuta nei contratti derivati ISDA stipulati dal Comune di Milano, in cui le Banche chiaramente affermavano di non essere (e di non voler essere considerate come) advisor del Comune con riferimento ai derivati, attribuendo a tale clausola valore di vincolo contrattuale.

8. Assenza di obblighi di disclosure del mark-to-market iniziale e/o dei cd. costi impliciti

Secondo la sentenza, non vi è nessun obbligo di comunicare il margine o i costi impliciti o il valore del mark-to-market iniziale di un derivato.

L’errore del giudice di prime cure è stato proprio quello di contestare l’omessa indicazione del valore del mark-market, sebbene le norme applicabili impongano solo l’indicazione del prezzo finale del derivato.

La Corte afferma che, all’epoca dei fatti, era certamente legittimo per le Banche incorporare la remunerazione attesa all’interno di uno strumento finanziario quale un contratto Interest Rate Swap come quello in questione, sulla base del meccanismo sopra descritto di bid/ask, ed era anche certamente legittimo non comunicare il profitto atteso. Le Banche non avevano l’obbligo di richiedere commissioni separate né di renderle note.

La Corte ricorda che ciò è previsto all’Articolo 32 del Regolamento Consob n. 11522/1998, comma 5 e 6 (come interpretati alla luce della comunicazione Consob n. 99014081/1999 che tratta dell’informativa nei confronti di clienti al dettaglio). E’ anche importante notare che, in un precedente passaggio della sentenza, riferendosi al caso Pisa, la Corte abbia fatto riferimento alla sentenza del Consiglio di Stato e alle affermazioni ivi contenute, secondo le quali l’assenza di obblighi informativi sui costi impliciti/mark-to-market era un principio valido specie prima dell’entrata in vigore (il 1° novembre 2007) della normativa italiana attuativa della Direttiva MiFID, la quale ha introdotto doveri più stringenti in capo agli intermediari.

La Corte afferma poi che “la trasparenza nella comunicazione non può avere fonte nei desiderata individuali ma solo nella legge”.

9. Valutazioni sistematiche

La sentenza della Corte di Appello di Milano segna davvero uno spartiacque nella lunga storia del contenzioso sui derivati. E il confine che viene marcato è finalmente quello fra le idee e le opinioni, sia pure diverse e talvolta contrapposte, ma tutte basate su una seria valutazione delle norme in gioco e della prassi di mercato, e le prese di posizione che ci hanno accompagnati in questi anni da parte di professionisti e giornalisti, apertamente opportunistiche, se non in assoluta mala fede, dirette al mero fine utilitaristico di cercare fortuna in un mercato potenzialmente molto ampio di supposti operatori vittime della condotta presuntivamente illecita delle banche.

Alla seconda categoria appartiene senz’altro l’idea che si continua a propinare secondo la quale vi sarebbe una regola per cui gli swaps at inception devono obbligatoriamente avere valore zero. Questa tesi, mutuata maldestramente da teorie economiche improvvisate (come giustamente osserva la sentenza commentata), create, si noti, solo in Italia, da economisti rispetto a cui non può non venire il sospetto che abbiano visto l’opportunità che il contenzioso sui derivati improvvisamente offriva, si basa su un vero e proprio mostro giuridico giustamente stigmatizzato dalla decisione in commento. Infatti, alla tesi che i derivati debbano avere valore zero alla sottoscrizione, corrisponde inevitabilmente il corollario che il nostro sistema preveda e giustifichi l’esistenza di un prezzo giusto e di un prezzo sbagliato nell’ambito dei contratti commutativi, corollario che non solo è ovviamente inesistente nel nostro sistema ma che è sconosciuto probabilmente perfino nei paesi del socialismo reale (se ancora ve ne fossero).

Ineccepibilmente la Corte stigmatizza la futilità di questa tesi, facendo riferimento alla memoria di una delle difese che richiama i principi basilari del diritto privato contenuti in un qualunque manuale di diritto civile. Nei contratti commutativi le parti, non il sistema, attribuiscono l’equivalenza al valore delle due prestazioni. Non sussiste alcuna regola che possa invece attribuire in modo oggettivo la qualifica di giusto o di sbagliato al prezzo che viene stabilito. E del resto, è mai pensabile che un contratto possa essere risolto perché ho pagato tanto o poco quello che mi è stato offerto? È possibile risolvere la compravendita di un immobile perché l’acquirente ha pagato più del supposto valore di mercato l’appartamento? La risposta negativa è così ovvia che non possiamo che sorprenderci che per i derivati qualcuno abbia sostenuto una tesi diversa, tesi che, ove fosse fondata, distinguerebbe i derivati non solo dai contratti commutativi in generale, ma anche dai contratti bancari.

