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Editoriali

Quante questioni irrisolte nella nuova disciplina anti anatocismo

19 Ottobre 2015

Mario Comana

Professore Ordinario di Economia degli intermediari finanziari, Università LUISS Guido Carli di Roma

Di cosa si parla in questo articolo

1. Introduzione

Il testo di delibera del Cicr attualmente in consultazione in tema di produzione degli interessi nei contratti bancari, lascia aperti molti dubbi e perplessità sotto il profilo tecnico e operativo. Sono aspetti che, benchè accumunati dall’essere conseguenze dello stesso provvedimento, restano fra loro relativamente indipendenti e quindi sia consentito affrontarli separatamente, anche se il risultato sembra un po’ la lista della spesa. Per non essere troppo severi con chi ha scritto il testo, sarà utile ricordare che purtroppo il principio sancito dalla legge è tanto perentorio quanto tecnicamente inattuabile. Quindi concepire un meccanismo che rispettasse il dettame legislativo e non creasse problematiche operative era impresa impossibile. Proviamo a snocciolare alcune delle criticità più evidenti.

2. Divieto di anatocismo sì, di capitalizzazione composta no

A dire il vero la prima osservazione tecnica non è una criticità ma una precisazione di natura finanziaria. Allo scopo di evitare un’interpretazione estensiva, che produrrebbe una limitazione ancora più forte nelle modalità di calcolo degli interessi, mi pare utile sottolineare che il divieto di anatocismonon comporta il divieto di capitalizzazione composta. E questo perché capitalizzazione composta e anatocismo non sono la stessa cosa: la differenza sta nel fatto che gli interessi che non possono essere fruttiferi sono solo quelli maturati, liquidi ed esigibili, non quelli in corso di formazione. E non si pensi che sia una forma di elusione del disposto normativo, un furbesco artificio per reintrodurre surrettiziamente l’anatocismo bandito dal legislatore. Nell’ordinamento italiano non esiste ostacolo alcuno a stabilire che la quantità di interessi che remunera un prestito sia calcolata impiegando la formula della capitalizzazione composta piuttosto che quella semplice. Non esiste alcuna norma che disciplina l’algoritmo che serve a determinare il montate di una somma per dato tasso di interesse e per unità di tempo. È ovvio che, a parità di tasso nominale, l’utilizzo della capitalizzazione composta produce più interessi della capitalizzazione semplice o addirittura di nessuna capitalizzazione ma, ripeto, la legge non si è ancora spinta a dettare la formula da impiegare, così come non prevede una specifica periodicità del tasso di interesse nominale. In altri termini, le parti possono liberamente pattuire un tasso di interesse definito per esempio in termini di saggio mensile, trimestrale, annuale o addirittura ultrannuale, e parimenti possono prevedere che la formula preveda la capitalizzazione o no. Questo non contrasta con il nuovo tenore dell’art. 120 del Tub, il quale dispone che gli interessi liquidati non possano tramutarsi in capitale su cui maturano nuovi interessi (non è un gioco di parole: è l’espressione in termini tecnici della volontà del legislatore!). La capitalizzazione composta invece riguarda gli interessi in corso di maturazione e definisce l’algoritmo che consente di passare dal capitale iniziale al montante (o vice versa dal valore attuale al valore nominale). E non sarà inutile ricordare che, come ho già richiamato nel precedente articolo, a un dato montante si può pervenire con una vasta serie di combinazioni di tassi nominali e regimi e periodicità di capitalizzazione, grazie al meccanismo dei tassi equivalenti.

Su questo punto vorrei solo aggiungere che un piccolo merito della nuova disciplina è che spazza via la ridicola previsione della pari periodicità nel calcolo degli interessi attivi e passivi, la quale è del tutto vana se non sono pari anche i capitali e i tassi applicati. Ma forse a qualche giurista la pari periodicità dava l’impressione di una simmetria che veniva scambiata per equità.

