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Approfondimenti

L’ormai necessaria tutela fiscale degli investimenti realizzati in Italia dai fondi di private equity extra UE

alla luce della più recente giurisprudenza della Corte di Cassazione

2 Agosto 2022

Luca Rossi, Partner, Studio Legale Tributario Facchini Rossi Michelutti

Marina Ampolilla, Partner, Studio Legale Tributario Facchini Rossi Michelutti

Armando Tardini, Associate, Studio Legale Tributario Facchini Rossi Michelutti

Tramite l’analisi delle recenti sentenze dalla Cassazione nn. 21454, 21475, 21480, 21481 e 21482 del 6 luglio 2022, l’articolo sottolinea l’importanza di prevedere, attraverso un adeguato intervento normativo, un regime fiscale non discriminatorio applicabile ai fondi d’investimento vigilati stabiliti in Stati Extra-UE rispetto al trattamento dei fondi domestici.


Fino alla pubblicazione da parte della Corte di Cassazione delle sentenze gemelle nn. 21454, 21475, 21480, 21481 e 21482 del 6 luglio 2022 (“Sentenze”), il regime fiscale dei dividendi corrisposti a fondi d’investimento esteri da società italiane (nonché quello delle plusvalenze realizzate sulle relative partecipazioni) poteva essere analizzato come questione parzialmente irrisolta[1]. A parere di chi scrive, tuttavia, la pubblicazione delle Sentenze pone una pietra tombale sull’assenza di sistematicità del regime fiscale applicabile ai flussi reddituali equity-related realizzati da fondi d’investimento vigilati stabiliti in Stati Extra-UE (ma anche a quelli stabiliti in Stati UE/SEE) e in grado di garantire un adeguato scambio di informazioni.

Facciamo un passo indietro.

Con la pubblicazione della legge 20 dicembre 2020, n. 178 (“Legge di Bilancio 2021”)[2], il legislatore è intervenuto ponendo rimedio all’evidente e ingiustificata restrizione al principio della libera circolazione dei capitali sancito dall’art. 63 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (“TFUE”) causata, appunto, dalla disparità di trattamento che l’ordinamento nazionale prevedeva in relazione al regime fiscale applicabile ai dividendi (e alle plusvalenze) di fonte italiana corrisposti ad OICR UE/SEE vigilati rispetto a quello previsto per i medesimi componenti di reddito percepiti da OICR italiani, diversi da quelli immobiliari, vigilati. In forza delle Legge di Bilancio 2021, dunque, i dividendi e le plusvalenze realizzati in Italia da fondi d’investimento europei qualificati[3] sono ora soggetti al medesimo regime di esenzione previsto, appunto, per i fondi domestici.

Nonostante l’apprezzabile sforzo del legislatore, l’intervento normativo, presenta, tuttavia, due criticità.

La prima attiene all’entrata in vigore della modifica normativa sopra richiamata; ai sensi dei commi 632 e 633, dell’art. 1 della Legge di Bilancio 2021, infatti, il nuovo regime di esenzione è destinato a trovare applicazione solo con riferimento ai dividendi percepiti (e alle plusvalenze realizzate) dal 1° gennaio 2021. La seconda, invece, riguarda l’esclusione dal perimetro applicativo del nuovo regime dei fondi extra-UE (istituiti in Stati o territori che consentono un adeguato scambio di informazioni).

La dottrina di settore ha già più volte evidenziato le predette problematiche, sollecitando un intervento chiarificatore[4]. Ad oggi, tuttavia, nessuna iniziativa risulta essere al vaglio degli organi legislativi e amministrativi competenti. Ecco allora che la pubblicazione delle Sentenze deve essere accolta positivamente rappresentando, di fatto, l’affermazione da parte del supremo organo giurisdizionale dell’effettiva incoerenza del regime impositivo domestico applicabile ai fondi extra UE rispetto ai principi del diritto dell’Unione Europea e della conseguente necessaria disapplicazione di tale regime, da parte, non solo, dei giudici ma anche dell’amministrazione finanziaria[5].