E del resto perché, proprio per i contratti derivati, appartenenti alla categoria dei prodotti illiquidi, per i quali manca un prezzo di mercato prontamente rilevabile, sarebbe applicabile una regola estrosa e del tutto fuori sistema? E viene da domandarsi sulla base di quali valori, di quali riferimenti, si dovrebbe stabilire quale sia il prezzo giusto o il prezzo sbagliato, e a chi spetterebbe stabilirlo, posto che la legge, ovviamente, non contiene alcun riferimento di nessun tipo al riguardo. Si pensi alla totale incertezza che una previsione di questo tipo, o meglio un’interpretazione giurisprudenziale di questo tipo, perché non vi è alcuna norma al riguardo, creerebbe nei rapporti contrattuali, sempre suscettibili di una revisione ex postcirca la loro congruità.

La sentenza in esame fa giustizia con verve ed intelligenza, nel solco, come vedremo, della giurisprudenza della Cassazione e del Consiglio di Stato, di questo insieme di teorie improvvisate. Del resto, sappiamo bene come il sistema si interessi alla ragionevolezza delle reciproche prestazioni nei contratti commutativi solo in determinate fattispecie. La rescissione, che richiede però una sproporzione assai significativa delle reciproche prestazioni, la cd. lesione intra dimidium unitamente, si badi bene, allo stato di bisogno o di necessità. L’errore manifesto o i casi patologici, la truffa o l’usura che richiedono però una macroscopica deviazione del negozio dalla ricostruzione sistematica dei contratti commutativi. E infine, ma sono casi di grande interesse teorico, ma di assai limitato uso pratico, le fattispecie in cui il negozio di vendita nasconda invece una donazione10 con un’interessante discussione sulle diverse conseguenze in diritto italiano e in diritto inglese di questa eventualità in termini di causa e consideration.

Il tema del supposto valore zero del derivato, un vero proprio spettro che aleggerebbe, se la tesi avesse avuto un minimo di fondamento, sulle basi stesse del concetto di contratto commutativo nel diritto non solo italiano, ma occidentale, porta con sé alcuni corollari, tutti impietosamente analizzati dalla sentenza in esame.

Il primo è il “Documento Rischi”11 che doveva essere obbligatoriamente distribuito ai clienti retail e agli enti locali, sia retail che non retail. Questo documento, che aveva puramente funzione informativa, e che, mi permetto di dire, nel corso degli anni in cui è stato usato, nessuno aveva mai letto, o che, se venne letto, fu immediatamente riposto nell’archivio delle opere da non ricordare, contiene una improvvida ed erronea affermazione, peraltro del tutto incidentale. Il documento recita Alla stipula del contratto, il valore di uno swap è sempre nullo ma esso può assumere rapidamente un valore negativo (o positivo) a seconda di come si muove il parametro a cui è collegato il contratto.

La Corte giustamente osserva che questa affermazione si riproduce poi tralaticiamente in altri documenti CONSOB e ne riconosce il potenziale effetto dannoso perché capace di indurre in errore. Degli aspetti informativi ci si occuperà successivamente in questa nota. Qui ci interessa rilevare come per i sostenitori del valore zero dello swap, questa comunicazione abbia rappresentato un vero e proprio colpo di fortuna. Inaspettatamente essi hanno trovato un supposto conforto autorevole alla loro non autorevole tesi. Ma è facile rilevare al riguardo, così come fa la stessa sentenza che si commenta, che un documento che ha puro valore informativo, e che non costituisce fonte normativa né di primo né di secondo grado, non può certo avere la forza di sovvertire, perché di sovvertimento si tratterebbe, un sistema che si basa sugli stessi concetti almeno dalla prima codificazione.

