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Giurisprudenza

Accollo non liberatorio e ingiunzione di pagamento del debito di mutuo residuo

8 Aprile 2013

Avv. Filippo Maria De Stefano Grigis

Tribunale di Monza, Sez. III, 30 novembre 2012

Di cosa si parla in questo articolo

Massima

In caso di accollo non liberatorio, il debitore originario può essere ingiunto di pagare il debito di mutuo residuo; per la quota interessi conglobata nelle rate scadute e non pagate, il medesimo non può invocare la prescrizione di cui all’art. 2948, comma 4, cod. civ.; non è, invece, tenuto a pagare la quota interessi conglobata nelle rate a scadere; ove, poi, il calcolo degli interessi operato dal creditore procedente sia errato, il debitore può opporsi all’esecuzione, facendo valere che è intimato il pagamento di una somma superiore a a quella effettivamente dovuta.

Commento

La sentenza prende le mosse da una compravendita immobiliare tra un privato ed un’impresa costruttrice, che aveva, a suo tempo, contratto un mutuo fondiario, ancora sotto la vigenza del RDL n. 646/1905. In sede di compravendita parte acquirente si era accollata il mutuo pro quota, la Banca aveva aderito all’accollo, ma senza espressa liberazione del debitore originario. Il privato non era stato più in grado di sostenere il mutuo, cosicché la Banca aveva pignorato il bene, ma era rimasta solo parzialmente soddisfatta dal prezzo di aggiudicazione. La Banca aveva, quindi, agito per il residuo credito anche nei confronti dell’impresa costruttrice, che, però, si era opposta al precetto, argomentando: 1) la carenza di legittimazione passiva; 2) la prescrizione del diritto agli interessi exart. 2948, comma 4, cod. civ.; 3) l’eccessivo ammontare dell’importo precettato.

La prima argomentazione è alquanto pretestuosa, e per questo basta leggere l’art. 1273, commi 2 e 3, cod. civ., che recitano: “L’adesione del creditore importa liberazione del debitore originario solo se ciò costituisce condizione espressa della stipulazione o se il creditore dichiara espressamente di liberarlo. Se non vi è liberazione del debitore, questi rimane obbligato in solido con il terzo”. Il Tribunale ha, quindi, buon gioco a richiamare la citata norma e, stante l’assenza di espressa liberazione del debitore originario, a dichiararlo ancora solidalmente obbligato. Qui, purtroppo, sta la superficialità di diversi costruttori che, dopo avere contratto il mutuo fondiario a SAL con la Banca per costruire, vendono i singoli appartamenti con accollo pro quotadel mutuo, ma non si preoccupano che la Banca, nell’aderire all’accollo (rendendolo irrevocabile a proprio favore exart. 1273, comma 1, cit.), dichiari espressamente di liberarli da qualunque obbligazione per la quota di mutuo accollata. La Banca, certo, non lo fa spontaneamente. Dovrebbe, quindi, essere l’imprenditore, adeguatamente assistito sul piano legale, a chiedere tale dichiarazione. E’ una semplice frase, ma che pone al riparo da spiacevoli situazioni, che possono sopraggiungere anche a distanza di anni, specie in fasi economiche in cui – come quella attuale – i prezzi di aggiudicazione degli immobili precipitano al ribasso, sicchè il creditore fondiario rischia di essere soddisfatto solo parzialmente e, quindi, di dover agire per la parte di credito non soddisfatta, sfruttando ogni piega del contratto di mutuo, anche una apparente svista.

La seconda argomentazione può apparire insidiosa, ma la giurisprudenza di legittimità è ormai costante nell’escludere l’applicabilità del termine quinquennale di prescrizione degli interessi alle quote interessi conglobate nelle rate di mutuo scadute e non pagate. E ciò non per un favor nei confronti delle Banche, bensì sulla scorta del tenore letterale della norma, che recita: “Si prescrivono in cinque anni[…] 4) gli interessi e, in generale, tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi”. Come recita la sentenza: “[…] resta esclusa dalla previsione della citata norma l’ipotesi di debito unico, rateizzato in più versamenti periodici. La prescrizione quinquennale non si applica, quindi, ai ratei di mutuo fondiario ed ai relativi interessi, non trattandosi di prestazioni periodiche dovute ad un’unica causa continuativa, bensì degli adempimenti parziali dell’unico debito derivante da mutuo”. E’ lo stesso ragionamento del Supremo Collegio, che si rintraccia, a puro titolo esemplificativo, in Cass. civ. Sez. III, 30.08.2002, n. 12707.