In particolare, con le Sentenze, gli Ermellini si sono espressi in merito al caso di alcuni fondi d’investimento mobiliare aperti di diritto statunitense residenti in California (USA) (“Fondi”) che hanno ricevuto dividendi da società italiane quotate in borsa nei periodi d’imposta dal 2007 al 2010. Detti dividendi, per quanto d’interesse, sono stati corrisposti al netto della ritenuta del 15% prevista dalle Convenzioni contro le doppie imposizioni stipulate tra Italia e Stati Uniti d’America. Ritenendo, quindi, che il trattamento fiscale subito sulle predette distribuzioni fosse irragionevolmente deteriore rispetto a quello riservato ai fondi comuni d’investimento italiani (all’epoca soggetti ad imposta sostitutiva in misura pari al 12,5% del risultato netto di gestione[6]) e, dunque, discriminatorio ai sensi dell’art. 63 TFUE, i fondi americani hanno presentato apposite istanze di rimborso della maggiore tassazione subita.

A fronte del silenzio rifiuto serbato dall’amministrazione finanziaria, i Fondi hanno presentato ricorso alla Commissione Tributaria Provinciale competente che lo ha rigettato. Impugnate le relative sentenze di fronte alla Commissione Tributaria Regionale, che ha, a sua volta, rigettato l’appello, i Fondi hanno adito la Corte di Cassazione.

Stante la chiarezza espositiva utilizzata dagli Ermellini nelle Sentenze, prima di commentare il relativo contenuto e le pregnanti conseguenze, si ritiene qui opportuno riportarne i tratti salienti (per completezza, si segnala che la citazione riguarda il testo della sentenza n. 21482/2022 il quale, tuttavia, non si discosta da quello delle altre Sentenze).

Giova innanzitutto rilevare che (…) la circostanza che il contribuente sia un fondo d’investimento mobiliare di diritto statunitense, e non sia quindi residente in uno Stato membro dell’Unione Europea, non preclude a priori la rilevanza, ai fini della decisione, dell’art. 63 TFUE, comma 1, per il quale “Nell’ambito delle disposizioni previste dal presente capo sono vietate tutte le restrizioni ai movimenti di capitali tra Stati membri, nonché tra Stati membri e paesi terzi” (…).

In questo senso, la giurisprudenza comunitaria ha già ritenuto applicabile il predetto art. 63, in una fattispecie in cui, per effetto della normativa tributaria nazionale, i dividendi versati da società stabilite in uno Stato membro a favore di un fondo di investimento stabilito in uno Stato terzo (anche in quel caso gli Stati Uniti), non costituivano oggetto di esenzione fiscale, mentre i fondi di investimento stabiliti nello Stato membro stesso beneficiavano dell’esenzione, poiché la differenza di trattamento fiscale dei dividendi tra i fondi di investimento residenti ed i fondi di investimento non residenti è idonea a dissuadere, da un lato, i fondi di investimento stabiliti in un paese terzo dall’assunzione di partecipazioni in società stabilite in uno Stato membro e, dall’altro, gli investitori residenti in tale Stato membro dall’acquisizione di quote in fondi di investimento non residenti (Corte giustizia, 10/04/2014, C-190/2012,Emerging Markets) (…).

La soggezione al diritto comunitario – nell’ambito della Comunità Europea – del contenuto dei trattati coi Paesi terzi comporta, quindi, l’obbligo del giudice nazionale e della pubblica amministrazione a interpretare le disposizioni convenzionali in modo conforme al diritto comunitario e, nei casi in cui tale interpretazione conforme non sia possibile, a trarre tutte le conseguenze che derivano dal contrasto tra le norme dei due ordini, prima fra tutte l’obbligo di disapplicare le norme (interne o di diritto internazionale pattizio) contrastanti con le disposizioni e principi di diritto comunitario, primario o secondario, che abbiano diretta applicabilità, quale è certamente il Trattato CE, art. 6.” (Cass. 17/03/2000, n. 3119, in motivazione) (…).

Tanto premesso, (…) lo scarto tra l’aliquota massima del 15 per cento – applicabile, per effetto della Convenzione (…), sull’ammontare lordo dei dividendi pagati da società residenti al fondo d’investimento mobiliare statunitense- e l’aliquota del 12,50 per cento -applicabile ratione temporis, a titolo d’imposta sostitutiva, alla società residente sul risultato della gestione del fondo mobiliare – integri una differenza di trattamento fiscale a svantaggio del fondo estero ricorrente, atteso che, sotto il profilo oggettivo, le due imposizioni comparate, per quanto qui interessa, attingono sostanzialmente il medesimo reddito da capitale, poiché i dividendi percepiti dal fondo residente confluiscono comunque nel risultato della gestione e vengono pertanto tassati, con l’imposta sostitutiva, nel contesto di quest’ultimo, con la predetta minore aliquota (…).