Il secondo, più strettamente legato al tema degli enti locali, riguarda invece le previsioni del decreto ministeriale 389/2003 alla luce della Circolare Esplicativa del Ministero dell’Economia e delle Finanze del 27 maggio 2004; anche qui, l’equilibrismo concettuale richiesto per far discendere da queste norme una presunta necessità di un derivato a valore zero è davvero straordinario. Pur se, come è ovvio, il decreto non contiene alcuna previsione circa la supposta equivalenza, tale conclusione la si è voluta trarre dal linguaggio della circolare secondo cui si può vendere floor solo per comprare cap (E implicito nellacquisto del collar lacquisto di un cap e la contestuale vendita di un floor, consentita unicamente al fine di finanziare la protezione dal rialzo dei tassi di interesse fornita dallacquisto del cap). L’artificialità della tesi è palese. Il ministero qui si limita a dire che non posso vendere un floor (che espone l’ente al rischio di pagare più dei tassi di mercato ove questi scendano al di sotto del floor) se non per comprare un cap (che protegge l’ente dai rialzi). Questo è quello che dice la norma, nulla di più. Come sarebbe possibile desumerne un obbligo di equivalenza economica di cap e floor è un mistero. Domandiamoci, come fa la Corte, sulla base di quali criteri si dovrebbe stabilire questa equivalenza. La legge non lo dice. Quale meccanismo si dovrebbe utilizzare per verificare questa equivalenza? La legge tace. Si dovrebbe fare una valutazione pre-contrattuale o post-contrattuale? E cosa succederebbe se l’equivalenza così verificata nel giorno uno scomparisse il giorno successivo, come è normale che sia nei contratti aleatori? Ovviamente nessuna norma fornisce risposta al riguardo semplicemente perché il principio della equivalenza economica delle prestazioni non esiste. Se esistesse, le norme ci avrebbero dato i riferimenti da utilizzare.

Il terzo, infine, sempre legato al tema relativo agli enti locali, ci spinge verso il secondo argomento da trattare, quello degli obblighi informativi, pur senza ancora arrivarci. Si tratta della famosa analisi di convenienza economica ex articolo 41 della Legge n. 448/2001. Secondo alcuni infatti, e fra questi vanno certamente annoverati il Pubblico Ministero, il Giudice di Primo grado ed alcuni dei loro consulenti, l’analisi di convenienza economica non poteva che includere i c.d. costi impliciti, e cioè secondo questa tesi tutte le componenti del prezzo che eccedono il mid market e che appunto in violazione del presunto principio di valore zero degli swaps andrebbero ingiustamente a gravare l’ente. Si tratta in sostanza del mark to market. Torneremo su questo concetto in sede di obblighi informativi, qui rileva sottolineare come la Corte, in linea con le giurisdizioni di legittimità, rigetti in toto questa tesi. Seguendo la linea maestra indicata dal Consiglio di Stato e dalla Cassazione, la Corte conferma che, in primo luogo, il mark to market non è un costo perché nessuno lo paga né nel giorno uno né mai. Si tratta di un valore virtuale che rappresenta il prezzo di mercato del derivato e che in breve, nessuno pagherà mai, se non in caso di risoluzione e in quel caso il valore del mark tmarket potrà essere sostanzialmente differente da quello calcolato nel giorno uno. Essendo dunque una valorizzazione virtuale e non essendo un costo effettivo, non va incluso in nessuna analisi ex articolo 41. Ma la Corte va oltre, e precisa che l’analisi di convenienza economica ex articolo 41 è un onere dell’ente e solo dell’ente e che, giuste o sbagliate che siano, le conseguenze dell’errore, questo la Corte lo dice implicitamente, non possono che rimanere nell’ambito della Pubblica Amministrazione. Non si può insomma sbagliare il calcolo di convenienza economica e pretendere poi di annullare il relativo contratto. Le regole poste dal 41 (incluse quelle relative al calcolo della convenienza economica) sono regole di condotta della PA rispetto a cui la controparte contrattuale si pone come terzo estraneo.