La terza argomentazione è, invece, quella che merita migliore attenzione. La Banca aveva calcolato il debito residuo non soddisfatto in questo modo: fatto cento il debito complessivo, aveva dedotto l’importo del prezzo di aggiudicazione ed intimato al debitore originario il pagamento della differenza. Ma il punto era come la Banca avesse conteggiato il debito complessivo, ed in particolare se, una volta risolto il contratto, avesse o meno calcolato gli interessi di mora anche sulla quota interessi inclusa nelle rate a scadere, vale a dire quelle non ancora scadute alla data della risoluzione. Il Tribunale ha aderito all’orientamento espresso dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite nel 2008, allorquando, dovendo affrontare la questione per un contratto stipulato sotto la vigenza del quadro normativo anteriore al TUB, aveva statuito, innanzitutto, che si trattava di risoluzione del contratto di mutuo e così aveva concluso: “Posto, allora, che il contratto di mutuo costituisce un contratto di durata, rispetto al quale la risoluzione opera per il futuro determinando l’anticipata scadenza dell’obbligazione di rimborso del capitale, resta ferma, in caso di ritardo nel pagamento, l’applicabilità degli interessi di mora al tasso convenuto ex art. 1224 c.c., ma va escluso il riconoscimento dei medesimi interessi su quella parte delle rate a scadere che comprende, oltre alla quota capitale, anche gli interessi corrispettivi, non potendo operare l’anatocismo legale previsto dal D.P.R. n. 7 del 1976, art. 14.4.” (Cass. civ. SS.UU. 19.05.2008, n. 12639). In particolare, aveva sottolineato il Supremo Collegio che il meccanismo anatocistico costituisce un “corollario” del beneficio della rateizzazione del debito di restituzione, e che, di conseguenza, venendo meno il predetto beneficio, non può che venir meno anche il corollario del meccanismo anatocistico. Ciò detto, nel caso che ci occupa gli interessi erano stati (presumibilmente) ricalcolati in sede di opposizione a precetto grazie a CTU, riducendo, infine, l’importo precettato. Che ciò possa avvenire anche nella predetta sede non deve destare perplessità, perché, se è vero che nell’opposizione a precetto si contesta il diritto del creditore a procedere ad esecuzione forzata, è altrettanto vero che – come chiarito da Cass. civ., Sez. III, Sent., 05.05.2009, n. 10295 – “Ogni contestazione che riguardi lo schema di calcolo degli interessi seguito dal creditore procedente e, quindi, il loro ammontare da quest’ultimo preteso nell’atto di precetto, in quanto investe circostanze che non trovano riscontro nelle statuizioni della sentenza costituente titolo esecutivo, deve essere conseguentemente fatta valere non già mediante i mezzi ordinari d’impugnazione della sentenza suddetta, bensì con il rimedio dell’opposizione all’esecuzione ai sensi dell’art. 615 c.p.c.”. Nel caso di specie, il Tribunale, investito dei poteri di cognizione ordinaria a seguito dell’opposizione, ha rideterminato la quantità del credito dovuta, riducendo il precetto nel limite di tale quantità.

A margine della sentenza in commento, è interessante annotare ancora qualcosa in merito alla succitata pronuncia del Supremo Collegio a SS.UU., nella quale si rileva che, anche laddove il codice di procedura civile (art. 585, comma 2, c.p.c.) consente all’aggiudicatario di “assumersi un debito garantito da ipoteca”, comunque, si è già verificata una soluzione di continuità “rispetto al rapporto contrattuale precedente, destinato in tal caso ad essere ripristinato in capo all’aggiudicatario […] senza affatto necessariamente implicare che quel rapporto era ancora in atto tra le parti originarie”. A tal proposito, mi permetto di osservare che, se si verifica – come si verifica – una soluzione di continuità, non si tratta allora di “ripristinare” il mutuo in capo all’aggiudicatario, bensì – come scritto nella norma – di assunzione del debito da parte dell’aggiudicatario. Che, poi, a questa assunzione corrisponda, a livello di tecnica bancaria, la reviviscenza del precedente piano di ammortamento, è ben possibile; ma, sul piano giuridico, sarà necessaria una nuova manifestazione di volontà contrattuale da parte sia della Banca sia dell’aggiudicatario, nella quale si potranno stabilire anche condizioni diverse da quelle previste nel preesistente contratto di mutuo.

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