Il presente contributo analizza il tema dell’applicazione dell’imposta sulle successioni e donazioni in caso di trust interposti alla luce delle ultime novità del D.Lgs. n. 139/2024.
La riforma delle disposizioni riguardanti l’imposta sulle successioni e donazioni (D.Lgs. 18 settembre 2024, n. 139) – che, come noto, definisce espressamente in via normativa la rilevanza della dimensione civilistica dell’istituto del trust ai fini del tributo laddove (e nella misura in cui) si producano arricchimenti gratuiti dei beneficiari[1] – potrebbe essere l’occasione, da parte dell’Agenzia delle entrate, per chiarire meglio il proprio pensiero in materia di trust “interposti”. E non solo ai fini dell’imposta sulle successioni e donazioni.
Ma andiamo con ordine.
1. I trust “interposti” (rectius, non soggetti passivi IRES) ai fini delle imposte sui redditi
È noto che i trust, soprattutto se esteri, sono stati in passato oggetto di specifica attenzione da parte dell’Amministrazione finanziaria che, in diversi casi, ha negato agli stessi la soggettività d’imposta ex art. 73 del T.U.I.R, con la conseguenza che i beni costituenti il trust fund e i correlati redditi sono stati attribuiti direttamente all’interponente – solitamente il disponente – e non al trust.
Queste prese di posizione dell’Agenzia delle entrate, salvo i casi patologici in cui il trust si presta alla realizzazione di finalità improprie, ponendosi quale mero diaframma con il patrimonio personale del contribuente, sono – ove generalizzate (o decontestualizzate) – connotate, a nostro avviso, da una estrema (e non giustificata) rigidità.
Infatti, a ben guardare, i principali e più importanti chiarimenti – è il caso, ad esempio, delle Circolari n. 43/E del 10 ottobre 2009 e n. 61/E del 27 dicembre 2010 – sono nati nell’ambito di procedure straordinarie deflattive (come lo “scudo fiscale” o la “voluntary disclosure”), ove correttamente l’Amministrazione finanziaria ha fornito interpretazioni “ampie”, per facilitare l’utilizzo dello strumento legislativo temporaneo, ovvero, erano indirizzati ad evidenziare solo la visione patologica del trust, anche alla luce, probabilmente, di taluni fatti di cronaca dell’epoca (basti pensare alle “note” liste di contribuenti con assets illecitamente detenuti all’estero).
Molte delle esemplificazioni di trust “inesistente” – già ampiamente analizzate e criticate dalla dottrina specialistica e sulle quali non è il caso di dilungarsi – non dovrebbero, dunque, essere generalizzabili in situazioni non patologiche ed ordinarie.
D’altra parte, sono passati ormai due decenni da quando il legislatore (con la legge finanziaria per il 2007) ha attribuito la soggettività passiva ai fini IRES al trust e la norma fiscale attuale contiene già gli anticorpi a quelle eventuali asimmetrie che – soprattutto in passato – potevano consentire l’utilizzo distorto di tale istituto (al solo fine di perseguire asistematici risparmi di imposta): si pensi ad esempio, alla tassazione con le aliquote marginali IRPEF delle attribuzioni da parte di trust “a fiscalità privilegiata” (ex art. 44, comma 1, lett g-sexies) del TUIR), nonché allo scambio automatico di informazioni nell’ambito del Common Reporting Standard, che è altresì alla base del corretto adempimento degli obblighi di monitoraggio fiscale (Quadro RW).
Sono quindi forse maturi i tempi per distinguere in modo chiaro:
- da un lato, tutti i casi anomali – riqualificabili anche ex 37, comma 3 del D.P.R. n. 600/1973 – di nominee agreement aventi la mera denominazione di trust, dove è corretto riqualificare il negozio in termini di mero “negozio fiduciario” (in cui il fiduciario è il trustee), ed è lecito dubitare che ricorrano quei requisiti minimi affinché l’ordinamento privatistico attribuisca rilevanza all’effetto segregativo e, quindi, all’esistenza stessa del trust (il contenuto dell’atto di trust sarebbe – probabilmente – incompatibile con lo schema tipico del negozio di cui riporta – solo – il nomen iuris);
- dall’altro lato, al di là delle ipotesi patologiche, i casi ordinari di trust che perseguono interessi meritevoli di tutela e risultano compatibili con le regole e i princìpi stabiliti dall’intero sistema giuridico privatistico italiano, per i quali occorrerebbe apprezzare – in buona fede e senza preconcetti[2] – se siano dotati della sufficiente autonomia nell’amministrazione e disposizione dei beni in trust e dei relativi redditi ai fini della soggettività passiva ex 73 del T.U.I.R..
