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Approfondimenti

Le vicende soggettive dell’impresa e la partecipazione alle gare di appalto: la cessione di ramo di azienda

21 Aprile 2015

Avv. Antonio Matarrese, Partner, Loconte & Partners

Di cosa si parla in questo articolo

La partecipazione ad una gara d’appalto per una azienda rappresenta un’opportunità di guadagno e di crescita tanto importante quanto impervia: infatti, è a tutti nota la complessità dei requisiti che l’azienda che voglia partecipare ad una selezione pubblica deve possedere e, a fronte di questa complessità, è sempre più avvertita la necessità di conoscere compiutamente le caratteristiche che si devono possedere per aggiudicarsi l’appalto.

In particolare, nel presente contributo, si analizzerà l’incidenza della scelta dell’impresa di cedere un ramo di azienda sulla possibilità di partecipare alle gare d’appalto, sulla scorta delle più recenti pronunce giurisprudenziali.

Nell’ipotesi in cui l’imprenditore ceda una parte di una azienda ad un altro soggetto, sorge infatti il problema relativo alla presenza dei requisiti di rodine generale di cui all’art. 38 del D.lgs. n. 163/2006 (Codice degli Appalti)[1], che ci si chiede se debbano essere posseduti solo dalla azienda cedente o anche dalla azienda ceduta.

Ricordando che l’azienda è il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa, la cessione può riguardare l’intera azienda o più aziende possedute dallo stesso imprenditore, ovvero un solo ramo dell’azienda; ed è quest’ultima l’ipotesi più particolare che merita un approfondimento.

Quando la cessione riguarda una parte del complesso aziendale è necessario che questa sia un’entità economica organizzata in maniera stabile, che quindi, anche dopo il trasferimento, conservi la sua identità e consenta il perseguimento di uno specifico obiettivo.    

Infatti, presupposto della cessione del ramo d’azienda è che la parte ceduta sia una entità produttiva autonoma, capace di far fronte ai contratti con la clientela che siano stati ceduti (fatta eccezione per quelli di carattere personale), alla gestione ed al mantenimento del personale (che continua a lavorare per il nuovo titolare) ed ai debiti e crediti che vengono trasferiti[2].

Con la cessione di ramo d’azienda, dunque, si crea un corpo autonomo ed indipendente – almeno in teoria – che non dovrebbe più avere alcuna incidenza sulla parte restante dell’azienda: è necessario che il ramo oggetto della cessione risulti funzionalmente indipendente, come una sorta di piccola azienda in grado di operare autonomamente, la quale, in occasione del trasferimento, conservi la sua identità, che presuppone una realtà produttiva funzionalmente esistente, non integrata da una struttura produttiva creata ad hoc in occasione del trasferimento o come tale identificata dalle parti del negozio traslativo[3].

In verità, si deve riconoscere che molto spesso il meccanismo della cessione di ramo d’azienda è funzionale ad eludere la normativa lavoristica e – quella oggetto di analisi – la normativa in materia di requisiti di partecipazione alle gare d’appalto: non sempre, infatti, il ramo ceduto è funzionalmente autonomo e indipendente dalla cedente, la quale potrebbe utilizzare questo istituto per “ripulire” la propria azienda.

In materia di requisiti di partecipazione alle gare d’appalto, l’art. 38 del D.lgs. n. 163/2006 descrive una serie di preclusioni soggettive: in particolare, sono esclusi dalla partecipazione i soggetti che si trovino in stato di fallimento, di liquidazione coatta, concordato preventivo o per i quali si sia aperta una di queste procedure; nei cui confronti è pendente procedimento per l’applicazione della misura di prevenzione della sorveglianza della pubblica sicurezza o di una misura ad essa correlata; i soggetti nei cui confronti è stata pronunciata sentenza di condanna passata in giudicato, o emesso decreto penale di condanna divenuto irrevocabile, oppure sentenza di applicazione della pena su richiesta, per reati gravi in danno dello Stato o della Comunità che incidono sulla moralità professionale o comunque che abbia ad oggetto uno o più reati di partecipazione a un’organizzazione criminale, corruzione, frode, riciclaggio, anche rispetto ai soggetti cessati dalla carica nell’anno antecedente la data di pubblicazione del bando di gara, qualora l’impresa non dimostri che vi sia stata completa ed effettiva dissociazione della condotta penalmente sanzionata; i soggetti che hanno commesso gravi infrazioni – debitamente accertate – alle norme in materia di sicurezza, alla normativa del lavoro, ovvero abbiano commesso grave negligenza o malafede nell’esecuzione delle prestazioni affidate dalla stazione appaltante che bandisce la gara o un errore grave nell’esercizio della loro attività professionale, anche in relazione alla disciplina fiscale e previdenziale.