Del resto un’autorevole conferma della irrilevanza del valore iniziale del derivato, giunge ora dall’articolo 45, comma 13 del Decreto Legge n. 66 del 24 aprile 2014, convertito con modificazioni dalla Legge n. 89 del 23 giugno 2014. Tale norma infatti ha introdotto la facoltà per le Regioni di chiudere anticipatamente i derivati esistenti, unitamente al debito a cui si riferiscono, contraendo un finanziamento trentennale dallo Stato e pagando il valore di mercato dei derivati medesimi alla data di chiusura. La legge non prescrive di ridurre questo prezzo, che in caso di mark tmarket negativo viene versato dall’ente alla banca, dell’ipotetico valore del mark tmarket al giorno uno, nell’ipotesi che quel valore non fosse zero. La legge, insomma, prevede semplicemente e coerentemente, la possibilità che i derivati si chiudano secondo il modello naturale previsto dall’ISDA senza alcun aggiustamento, cosa che certamente non sarebbe stata possibile e non sarebbe stata consentita ove vi fosse una prescrizione di legge che imponesse che il mark to market del derivato nel giorno uno fosse zero.

Chiuso il discorso del valore e del prezzo derivato in termini a mio giudizio definitivi, il tema si sposta sugli obblighi informativi, con la precisazione che qui si discute di obblighi informativi pre-MiFID e che successivamente alla comunicazione sui prodotti illiquidi, parte delle conclusioni raggiunte nel caso di specie possono non essere più applicabili.

Al riguardo la sentenza in esame si pone nel solco della precedente decisione del Consiglio di Stato e certamente in linea difforme alle recenti sentenze12 che identificano nella mancata comunicazione circa i presunti costi impliciti addirittura una carenza della causa del contratto o comunque un inadempimento grave nella mancata informazione circa i presunti costi impliciti.

Questa seconda linea di pensiero è a mio giudizio profondamente criticabile, e di converso l’orientamento espresso dalla Corte di Appello di Milano va condiviso in pieno, per una serie di motivi che devono purtroppo partire dalla constatazione che dietro la tesi opposta si nasconda o una cattiva comprensione, davvero cattiva, del funzionamento dei contratti derivati, o un’astuta strategia forense che effettivamente qualche frutto ha dato sulla scorta degli scossoni emotivi provocati dalle inchieste giornalistiche sul tema.

A mio giudizio, ai fini della piena comprensione della questione, è necessario partire da tre considerazioni. La prima, con la quale va sgombrato il campo dall’equivoco più ingombrante è che i costi impliciti non sono affatto un onere che la controparte paga in aggiunta al prezzo pattuito nel contratto derivato. Non si tratta di gravami che si aggiungono subdolamente alle previsioni del contratto. Il contraente paga solo e soltanto quello che prevede il contratto. Nel caso di un IRS (Interest Rate Swap) con collar ad esempio, il cliente pagherà solo e soltanto il floor, se i tassi scendono al di sotto del floor, il cap se i tassi lo eccedono, e una floating rate espressamente identificata in contratto nelle altre ipotesi. Non c’è nulla di più, e su questo non possono esservi voci discordanti, fatta eccezione ovviamente per casi, davvero poco plausibili, di vera e propria truffa.

Partendo da questa prima osservazione se ne può fare una seconda. I contratti derivati non differiscono in nulla da altri servizi bancari in cui la banca operi quale controparte. E allora, poniamoci di fronte ad un’altra di queste operazioni, ad esempio un mutuo immobiliare. E’ stato mai sostenuto che in questo contratto la banca abbia un obbligo di scomporre il tasso praticato al cliente indicando separatamente le varie voci, incluso il profitto, che hanno concorso a formare quel tasso? E conversamente, esiste un interesse del cliente ad avere questa informazione o non è invece per lui rilevante solo ed esclusivamente il tasso che effettivamente dovrà sborsare a ogni scadenza? La risposta negativa a entrambe le domande sembra ovvia, ed allora resta da domandarsi perché per i contratti derivati l’analisi debba raggiungere a risultati diversi. Non certo perché nei contratti derivati, e nemmeno in tutti, vi è uno scambio di flussi costante, mentre nel mutuo il pagamento proviene dalla sola controparte, perché quel pagamento non è altro che il corrispettivo per una prestazione già eseguita (la dazione anticipata del capitale).

