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Giurisprudenza

Nullità del contratto quadro privo della sottoscrizione della banca: rimessa la questione alle Sezioni Unite

3 Maggio 2017

Avv. Vincenzo Cusumano, Dottorando di ricerca Università degli studi di Padova

Cassazione Civile, Sez. I, 27 aprile 2017, n. 10447

Di cosa si parla in questo articolo

Il caso

Con l’ordinanza n. 10447 del 27.4.2017 la Prima sezione della Corte di Cassazione ha rimesso al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite la decisione circa la necessità ai fini della validità del contratto quadro di negoziazione titoli della firma dell’intermediario finanziario.

L’attore chiedeva l’accertamento della nullità del contratto quadro per mancanza della forma scritta richiesta ad substantiam imposta dall’art. 23 del TUF e precedentemente dall’art. 6 della L. n. 1 del 2 gennaio 1991, oltre che dall’art. 30 del Regolamento Consob n 11522 del 1998 e dall’art. 37 del Regolamento Consob 16190 del 2007.

Nel corso dei diversi gradi di giudizio la Banca convenuta produceva il contratto quadro recante la firma del cliente e recante la dichiarazione degli investitori circa la consegna di un esemplare del contratto “sottoscritto per accettazione dai soggetti abilitati a rappresentarvi”.

Nella prassi bancaria infatti la conclusione del contratto di intermediazione finanziaria avviene con lo scambia di due esemplari del medesimo contratto ciascuno sottoscritto dall’altra parte. Per cui la banca possiede una “copia per la banca” del contratto con la sola sottoscrizione del cliente e il cliente possiede, o dovrebbe possedere, una “copia per il cliente” con la sola sottoscrizione dell’intermediario.

Molti investitori a seguito di ingenti svalutazioni dei titoli sottoscritti hanno intentato causa contro gli intermediari lamentando, tra l’altro, la violazione delle prescrizioni in tema di forma a causa della mancata presenza della sottoscrizione dell’intermediario sulla “copia per la banca” del contratto e, ovviamente, non producendo in giudizio la “copia per il cliente” dichiarando di non averla mai ricevuta.

Nella dottrina e nella giurisprudenza di merito si sono registrati numerosi contrasti, mentre nella giurisprudenza di legittimità pareva, fino ad oggi, esserci una netta prevalenza dell’impostazione che reputa nullo il contratto privo della firma dell’intermediario.

Ai fini di una corretta disanima della questione, risulta opportuno ripercorrere le diverse interpretazioni ricavabili in giurisprudenza circa la problematica appena precisata.

La questione

E’ possibile riscontrare diversi orientamenti circa la portata dell’art. 23 TUF (per ragioni di economia del testo non si tratterà della normativa precedente al TUF). L’art. 23 recita che «i contratti relativi alla prestazione dei servizi di investimento […] sono redatti per iscritto e un esemplare è consegnato ai clienti […] Nei casi di inosservanza della forma prescritta, il contratto è nullo […] La nullità può essere fatta valere solo dal cliente.»

Per quanto riguarda la mancanza della sottoscrizione del cliente o, a fortiori, la mancanza del contratto stesso, vi è unanimità di vedute nel ritenere il contratto e tutti gli acquisti successivi nulli (Cass. 22.3.2013 n. 7283; Cass. 22.12.2011 n. 28432). Né è idonea a integrare il requisito formale la sottoscrizione da parte del cliente di documenti diversi dal contratto, come il documento sui rischi generali o il questionario MIFID (Cass. 19.2.2014 n. 3889).

Di agile soluzione risulta anche la problematica circa l’effetto della produzione in giudizio da parte della Banca del contratto-quadro da essa non sottoscritto. Infatti se è pur vero che la mancata sottoscrizione di una scrittura privata è supplita dalla produzione in giudizio del documento stesso da parte del non firmatario che intenda avvalersene, è pur vero che ciò comporterebbe il perfezionamento ex nunc del contratto quadro (dal momento della produzione) e quindi non avrebbe alcuna utilità ai fini della validità degli ordini di acquisto precedentemente impartiti.