2. I trust “interposti” (rectius, non soggetti passivi IRES) ai fini dell’imposta sulle successioni e donazioni
Quanto sopra rappresentato, dovrebbe valere – coerentemente – anche ai fini dell’imposta sulle successioni e donazioni. In entrambi i casi, l’assenza di soggettività passiva IRES del trust dovrebbe comportare che i beni costituenti il trust fund (e i correlati redditi) siano attribuibili al disponente (in quanto lo stesso non si è mai spossessato sostanzialmente degli stessi), con la conseguenza che devono essere assoggettati all’imposta sulle successioni e donazioni non soltanto la dotazione iniziale ma altresì i redditi medio tempore realizzati dal disponente.
Ma tra i casi anomali di nominee agreement (i.e. negozi fiduciari) aventi la mera denominazione di trust, e i diversi casi del tutto ordinari e usuali di trust che – sebbene pienamente validi secondo la legge regolatrice e la Convenzione de l’Aja – potrebbero non risultare, secondo la rigida prassi dell’Amministrazione finanziaria, dotati della sufficiente autonomia nell’amministrazione e disposizione dei beni in trust e dei relativi redditi per essere considerati autonomi soggetti passivi IRES, la differenza non è di poco conto.
Ed invero, nel caso dei trust anomali riqualificabili quali negozi fiduciari (in cui il fiduciario è il trustee e il mandante è – usualmente – il disponente) è ragionevole ritenere – come detto – che gli stessi siano altresì inesistenti dal punto di vista civilistico e dunque, al momento del decesso del soggetto disponente/interponente, vi sarebbe una devoluzione del patrimonio agli eredi del de cuius, a prescindere dal fatto che questi ultimi coincidano o meno (dal punto di vista qualitativo e quantitativo) con i beneficiari del trust.
Diversamente, al di fuori di queste ipotesi patologiche, laddove il trust sia in linea con le regole e i principi stabiliti dal sistema giuridico privatistico, è ragionevole ritenere che le dimensioni civilistica e fiscale del trust non siano allineate e l’onere del tributo successorio debba ricadere sui beneficiari del trust e non sugli eredi del disponente, i quali potrebbero – legittimamente – non coincidere (in tutto o in parte) con i primi e ben potrebbero essere ignari dell’esistenza stessa del trust.
In questo ultimo caso, come abbiamo già avuto modo di rappresentare in passato[3], a seguito (e per effetto) del decesso del disponente, verrebbero meno i poteri di revoca del trustee e gli altri poteri di ingerenza – diretta o indiretta – che quest’ultimo si era riservato, e ci troveremmo quindi di fronte alla sopravvenuta insussistenza delle circostanze di fatto che – secondo la prassi attuale dell’Agenzia delle entrate – condurrebbero a ritenere un determinato trust come non riconoscibile quale autonomo soggetto passivo ai fini IRES. In altri termini, a seguito del decesso del disponente, il trust assumerà, nel medesimo periodo d’imposta, quella soggettività passiva di cui, in precedenza, difettava.
Pertanto:
- la sopravvenuta rilevanza fiscale del trust (a seguito della rimozione – mortis causa – degli elementi ostativi al suo riconoscimento) dovrebbe comportare che sia ragionevole ipotizzare, ai soli fini fiscali (e, quindi, a nostro avviso, senza violare il divieto dei patti successori di cui all’art. 458, c.c.), un apporto in trust da parte del disponente al momento del suo decesso, apporto rappresentato dall’intero trust fund (dotazione iniziale e redditi medio tempore realizzati). Conseguentemente, in modo del tutto analogo a quanto accadrebbe con un trust testamentario, troverebbe applicazione l’imposta sulle donazioni (e non quella sulle successioni) in sede di attribuzione ai beneficiari del trust (e non agli eredi del disponente alla data del suo decesso che, in quanto tali, non ricevono alcun trasferimento di ricchezza);
- diversamente, laddove a seguito del decesso del disponente, vi sia una trasmissione dei poteri di ingerenza che quest’ultimo possedeva (nell’amministrazione del trust) a favore dei beneficiari del trust, si può ritenere che l’apporto (rappresentato dall’intero trust fund) in trust da parte del disponente al momento del suo decesso sia immediatamente rilevante ai fini dell’imposta sulle donazioni (e non del tributo successorio) in capo ai beneficiari del trust (e non agli eredi del disponente che, in quanto tali, non si arricchiscono); e ciò, ai sensi dell’art. 56-bis del D.Lgs. n. 346/1990, in considerazione del fatto che il trust rappresenterebbe il negozio-mezzo attraverso cui si realizzerebbe un effettivo trasferimento di ricchezza mediante un’attribuzione “stabile” dei beni confluiti nel trust a favore dei beneficiari.