Infine la terza: la tesi che impone un particolare obbligo informativo il cui inadempimento inciderebbe addirittura sulla causa del contratto, e in un recente stravagante lodo arbitrale13 nientemeno che sul suo oggetto, si richiama a una classificazione del derivato quale “scommessa autorizzata” che francamente appare ormai obsoleta. Le parti, nei derivati di copertura, stipulano l’accordo proprio per il motivo opposto a quello della scommessa, e cioè per ridurre i propri rischi, non per aumentarli, e del resto le banche, nel gestire la propria esposizione in derivati tendono proprio a perseguire l’hedging della propria esposizione complessiva in modo da approssimarsi quanto più possibile ad una totale eliminazione del rischio, finalità del tutto opposta a quella tipica dello scommettitore.

Del resto, ridurre il mercato dei derivati, il mercato finanziario più sviluppato del mondo per dimensioni, a un’enorme struttura del lotto appare davvero un’interpretazione riduttiva e per certi versi ridicola e che sembra completamente mancare il senso complessivo della struttura finanziaria in questione. E’ qui opportuno richiamare ancora una volta la giurisprudenza della Cassazione che già da tempo ha escluso che il derivato possa essere definito come una scommessa legale.14 Anche perché questa ricostruzione della struttura del derivato quale scommessa lecita e le supposte conseguenze della mancata completa indicazione delle alee, conducono a risultati davvero paradossali. Anche il Lotto è una scommessa lecita, ma certamente al contraente non sono resi noti tutti i termini dell’alea. Se ne dovrebbe dunque dedurre che il negozio sarebbe nullo, con la conseguenza da un lato che il giocatore potrebbe ottenere la restituzione della giocata, ma soprattutto che il Lotto potrebbe rifiutarsi, sulla base della invalidità del contratto, di versare le vincite.15

Non è intenzione discutere qui dei profili, a mio giudizio davvero sorprendenti, dell’orientamento che si critica, che ignorando una giurisprudenza di Cassazione16 ormai consolidata, sostiene che dalla violazione di obblighi informativi possa derivare l’invalidità del contratto; si intende qui commentare invece il principio espresso dalla Corte di Appello che non vi era, almeno prima della riforma MiFID, e per certi versi ancora non vi è per ciò che riguarda il mark to market iniziale, alcun obbligo di fornire al cliente le componenti del prezzo, ma solo il prezzo a cui la banca intende effettuare l’operazione in tutte le ipotesi in cui la banca operi quale controparte.

In due occasioni la CONSOB17 nel regime pre-MiFID chiarì, e si noti in una occasione a fronte della richiesta di un’associazione di consumatori e non certo di un operatore qualificato, che l’intermediario, quando opera come controparte deve comunicare al cliente il prezzo e non già scomporre quest’ultimo nelle sue varie componenti. Del resto, che la CONSOB si riferisse agli obblighi informativi nei confronti del mercato retail, emerge chiaramente dal fatto che il riferimento normativo da essa utilizzato per raggiungere la conclusione che si discute, è quello dell’art. 32 applicabile, come noto, esclusivamente ai clienti non professionali. Il punto è di una chiarezza lampante e non vi è davvero spazio per incertezze di alcun tipo.

E del resto, quale potrebbe essere l’interesse del cliente a conoscere le modalità con cui il prezzo è venuto a comporsi, quando ciò che rileva è solo e unicamente il prezzo che egli pagherà nel corso del rapporto in dipendenza della variazioni dei tassi? La scomposizione del prezzo è tuttora, ma certamente era allora, un’informazione del tutto inutile. Non si tratta come erroneamente sostiene la giurisprudenza che si critica, di ricevere tutte le informazioni necessarie per compiere una scommessa consapevole, ma semplicemente di sapere quanto si pagherà in occasione di ogni data di pagamento, in funzione delle variazioni del tasso. Questa è l’informazione di cui il cliente ha bisogno e solo di questa deve, o doveva, essere reso edotto.

Né è vero che l’informazione circa il mark to market sarebbe rilevante in quanto, come si sostiene con tanta approssimazione, rappresenterebbe la migliore proiezione della futura curva dei tassi. Qualunque economista non affetto da conflitti di interessi in questa materia, potrebbe confermare che il mark tmarket, quando riferito ad un derivato che includa componenti opzionali, come il collar, non è affatto la rappresentazione della futura curva ma meramente il valore di mercato del derivato stesso. Come è ovvio, invece, la migliore indicazione disponibile in un dato momento della curva futura dei tassi è data dalla curva forward. E quella curva, quasi immancabilmente è stata fornita dalle banche agli enti locali (e normalmente ai clienti privati) prima della stipula di qualunque derivato.