3. Divieto di capitalizzazione ma non di comunicazione

Un tema collegato alla capitalizzazione semplice o composta riguarda la periodicità di produzione degli estratti conto. Bisognerà rinunciare alla tradizionale cadenza trimestrale di calcolo delle competenze? Questo la delibera del Cicr non lo vieta espressamente, mentre sarebbe ulteriormente oneroso per le banche rinunciare all’addebito infrannuale degli oneri e delle commissioni, come per esempio quelle di istruttoria veloce, di affidamento, di tenuta conto eccetera.

A me pare opportuno mantenere la prassi attuale e approfittare della cadenza trimestrale per calcolare gli interessi maturati e comunicarli al cliente, ovviamente senza addebitarli in conto. È ben vero che la bozza di delibera prevede che “gli interessi sono conteggiati il 31 dicembre di ciascun anno” ma è evidente che si tratta di un’espressione atecnica per intendere la liquidazione. Non si capisce infatti quale ratio avrebbe il divieto di conteggiare quanti interessi sono in corso di maturazione durante il periodo di finanziamento. È un po’ come quel servizio che certi alberghi rendono di consultazione del tuo conto sul televisore della camera: ti rendi conto di quanto stai spendendo, quanto è costata l’acqua minerale dal frigobar eccetera. Ma l’unico conto efficace per richiedere il pagamento sarà quello rilasciato al momento del check out.

Il dato degli interessi in corso di formazione è utile ai correntisti per conoscere quale costo si sta accumulando per la remunerazione del prestito ed è importante oltre che comodo che venga comunicato ripetutamente durante l’anno. L’addebito, o comunque la richiesta di pagamento dell’intero importo annuale dopo il 31 dicembre, potrebbe essere una sorpresa sgradita per il debitore e quindi la segnalazione trimestrale facilita la sua pianificazione finanziaria ed economica.A questo riguardo non riesco a trattenermi dal sottolineare come una norma che nascerebbe a favore della clientela possa risolversi a suo svantaggio: a parità di onere effettivo, non è molto più agevole per il debitore poter regolare in forma rateale il proprio costo? Certo, la capitalizzazione infrannuale consiste di fatto in una anticipazione di questo costo – e per questo ho premesso la parità di onere effettivo – ma porta con sè il vantaggio che di fatto gli interessi passivi vengono coperti senza una vera e propria data di scadenza, poiché il mero addebito non comporta un flusso di cassa in uscita. Essi rientrano nel coacervo dei movimenti dell’impresa e quindi possono adattarsi al meglio alla sua dinamica finanziaria.

4. Le relazioni con la disciplina sull’usura

Una seconda ragione che spinge a mantenere la periodicità trimestrale nella rendicontazione degli oneri, anche senza addebitare gli interessi, è il collegamento con la disciplina dell’usura. Al momento infatti la rilevazione dei tassi di interessi medi avviene su questa base e successivamente si procede all’annualizzazione del costo. È ben vero che probabilmente questa metodologia andrebbe sottoposta a revisione, nonostante la decima versione delle apposite istruzioni vada nel senso di confermare la logica del trimestre e dell’annualizzazione, ma stante questa normativa mi sembrerebbe imprudente attendere il decorso di un anno intero prima di verificare il rispetto della disciplina antiusura. Questo sembra particolarmente importante per il periodo di avvio del nuovo regime, sia perché le procedure non saranno probabilmente ancora perfezionate e rodate, sia perché la verifica ex ante del mantenimento dei tassi effettivi sotto la soglia usuraria diviene più complessa quando si amplia l’orizzonte temporale di contabilizzazione e di capitalizzazione.