Solo in questo senso dovrebbe essere letta e, a nostro avviso, circoscritta, la portata della circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 34/E del 20 ottobre 2022, ove è stato precisato che, con riferimento ai trust “interposti” ai fini delle imposte sui redditi – da intendersi, a nostro avviso, quali casi patologici di nominee agreement aventi la mera denominazione di trust – “nell’ipotesi di decesso del soggetto disponente, tenuto conto della interposizione del trust tra i beni e i diritti che compongono l’attivo ereditario di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 346 sono inclusi anche quelli formalmente nella titolarità del trust, qualificato come interposto [sottolineatura nostra, n.d.a]”.
D’altra parte, in assenza di un effettivo trasferimento di ricchezza in capo agli eredi, non si realizza alcun presupposto del tributo donativo-successorio, come oramai riconosciuto chiaramente dal Legislatore che, all’art. 4-bis, comma 1, del D.Lgs. n. 346/1990 prevede che “I trust … rilevano, ai fini dell’applicazione dell’imposta sulle successioni e donazioni, ove determinino arricchimenti gratuiti dei beneficiari”.
Confidiamo che l’Agenzia delle Entrate avrà modo di precisare il suo pensiero in sede di commento alle novità introdotte con il D.Lgs. n. 139/2024.
[1] Cfr. il nuovo art. 1 del D.Lgs. 31 ottobre 1990 n. 346, il quale prevede espressamente che il tributo successorio “si applica ai trasferimenti di beni e diritti per successione a causa di morte, per donazione o a titolo gratuito, compresi i trasferimenti derivanti da trust e da altri vincoli di destinazione”, nonché l’art. 4-bis, comma 1, del medesimo decreto, secondo cui “I trust … rilevano, ai fini dell’applicazione dell’imposta sulle successioni e donazioni, ove determinino arricchimenti gratuiti dei beneficiari”.
[2] Prendiamo, ad esempio, il caso del guardiano di un trust: per l’Amministrazione finanziaria (cfr., ad esempio, la Risposta ad interpello n. 267/2023), la presenza di un guardiano vicino (personalmente o professionalmente) al disponente (o ai beneficiari) con diritti e poteri che vanno oltre quelli meramente informativi e consultivi (senza condizionamento dei poteri del trustee e/o dei diritti dei beneficiari), priverebbe il trustee di autonomia, rappresentando (il guardiano) la longa manus del disponente (o dei beneficiari) per l’eterodirezione del trust. Ma, in realtà, dovrebbe essere pacificamente riconosciuto che il trustee è – per sua natura – soggetto a essere controllato (ovviamente, da chi ha interesse alla corretta esecuzione del trust) e i poteri attribuiti al guardiano – dettati dall’atto istitutivo (e/o dalla legge regolatrice), al fine di bilanciare quelli del trustee (soprattutto se quest’ultimo è un trustee professionale che ha una insufficiente conoscenza del contesto in cui il trust è chiamato ad operare) – sono volti ad assicurare così la corretta amministrazione del trust per la realizzazione degli interessi per cui è istituito. Detto in altri termini, la nomina di un guardiano “di fiducia” (nel senso buono del termine) è un fatto del tutto comune e normale nel diritto dei trust, che non deve essere in alcun modo demonizzato, ove poi il guardiano (anche se di fiducia) esegue il suo incarico in autonomia secondo le regole previste dall’atto di trust e/o dalla legge regolatrice.
[3] Cfr. S. Massarotto, I trust “interposti” e la “finzione” dell’applicazione dell’imposta sulle successioni nella circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 34/E del 20 ottobre, 2022, in Riv. Tel. Dir. Trib., 10 gennaio 2023. Nello stesso senso, STEP Italy, Position Paper del 12 maggio 2025, Trust e Interposizione fittizia ai fini dell’imposta sulle successioni e donazioni. Cfr. altresì sul tema, CNN, Studio n. 48-2023/T del 1° febbraio 2023, La Tassazione immediata degli atti di apporto di beni in trust e i trust interposti nella circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 34 del 20 ottobre 2022.