Non vi era alcuna altra regola di condotta per gli intermediari che imponesse un obbligo di natura diversa. Certamente gli operatori dovevano spiegare il prodotto al cliente, indicandone il profilo di rischio e l’esposizione alle future fluttuazioni, ma nessuna norma imponeva e impone di fornire un’indicazione del valore iniziale del mark to market, valore, come lucidamente rilevato dalla Corte di Cassazione, solo virtuale ed indicativo esclusivamente del costo che deve essere corrisposto da una parte all’altra in caso di risoluzione anticipata del contratto. Tale valore peraltro è un valore soggetto a variazioni giornaliere anche sostanziali, ed è dunque privo di qualunque affidabilità perfino nel breve periodo.

Ragionando per similitudine, allora, è stato mai sostenuto che le banche dovessero fare al momento della stipulazione di un contratto (ad esempio di un contratto di mutuo) la disclosure al cliente del costo di risoluzione anticipata dello stesso, nell’ipotesi in cui il cliente volesse in futuro risolvere anticipatamente tale contratto? Ovviamente no, a meno che il contratto non preveda una penale forfettaria per la chiusura, nessuno mai sosterrebbe l’esistenza di un obbligo di questo tipo a carico dell’intermediario, così come nessuno ha mai sostenuto che fra gli elementi essenziali del contratto vi sia l’indicazione dei danni che un contraente debba versare all’altro in caso di inadempimento.

Sempre in materia di obblighi informativi, la decisione, riprendendo quanto già sostenuto dal Consiglio di Stato nella più volte citata sentenza del caso. Pisa, sottolinea come, a prescindere dalla natura professionale o retail dell’ente locale esista un obbligo, prima morale che giuridico, da parte degli amministratori che gestiscono denaro pubblico, di acquisire sufficienti informazioni sulla struttura del contratto che firmano, sui rischi ad esso relativi sulle potenziali ripercussioni dello stesso sulle finanze futura nei diversi scenari, non essendo loro consentito di rifugiarsi, come nel caso di Milano, ma non solo, in imbarazzanti dichiarazioni di completa ignoranza e totale incompetenza, che oltre ad apparire ovviamente strumentali alla propria strategia processuale, farebbero, come rilevato dalla decisione, davvero propendere per l’avvio di un giudizio di responsabilità da parte della Corte dei Conti nei loro confronti.

La ricostruzione proposta dalla Corte di Appello è dunque lineare anche per questo profilo, escludendo in radice l’esistenza di obblighi informativi diversi da quelli che le norme, e il senso comune, imponevano all’epoca. Inutile provare a sostenere, come si è ripetutamente fatto, che la sentenza in commento abbia una valenza esclusivamente penale e che quindi vada letta e ponderata solo in questa chiave. La sentenza, al contrario va volutamente ben oltre, e allo scopo di sostenere in maniera convincente e completa l’assoluzione degli imputati con la formula piena, si spinge ben al di là dei confini dell’analisi delle norme penalistiche rilevanti per sistemizzare e dare una chiave interpretativa completa ed esauriente ad alcuni temi di fondo relativi alla normativa finanziaria e civilistica, raggiungendo risultati e conclusioni che non potranno essere ignorati nella futura casistica, che si preannuncia ancora assai numerosa, legata al contenzioso sui contratti derivati.

1

Sentenza della Corte d’Appello di Milano, n. 1937 del 3 giugno 2014.

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2

Tale dibattito sembra per molti aspetti, sia pure per motivi opposti, simile a quello sulla Nazionale di calcio. Come si sa, tutti gli Italiani hanno giocato a calcio e quindi si sentono autorizzati a fare il CT della Nazionale. Per ciò che riguarda i derivati, quasi nessuno ha mai visto in concreto un contratto di Interest Rate Swap o ancor meno un Credit Default Swap, anche per la complessità dell’architettura contrattuale dell’ISDA (Master Agreement, Schedule, Confirmations) e per la scarsa dimestichezza con l’Inglese di molti operatori. Tuttavia, proprio perché quasi nessuno ne sa qualcosa, tutti si sono sentiti autorizzati a parlarne.