5. Sulla natura degli interessi nel periodo di grazia

Altro punto da studiare per bene è la natura degli interessi nel periodo di grazia, ossia quello che va dalla liquidazione alla esigibilità. Si tratta, come anticipano i termini della frase precedente, di crediti maturati, liquidi ma non esigibili. Come tali non ho dubbi che possano essere iscritti a bilancio fra le attività verso la clientela, ma questo non risolve tutto. Un primo quesito è se questi costituiscano un utilizzo delle linee di credito concesse, al di là del fatto che sono annotati su conti distinti da quello principale. Se, come io penso, la risposta è affermativa in caso di incapienza come ci si deve comportare? Durante questo periodo, posso negare l’utilizzo della linea di fido per la porzione degli interessi liquidati, ossia posso considerare che gli interessi annotati riducano il saldo disponibile? E se la somma dello scoperto più interessi eccede il fido si determina uno sconfino? E dato che di credito certamente si tratta, va segnalato in Centrale Rischi fin da fine dicembre o solo dalla data di esigibilità?

Si dirà che anche con il meccanismo attuale di capitalizzazione infrannuale può accadere che l’addebito degli interessi comporti il superamento del limite di fido, ma domani ci saranno due differenze non da poco: gli interessi in parola saranno quelli di quattro trimestri, non di uno solo; gli interessi liquidati oggi sono immediatamente passati sul conto e quindi il nuovo saldo ne tiene conto a tutti gli effetti, mentre nel regime prospettato resteranno in una sorta di limbo per (almeno) 60 giorni generando una divaricazione non piccola fra i saldi contabili, i saldi liquidi e il saldi disponibili.

Un ultimo dubbio: nella sfortunata ma non improbabile circostanza che un cliente vada in procedura concorsuale nel periodo di cui si tratta, come posso insinuare al passivo la componente interessi? La dichiarazione di sussistenza del credito non può certificare l’esigibilità degli interessi ma solo la loro liquidità. La chiusura del conto comporta anche la loro esigibilità, ma non necessariamente l’interruzione del rapporto avviene con l’apertura della procedura. Immagino che i legali potranno dipanare la matassa, ma la questione mi pare lasci aperto un certo grado di indeterminatezza.

6. Le modalità di pagamento

Sulle modalità di pagamento si appuntano le maggiori criticità, o almeno perplessità. Le forme possibili sono quella dell’autorizzazione all’addebito in conto o della facoltà attribuita alla banca di imputare le successive rimesse in conto interessi. In ogni caso è necessaria una manifestazione di volontà del cliente, che relativamente al secondo caso potrebbe essere inserita in un contratto quadro, ma poi soggiacerebbe a tutte le vulnerabilità delle clausole per adesione predisposte dal contraente forte. Ma queste sono questioni da giuristi, quindi preferisco tornare nell’ambito tecnico che mi è proprio.

La prima modalità di pagamento presuppone ovviamente la capienza del conto e quindi ritorniamo alle problematiche di cui al punto precedente. In concreto occorre che il conto presenti saldo avere maggiore degli interessi oppure abbia disponibilità di fido. Se queste condizioni si verificano siamo in presenza di un debitore che è in grado di sostenere l’onere degli interessi e allora non si capisce proprio la ragione dello “sconto” di (almeno) 60 giorni nell’esigibilità degli stessi. Se invece il conto non è capiente bisogna di necessità passare all’altra modalità di pagamento: l’imputazione delle rimesse successive. O vogliamo pensare che l’addebito degli interessi possa davvero generare uno sconfino con conseguente applicazione di interessi extrafido? Siamo sicuri che sarebbe un beneficio per il debitore scambiare l’effetto anatocistico della capitalizzazione infrannuale con l’addebito di interessi extrafido per un importo e un tempo indeterminato?