Come è evidente, le cause di esclusione concernono requisiti soggettivi la cui sussistenza incide sull’affidabilità e sulla serietà dei soggetti che potranno essere aggiudicatari di un appalto pubblico, anche al fine di evitare ingerenze di associazioni criminali nella gestione della cosa pubblica.

Il quesito che si è posto, quindi, è rispetto all’ampiezza del raggio di copertura dei requisiti ex art. 38 cit. in caso di vicende soggettive (modificative) dell’impresa ed, in particolare, nel caso di cessione di ramo d’azienda, sia essa precedente la pubblicazione del bando che successiva.

Nel primo caso (cessione antecedente la pubblicazione del bando) l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato[4] ha chiarito la fattispecie, che aveva generato più di un contrasto in giurisprudenza: una prima tesi sosteneva che la dichiarazione resa dall’impresa concorrente sui requisiti morali dovesse essere espressamente riferita anche agli amministratori e ai direttori tecnici di un’impresa estranea alla gara, dalla quale la partecipante avesse acquisito il ramo di azienda prima della partecipazione alla gara medesima, in base al presupposto che i requisiti soggettivi negativi propri dell’impresa cedente si trasmettano all’impresa cessionaria[5].

Un opposto indirizzo riteneva, invece, che non potesse essere esclusa dalla gara d’appalto, prima della partecipazione alla selezione, l’impresa cessionaria che non avesse presentato le dichiarazioni sulla moralità professionale relative ai requisiti soggettivi della cedente riferita sia agli amministratori e direttori tecnici, in quanto l’art. 38 D.Lgs. n. 163/2006, richiede il possesso e la dimostrazione dei requisiti generali solo in capo al soggetto concorrente[6].

A fronte di queste opposte interpretazioni, la suddetta Adunanza Plenaria ha operato una ricostruzione che, nelle sue conclusioni, non solo accoglie il primo degli orientamenti richiamati ma va ben oltre. E’ stato chiarito infatti che, coordinando il principio di tipicità e tassatività delle cause di esclusione con la necessità di evitare l’utilizzo di strumenti elusivi del principio che impone che il possesso dei requisiti di moralità sia effettivo in capo a tutti i concorrenti, è necessario addossare al cessionario la responsabilità per le condotte degli amministratori dell’impresa cedente.

Il cessionario, infatti, può comprovare “che la cessione si è svolta secondo una linea di discontinuità rispetto alla precedente gestione, tale da escludere alcuna influenza dei comportamenti degli amministratori e direttori tecnici della cedente”[7], tale da escludere la necessità di dette dichiarazioni da parte del soggetto cedente.

Il Consiglio di Stato ha chiarito che: “resta altresì fermo – tenuto anche conto della non univocità delle norme circa l’onere del cessionario – che in caso di mancata presentazione della dichiarazione e sempre che il bando non contenga al riguardo una espressa comminatoria di esclusione, quest’ultima potrà essere disposta soltanto là dove sia effettivamente riscontrabile l’assenza del requisito in questione”.

Si può, dunque, affermare che nel caso in cui l’impresa ceda un ramo d’azienda e quest’ultimo intenda partecipare ad una gara d’appalto, l’azienda ceduta sarà soggetta all’onere di dimostrare i requisiti di cui all’art. 38 cit. anche in capo all’impresa cedente, sempre che non dimostri l’effettiva discontinuità tra le due gestioni.

Un’ipotesi particolare di vicenda soggettiva dell’impresa attiene alla cessione di ramo d’azienda effettuata nell’ambito di un concordato preventivo per cessione di beni: in questo caso si può più agevolmente evidenziare quell’aspetto di discontinuità che non impone la dimostrazione dei requisiti anche in capo alla cedente, dato che nell’ammissione al concordato v’è l’oggettiva impossibilità per l’imprenditore di compiere attività straordinarie se non previa autorizzazione del giudice delegato e v’è, inoltre, la presenza di stringenti controlli anche per l’amministrazione e la gestione ordinaria dell’impresa.