Ciò che invece è oggetto di vivace dibattito è se l’art. 23 imponga davvero la firma dell’intermediario o se invece, ai fini del rispetto della forma, sia sufficiente la firma dell’investitore.

Scrive la dottoressa Nazzicone (giudice relatrice dell’ordinanza) che non tutte le prescrizioni di forma sono uguali. “Se la forma ad substantiam, nella sua solennità propria degli scambi immobiliari tipici dell’economia fondiaria, funge, nell’ambito dei rapporti paritari, da criterio d’imputazione della dichiarazione, oltre che servire a favorire – a tutela di entrambi i contraenti – i beni della chiarezza nei contenuti, della ponderazione per l’impegno assunto e della serietà dell’accordo, nonché a distinguere le mere trattative dall’atto definitivo, occorre poi pur riflettere sul fatto che, invece, laddove le parti non si trovino su di un piano di parità perché si ravvisa una “parte debole” del rapporto, a scongiurare il rischio dell’insufficiente riflessione o dell’approfittamento ad opera dell’altro contraente interviene, allora, la forma, o formalità “di protezione”: il cui fine precipuo è proprio quello di proteggere lo specifico interesse del contraente “debole” a comprendere ed essere puntualmente e compiutamente informato su tutti gli aspetti della vicenda contrattuale.”

In breve il formalismo negoziale (o neoformalismo) a cui si assiste negli ultimi tempi con precipuo riferimento ai contratti caratterizzati da asimmetrie informative (si pensi ai contratti del consumatore oltre che all’intermediazione finanziaria) sarebbe finalizzato alla tutela della parte “debole”. Pertanto la nullità che deriva dalla violazione dei precetti sulla forma, in questi contratti, persegue finalità eminentemente protettive. Si parla dunque di “nullità di funzione” anziché di “nullità di struttura”.

La conseguenza di tale impostazione porta alla considerazione che se la nullità è funzionale alla tutela del diritto dell’investitore di avere le informazioni necessarie, tanto che lui è l’unico soggetto legittimato a farla valere, tale esigenza risulterebbe soddisfatta dalla sola firma del cliente stesso.

La forma “informativa” sarebbe quindi rispettata, perché soddisfatto è l’interesse alla conoscenza ed alla trasparenza, o scopo informativo, cui essa è preordinata. La sottoscrizione, viceversa, della Banca, che predispone unilateralmente il contratto, non avrebbe invece alcuna funzione, anzi si porrebbe in contrasto con il dinamismo nella conclusione dei contratti finanziari.

Sia chiaro, l’ordinanza non si spinge a sostenere l’irrilevanza del consenso della banca che, come è ovvio, è necessario in ogni contratto, ma afferma che questo possa rivestire altre forme.

L’impostazione qui esposta era già stata sostenuta da parte della giurisprudenza di merito (Corte d’Appello Venezia, sent. 1377 del 2016; Corte d’Appello Venezia, sent. 1904 del 2015; Trib. Torino, sent. 316 del 2016; Trib. Milano sent. 14268 del 2013).

L’impostazione opposta – che richiede la firma dell’intermediario ai fini della validità del contratto – risulta invece sostenuta da numerose e recenti pronunce della Corte di Cassazione (Cass. 14.03.2017, n. 6559 Cass. 24.03.2016, n. 5919; Cass. 11.04.2016, n. 7068; Cass. 27.04.2016, n. 8395; Cass. 27.04.2016, n. 8396; Cass. 19.05.2016, n. 10331; Cass. 03.01.2017, n. 36) e di numerosa giurisprudenza di merito (Corte d’Appello Bologna 13.01.2017, n. 89; Corte d’Appello di Milano 19.04.2017, n. 1680; Trib. Rimini, ord. 02.02.2012).