L’altra modalità è l’utilizzo delle rimesse successive. Quali? Quante? Quando? Ecco perché il differimento dell’esigibilità degli interessi lo quantifico sempre in “almeno” sessanta giorni, giacchè potrebbero essere molti di più. Questa soluzione assomiglia molto a un pactum de non petendo: è ben vero che ti devo gli interessi, ti assicuro anche cheli pagherò, ma non so quando, e nell’attesa non puoi né richiedermeli né maturare un compenso per il differimento. Perché aspettando le future rimesse la banca non può aumentare il saldo a debito del cliente (né diminuire quello a suo credito) e quindi il ritardo è gratuito per il debitore. Dunque io mi possono aspettare due comportamenti estremi, auspicando che poi la generalità dei casi di situi nella posizione intermedia. Da un lato il cliente iper scrupoloso, desideroso di preservare il miglior rapporto con la banca, aprirà un nuovo conto presso un’altra banca e da questa farà affluire i fondi verso la prima per saldare gli interessi. E negli annisuccessivi userà i due conti per incrociare bonifici con cui pagare i costi. Dall’altro lato posso immaginare un cliente che apre un conto, utilizza il fido, matura interessi passivi, autorizza il loro pagamento mediante imputazione delle rimesse; poi apre un nuovo conto presso altra banca, dirotta qui le sue nuove entrate e lascia pendenti gli interessi presso la prima; alla fine del secondo anno ripete il giochetto presso una terza banca e così via. Se considerate che in Italia ci sono oltre 700 banche, c’è tempo di scampare una vita senza mai versare gli interessi passivi!

Ma il punto davvero incomprensibile è la mancata previsione per legge della possibilità di compensare gli interessi attivi con quelli passivi (la circostanza che i tassi sui depositi oggi siano bassissimi o nulli non deve portare alla sottovalutazione del problema). Certo, questa potrà essere prevista in contratto, ma di nuovo sotto lo schiaffo di una clausola predisposta dal contraente forte. Anche qui vorrei prefigurare il paradosso: un cliente si presenta il 2 marzo a incassare gli interessi attivi (per lui) e autorizza il pagamento di quelli passivi (per lui) mediante le future rimesse. Non sarebbe quantomeno doveroso considerare gli interessi attivi (per il cliente) come una prima rimessa utilizzabile per il pagamento di quelli passivi? La lettera della norma parla solo di fondi rivenienti dall’esterno, (“i fondi accreditati sul contodell’intermediario e destinati ad affluire sul conto del cliente”) quindi non sembra autorizzare la compensazioneautomatica. Una vera bizzarria.

7. Cosa succede ai mutui e al leasing?

I ragionamenti fatti dai commentatori in merito alla proposta di modifica del regime di produzione degli interessi si sono concentrati sulla forma tecnica del conto corrente e la stessa articolazione del provvedimento sembra preoccupata soprattutto di disciplinare questo tipo di contratto. Ma gli effetti sono significativi anche per le altre forme di finanziamento, comprese quelle con piano di ammortamento predefinito come il mutui e il leasing. Intanto vorrei richiamare sommessamente che se si vuole orientare il sistema verso un funzionamento a tassi effettivi non superiori a quelli nominali bisogna intervenire su tutti i prodotti bancari. Per coerenza bisognerebbe addirittura vietare quelli che utilizzano il meccanismo dello sconto razionale, dove gli interessi sarebbero addirittura anticipati! (anche se come ho spiegato nel precedente intervento, gli interessi anticipati non esistono, sono solo un’illusione ottica).

Tornando ai problemi dei mutui e del leasing, bisogna considerare i prefinanziamenti e la prelocazione. Gli anticipi sui mutui e, appunto, la prelocazione, generano ovviamente interessi, che usualmente i prenditori aggiungevano all’importano di cui chiedevano il finanziamento. Questo utilissimo meccanismo, funzionale alle esigenze dei clienti, oggi configura una capitalizzazione degli interessi che contrasta con il principio dell’art. 3 della delibera del Cicr. Dunque, secondo il legislatore, chi costruisce un immobile (ahimè oggi molto pochi) utilizzando un finanziamento con erogazione a stato di avanzamento lavori, alla fine della costruzione, quando parte il mutuo, deve pagare alla banca tutti gli interessi maturati facendoli affluire da altra fonte. Noi ben sappiamo che l’edificazione può prendere facilmente più di un anno e quindi gli interessi possono raggiungere importi significativi, specialmente se è stato finanziato anche l’acquisto della superficie. Ma forse il legislatore queste cose non le sa, e quindi pensa che non sia un problema esigere il pagamento effettivo degli interessi maturati in corso di costruzione.

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