Altra ipotesi attiene alla cessione di ramo d’azienda dopo la pubblicazione del bando di gara ed in corso di partecipazione alla stessa: questa fattispecie è disciplinata dall’art. 51 del D.Lgs. n. 163/2006, secondo il quale: “qualora i candidati o i concorrenti, singoli, associati o consorziati, cedano, affittino l’azienda o un ramo d’azienda, ovvero procedano alla trasformazione, fusione o scissione della società, il cessionario, l’affittuario, ovvero il soggetto risultante dall’avvenuta trasformazione, fusione o scissione, sono ammessi alla gara, all’’aggiudicazione, alla stipulazione, previo accertamento sia dei requisiti di ordine generale, sia di ordine speciale, nonché dei requisiti necessari in base agli eventuali criteri selettivi utilizzati dalla stazione appaltante ai sensi dell’articolo 62, anche in ragione della cessione, della locazione, della fusione, della scissione e della trasformazione previsti dal presente codice”.

Tra i requisiti di ordine generale troviamo i requisiti soggettivi di cui all’art. 38 cit. che, dunque, essendo già stati dimostrati dalla azienda “madre” (la cedente originaria partecipante alla gara) dovranno essere dimostrati anche dal soggetto risultante dalla avvenuta cessione.

La ratio di tale disposizione, in linea con le conclusioni a cui è addivenuta l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato per la cessione di ramo d’azienda precedente la pubblicazione del bando, è quella di impedire che le vicende modificative ivi contemplate, che si verifichino nel corso del procedimento, possano tradursi in automatiche cause di esclusione, a ciò ostando il principio – di derivazione comunitaria – di massima libertà di organizzazione delle imprese fermo il limite a tale facoltà nella necessità, posta dal diritto interno, di tutelare l’esigenza delle stazioni appaltanti di ammettere o mantenere all’interno dei procedimenti di selezione dei propri contraenti solo chi, a seguito delle richiamate vicende modificative, si trovi comunque in possesso delle necessarie condizioni soggettive generali e speciali di partecipazione.

In altri termini, “La disposizione mira, nella sostanza, ad evitare che l’amministrazione aggiudicatrice concluda il contratto con operatori economici che non abbiano partecipato alla gara e nei confronti dei quali non sia stata effettuata la verifica del possesso dei requisiti di ordine generale e di ordine tecnico ed economico-finanziario”[8]; “Naturalmente, la rilevanza della vicenda modificativa nell’ambito del procedimento di gara impone al soggetto interessato di rappresentarla alla stazione appaltante, in modo da attivare la necessaria verifica del complesso dei requisiti di partecipazione (cfr. T.A.R. Campania, Sez. I, 24 marzo 2010, n. 1609). In definitiva, in caso di trasferimento di azienda, l’ammissione del subentrante è subordinata a due sole condizioni, ossia che l’atto di cessione sia comunicato alla stazione appaltante e che questa abbia verificato l’idoneità soggettiva ed oggettiva del cessionario (cfr. T.A.R. Reggio Calabria, sez. I, 18.6.2013, n. 427)”[9].

In conclusione, può affermarsi che l’azienda che voglia efficacemente prendere parte ad una gara di appalto pubblica non deve considerarsi limitata nella sua libertà di organizzazione dell’impresa ma, ove opti per il meccanismo della cessione di ramo d’azienda (come per altre opzioni che modifichino l’assetto soggettivo dell’impresa), sarà tenuta a “rassicurare” la stazione appaltante sull’affidabilità e sulla serietà del soggetto cedente – come del ceduto -, sia ove la cessione avvenga in corso di partecipazione alla gara d’appalto, sia ove la cessione sia effettuata prima della pubblicazione del bando a cui si intende partecipare, ferma la possibilità di evitare tali dichiarazioni a fronte della piena dimostrazione dell’indipendenza dei due centri soggettivi.

 


[1] L’art. 38 del D.Lgs. n. 163/2006 disciplina i “Requisiti di ordine generale” e si trova all’interno del Capo II – Titolo I Seconda Parte del Codice degli Appalti, intitolato “Requisiti dei partecipanti alle procedure di affidamento”. I “Requisiti di idoneità professionale” sono invece regolati dall’art. 39.

[2] Se da un canto la cessione dei crediti opera anche senza il consenso del debitore, non avviene così per i debiti anteriori alla cessione e risultanti dalle scritture contabili obbligatorie: per questi ultimi il cedente non è liberato se non risulta che i creditori sociali vi abbiano acconsentito. In quest’ultimo caso il cedente risponde solidalmente con l’acquirente dei debiti ceduti. In tal senso l’art. 2559 c.c. stabilisce: “[I]. La cessione dei crediti relativi all’azienda ceduta, anche in mancanza di notifica al debitore o di sua accettazione, ha effetto, nei confronti dei terzi, dal momento dell’iscrizione del trasferimento nel registro delle imprese. Tuttavia il debitore ceduto è liberato se paga in buona fede all’alienante. [II]. Le stesse disposizioni si applicano anche nel caso di usufrutto dell’azienda, se esso si estende ai crediti relativi alla medesima”. L’art. 2560 c.c. prevede invece che: “[I]. L’alienante non è liberato dai debiti, inerenti all’esercizio dell’azienda ceduta, anteriori al trasferimento, se non risulta che i creditori vi hanno consentito. [II]. Nel trasferimento di un’azienda commerciale risponde dei debiti suddetti anche l’acquirente della azienda, se essi risultano dai libri contabili obbligatori”.