Questa giurisprudenza, pur riconoscendo che nella materia finanziaria e bancaria l’onere della necessaria forma scritta dei contratti sia imposta a fini protettivi, ritiene nondimeno necessaria la sottoscrizione da parte della banca. Il che non è incompatibile con la formazione del contratto attraverso lo scambio di due documenti, entrambi del medesimo tenore, ciascuno sottoscritto dall’altro contraente, a condizione che entrambe le dichiarazioni negoziali siano formalizzate. Una qualunque manifestazione scritta e diretta a controparte dell’intento di avvalersi del contratto, non riproducendo per intero il contenuto del contratto, non è idonea a evitare la violazione dell’art. 23 TUF (e 117 TUB).

Conclusioni

A parere di chi scrive la questione non può essere risolta se non identificando con chiarezza quali siano le esigenze tutelate dall’art. 23 del TUF, se esse siano esclusivamente quelle della tutela della parte debole, oppure si possano scorgere anche ragioni di tutela superindividuali. Il che porta necessariamente all’annoso dibattito sulla differenza tra nullità di protezione e annullabilità.

Quanto al primo aspetto si deve rilevare che le Sezioni Unite, con la storica sentenza del 19 dicembre 2007, n. 26725 (estensore Rordorf), abbiano affermato che le norme in materia di intermediazione finanziaria sono volte alla protezione non solo dell’interesse del singolo contraente, ma anche dell’interesse generale all’integrità dei mercati finanziari. Inoltre la tutela garantita alle parti deboli nei rapporti asimmetrici non può che risultare anche funzionale al perseguimento di interessi superindividuali e dell’intera collettività tali da coincidere con valori costituzionalmente rilevanti, quali il corretto funzionamento del mercato, la tutela del risparmio, l’uguaglianza, quantomeno formale, tra contraenti in posizioni di diversa forza.

Ed è in questa constatazione che sta la differenza tra l’annullabilità che per definizione tutela l’interesse di una sola parte (quella che subisce il dolo, cade in errore o è vittima di violenza) e le nullità di protezione. Infatti l’accostamento tra un istituto e l’altro, dovuto alla coincidenza dei soggetti legittimati a fare valere l’invalidità, non coglie nel segno. Ciò che differisce è l’interesse sostanziale protetto dalla norma. Come sostenuto dalle Sez. Un. 26242/2014, le nullità di protezione assurgono ad una forma di invalidità “ad assetto variabile, e di tipo funzionale, in quanto calibrata sull’assetto di interessi concreto, ma non per questo meno tesa alla tutela di interessi fondamentali, che trascendono quelli del singolo”.

In conclusione si deve ritenere che le nullità di protezione comportino per il soggetto “debole” una facoltà in più rispetto alle nullità tradizionali, ovvero quella di decidere, a seconda del proprio interesse, se far valere o meno la nullità (CGUE 4 giugno 2009 caso Pannon). L’ordinanza in commento invece sembra voler sottrarre questo genere di nullità alla disciplina della nullità, sottraendo di fatto tutela all’investitore/consumatore.

Si aggiunga inoltre che il giudice non può ritenere che un requisito formale, previsto a pena di nullità, possa essere ignorato nel caso in cui, a suo dire, si sia raggiunto lo scopo della norma. Infatti così ragionando si dovrebbe pur sostenere il contrario, cioè che se lo scopo della norma non è soddisfatto non si potrà ritenere la banca immune da contestazioni solo perché abbia rispettato forme e formalismi. Si pensi a tutti gli obblighi informativi e alle valutazioni di adeguatezza o di appropriatezza fatte sottoscrivere a brevissima distanza temporale l’una dall’altra e recanti in fondo la dichiarazione standardizzata in cui il cliente prende atto degli avvertimenti della banca e cionondimeno ordina l’esecuzione dell’ordine di acquisto dello strumento finanziario inadeguato o inappropriato.

In ultima analisi se la soluzione delle Sezioni Unite dovesse guardare esclusivamente al raggiungimento dello scopo per il quale è stata imposta la forma scritta, questo andrebbe verificato in concreto, cioè si dovrebbe verificare che il cliente abbia davvero compreso le condizioni contrattuali. Altrimenti si correrebbe il rischio di ritenere la firma della banca un’unitile formalità sanabile con altre formalità, nella maggior parte dei casi altrettanto inutili.

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