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3

Si ringrazia l’avv. Sara Cerrone per il contributo fornito per la redazione di questo articolo e per l’analisi approfondita della sentenza in questione.

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4

Sentenza del Consiglio di Stato, Sez. V, n. 5962 del27 novembre 2012.

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5

Chiarimenti del Ministero dell’Economia e delle Finanze al Comune di Ferrara, Prot: DT 78624 del 7 ottobre 2011; Circolare del Ministero dell’Economia e delle Finanze n. 63013 del 22 giugno 2007; Circolare del Ministero dell’Economia e delle Finanze, Dipartimento del Tesoro, esplicativa del predetto Decreto MEF n. 389/2003, del 27 maggio 2004.

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6

Documento sui rischi generali degli investimenti in strumenti finanziari, Allegato 3 al Regolamento Consob n. 11522 del 1° luglio 1998.

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7

Sentenza del Consiglio di Stato, Sez. V, n. 5962 del 27 novembre 2012.

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8

Sentenza della Corte di Cassazione, Sez. II penale, n. 47421 del 21 dicembre 2011.

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9

Si veda anche: Sentenza della Corte di Cassazione, n. 25516 del 14 giugno 2012; Sentenza del Tribunale Ordinario di Milano, Sez. Civ. VI, del 23 giugno 2014; Provvedimento di archiviazione del Tribunale di Lecco del 15 gennaio 2014; Ordinanza del Tribunale di Terni dell’8 febbraio 2012; Ordinanza del Tribunale di Messina del 23 giugno 2011.

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10

Si veda: GORLA G., Il contratto, Giuffrè, 1955.

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11

Documento sui rischi generali degli investimenti in strumenti finanziari, Allegato 3 al Regolamento Consob n. 11522 del 1° luglio 1998.

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12

Si veda, per tutte: Sentenza del Tribunale Ordinario di Torino, Sez. Civ. I,del 17 gennaio 2014.

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13

Lodo Deutsche Bank/TAU Metalli del 4 luglio 2012, attualmente impugnato presso la Corte D’Appello di Milano.

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14

Si vedano, per tutte, Sentenza della Corte di Cassazione, n. 26724 del 19 dicembre 2007; Sentenza della Corte di Cassazione, n. 26725 del 19 dicembre 2007.

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15

Ancora più stupefacente la tesi, di recente formulata da M. Barcellona, su Contratto e Impresa, maggio 2014, secondo cui i derivati speculativi, o anche più generalmente i derivati che non indichino esplicitamente una funzione di copertura sarebbero soggetti nientemeno che all’eccezione di irripetibilità ex articolo 1933 c.c. ignorando così (non nel senso che non venga menzionata nell’articolo, ma ignorandola ai fini sistematici) le previsioni del Testo Unico che non distinguono fra derivati speculativi o di copertura ed escludono categoricamente l’applicabilità del 1933 c.c. Questa tesi, naturalmente, avrebbe il pregio di determinare come effetto primario il fallimento di tutti gli istituti bancari italiani che operano sulla base del netting e della ovvia esigibilità delle prestazioni reciproche nei contratti derivati, gettando peraltro nel panico l’intero sistema visto che è assai difficile, soprattutto nell’operatività degli istituti di credito, ma anche dei corporates di maggiori dimensioni, distinguere fra derivati speculativi e non speculativi posto che l’intento di copertura si raggiunge spesso a livello globale piuttosto che sulla singole transazione e posto che spesso la finalità di copertura si persegue anticipatamente, prima cioè dell’acquisto del rapporto sottostante. Questa impostazione ovviamente trascura interamente questi profili e non si domanda, nell’ipotesi lì sostenuta, se il contratto derivato debba necessariamente avere una finalità di copertura effettiva (per entrambe le parti? O solo per una?), in che cosa si distinguerebbe la causa del contratto derivato da quella del contratto di assicurazione, con il risultato che le banche non potrebbero più operare su questo mercato.

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16

Si vedano, per tutte: Sentenza della Corte di Cassazione, n. 26724 del 19 dicembre 2007; Sentenza della Corte di Cassazione, n. 26725 del 19 dicembre 2007, citate in nota 14.

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17

Comunicazione Consob n. 99014081 del 1° marzo 1999; Comunicazione n. DAL/97007264 del 20 agosto 1997.

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