[3] In questi termini, Tribunale di Catanzaro, sentenza del 6 novembre 2013, n. 1218. Ancora, a conferma di questa prospettiva si legga la sentenza della Cassazione Civile, sez. lavoro, 3 ottobre 2013, n. 22627: “Per “ramo d’azienda”, ai sensi dell’art. 2112 cod. civ. (cosi1 come modificato dalla L. 2 febbraio 2001, n. 18, in applicazione della direttiva CE n. 98/50), come tale suscettibile di autonomo trasferimento riconducibile alla disciplina dettata per la cessione di azienda, deve intendersi ogni entità economica organizzata in maniera stabile la quale, in occasione del trasferimento, conservi la sua identità, il che presuppone una preesistente realtà produttiva autonoma e funzionalmente esistente e non anche una struttura produttiva creata “ad hoc” in occasione del trasferimento o come tale identificata dalle parti del negozio traslativo, essendo preclusa l’esternalizzazione come forma incontrollata di espulsione di frazioni non coordinate fra loro, di semplici reparti o uffici, di articolazioni non autonome, unificate soltanto dalla volontà dell’imprenditore e non dall’inerenza del rapporto ad un ramo di azienda già costituito (cfr., Cass. 8066/2011)”.

[4] Adunanza Plenaria, 4 maggio 2012, n. 10.

[5] Consiglio di Stato, sez. VI, 4 maggio 2011, n. 2662.

[6] Consiglio di Stato, sez. V, 15 novembre 2010, n. 8044. In dottrina, E. Michetti, Appalti: cessione di ramo d´azienda, la giurisprudenza del Consiglio di Stato in merito all’applicazione dell’art. 38, comma 1, lett. c), d.lgs. n. 163/2006, in www.gazzettaamministrativa.it, 7 aprile 2014.

[7] E. Michetti, op. cit.: “In merito alla discontinuità della gestione, la stessa può evincersi attraverso le modalità con le quali è stata attuata la cessione del ramo d’azienda, che è stata posta in essere per il tramite di una procedura di concordato preventivo per cessione di beni. La procedura in questione sortisce effetti immediati sulla gestione dell’impresa, che è sottoposta a considerevoli limitazioni, che vengono a determinare una rilevante discontinuità ai fini che in questa sede interessano. Così, già all’indomani dell’ammissione al concordato, il debitore conserva l’amministrazione dei suoi beni e l’esercizio dell’impresa, sotto la vigilanza del commissario giudiziale, ma non può compiere atti che eccedano l’ordinaria amministrazione, se non previa autorizzazione del giudice delegato (art. 167 L.F.). In sede di omologa, anche all’indomani delle modifiche portate dal d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169, il giudice svolge un controllo di legittimità sostanziale e non di regolarità formale della procedura, potendo questi emettere proprie determinazioni anche d’ufficio (Cass. civ., Sez. I, 15 settembre 2011, n. 18864). Inoltre, ai sensi dell’art. 182 L.F. con il decreto di omologazione il tribunale nomina uno o più liquidatori e un comitato di tre o cinque creditori per assistere alla liquidazione e determina le altre modalità della liquidazione. Pertanto, in assenza di specifiche indicazioni il liquidatore può effettuare scelte discrezionali, nei limiti dei criteri forniti dal giudice delegato, sulle modalità di vendita ritenute più idonee al conseguimento del miglior realizzo nell´interesse della massa concorsuale, mentre tale attività non può essere svolta in modo sostitutivo o parallelo dal debitore concordatario (Cass. civ., Sez. I, 15 luglio 2011, n. 15699). Inoltre, all’indomani del decreto di omologazione in caso di concordato per mera cessione dei beni, secondo quanto dispone l’art. 186-bis L.F., non è possibile la continuazione dell’attività aziendale, se la stessa non è stata prevista nel piano di concordato di cui all´articolo 161 L.F. secondo comma, lettera e), L.F.”.

[8] Cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 23.7.2010, n. 4849.

[9] Cfr. Tar Campania, Napoli, sez. I, 9 aprile 2014, n. 2031.

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