Come già rilevato (…), la differenza di trattamento fiscale in materia di tassazione dei dividendi versati a fondi non residenti nella UE è ricondotta dalla costante giurisprudenza comunitaria alla violazione dell’art. 63 TFUE, par. 1, configurandosi come restrizioni dei movimenti di capitali anche le fattispecie idonee a dissuadere i non residenti dal compiere investimenti in uno Stato membro (…).

[Non] sussiste, quale possibile (…) causa di giustificazione della restrizione della libertà di circolazione dei capitali garantita dall’art. 63 TFUE, l’esigenza di garantire l’efficacia dei controlli fiscali sui fondi comuni d’investimento, quale motivo imperativo d’interesse generale (…). Infatti “la giustificazione attinente alla necessità di garantire l’efficacia dei controlli fiscali è ammissibile unicamente qualora la normativa di uno Stato membro subordini il beneficio di un vantaggio fiscale al rispetto di requisiti la cui osservanza possa essere verificata unicamente ottenendo informazioni dalle competenti autorità di uno Stato terzo e qualora, in considerazione dell’assenza di un obbligo convenzionale, a carico di detto Stato terzo, di fornire informazioni, risulti impossibile ottenere chiarimenti dal medesimo (…)” (…). Nel caso di specie sussiste l’obbligo convenzionale, poichè la Convenzione Italia-USA, art. 26, contro le doppie imposizioni prevede e disciplina lo scambio di informazioni fra le autorità competenti degli Stati contraenti, in funzione dell’applicazione tanto delle norme convenzionali quanto di quelle domestiche relative alle imposte previste dalla Convenzione, anche al fine di “evitare le frodi o le evasioni fiscali”.

La violazione dell’art. 63 TFUE, denunziata dal ricorrente pertanto sussiste, non è giustificata e va scongiurata attraverso l’interpretazione adeguatrice della disposizione convenzionale (…)”.

Ebbene, dai testi delle Sentenze sembrano potersi desumere i seguenti principi:

  • è ormai chiaro che, al fine di valutare la compatibilità con la normativa unionale del regime fiscale domestico applicabile ai flussi reddituali realizzati da fondi d’investimento esteri, occorre riferirsi alla libertà fondamentale sancita dall’art. 63 TFUE. Libertà, quest’ultima, che vieta tutte le restrizioni ai movimenti di capitali non solo tra Stati membri ma anche tra Stati membri e paesi terzi. Tale principio, del resto, era già stato affermato, seppur con riferimento ad una norma polacca, dalla sentenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea relativa alla causa C-190/2012, Emerging markets (più volte richiamata dalle Sentenze), secondo la quale “L’articolo 63 TFUE (…) si applica in una fattispecie (…), in cui, per effetto della normativa tributaria nazionale, i dividendi versati da società stabilite in uno Stato membro a favore di un fondo di investimento stabilito in uno Stato terzo non costituiscono oggetto di esenzione fiscale, mentre i fondi di investimento stabiliti nello Stato membro stesso beneficiano dell’esenzione” e “Gli articoli 63 TFUE e 65 TFUE devono essere interpretati nel senso che ostano ad una normativa tributaria di uno Stato membro (…) in virtù della quale non possono beneficiare di esenzione fiscale i dividendi versati da società stabilite nello Stato membro medesimo a favore di un fondo di investimento situato in uno Stato terzo, sempreché tra detto Stato membro e lo Stato terzo interessato sussista un obbligo convenzionale di mutua assistenza amministrativa che consenta alle amministrazioni finanziarie nazionali di verificare le informazioni eventualmente trasmesse dal fondo di investimento[7];
  • il fatto che le Sentenze si siano espresse ritenendo applicabili i principi stabiliti dall’art. 63 TFUE ad annualità in cui il regime fiscale dei dividendi corrisposti a fondi d’investimento esteri era regolato dalla legge n. 77/1983, lascia desumere che la Cassazione non abbia ritenuto (condivisibilmente[8]) applicabile la clausola di cd. “stand-still” contenuta dell’art. 64 del TFUE;
  • il fatto, inoltre, che i giudici di legittimità si siano espressi rispetto ad annualità risalenti rende evidente come le modifiche apportate dalla Legge di Bilancio 2021 rispetto al regime fiscale dei proventi equity-related realizzati dai fondi d’investimento europei qualificati debba necessariamente essere interpretata nel senso di riconoscergli portata retroattiva[9]. Si rivela, allora, quanto mai opportuno un intervento da parte dell’amministrazione finanziaria, analogamente a quanto già avvenuto in passato (in tal senso cfr. Circolare n. 32/E del 8 luglio 2011) con riferimento ad un caso – quello relativo all’evoluzione della normativa in materia di dividendi di fonte italiana distribuiti a società ed enti residenti in altri Stati UE/SEE e sprovvisti dei requisiti per rientrare nell’ambito di applicazione del disposto di cui all’art. 27-bis, D.P.R. n. 600/1973 – del tutto assimilabile a quello oggetto della presente trattazione, finalizzato a chiarire in via interpretativa che, a prescindere dal fatto che il legislatore abbia sancito l’applicabilità della disciplina recata dalla Legge di Bilancio 2021 solo con riferimento ai dividendi di fonte italiana distribuiti agli OICR UE/SEE vigilati a far data dal 1° gennaio 2021, il medesimo regime fiscale avrebbe dovuto applicarsi anche in relazione ai dividendi distribuiti prima della predetta data che, invece, sono stati assoggettati a prelievo alla fonte in forza di una normativa contraria al diritto comunitario (cfr., al riguardo, il contributo richiamato nella precedente nota 1);
  • la Sentenze hanno il pregio di ribadire che la soggezione al diritto comunitario della normativa domestica (oltre che di quella convenzionale) comporta l’obbligo degli organi giurisdizionali e dell’amministrazione finanziaria di interpretare la predetta normativa in modo conforme ai principi unionali al fine di renderli direttamente applicabili nel nostro ordinamento. Ove tale interpretazione conforme non risulti possibile, i giudici e gli enti impositori hanno poi “l’obbligo di disapplicare le norme interne o di diritto internazionale pattizio contrastanti con le disposizioni e i principi di diritto comunitario (…) che abbiano diretta applicabilità”;
  • non è possibile giustificare la differenza di trattamento fiscale riservata ai fondi non residenti nell’Unione Europea con l’esigenza di tutelare l’efficacia dei controlli fiscali. E ciò ogniqualvolta il fondo d’investimento straniero sia stabilito in un Paese che consente un adeguato scambio di informazioni con l’Italia che sia funzionale, tra l’altro, a scongiurare l’evasione fiscale. Sul punto, si ritiene che detto adeguato scambio di informazioni debba considerarsi sussistere non solo in presenza di un’apposita norma all’interno della Convenzione contro le doppie imposizioni applicabile alla fattispecie esaminata (come è stato nel caso delle Sentenze, in cui lo scambio informativo era garantito dall’art. 26 della Convenziona Italia-Stati Uniti) ma anche in presenza di appositi accordi sullo scambio di informazioni in materia fiscale stipulati in ossequio al Modello OCSE “Tax information Exchange Agreement” (cd. “Modello TIEA”)[10].

In considerazione di tutto quanto sopra, dunque, si ritiene ora più che mai opportuno un intervento da parte del legislatore, oltre che un esercizio di interpretazione conforme da parte degli organi della giurisdizione tributaria e dall’amministrazione finanziaria, tesi a porre fine al trattamento discriminatorio che i fondi d’investimento vigilati stabiliti in Stati extra-Ue subiscono in forza del regime fiscale attualmente previsto rispetto ai dividendi e capital gain di fonte italiana da questi realizzati.

Si ritiene infatti che, nella misura in cui gli organismi di investimento collettivo del risparmio extra-UE, diversi da quelli immobiliari, siano “sottoposti a forme di vigilanza prudenziale” (cfr. art. 73, comma 5-quinquies, del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917) e siano stabiliti in Stati “che consentono un adeguato scambio di informazioni”[11] non possono essere addotti motivi imperativi di interesse generale per giustificare la differenza di trattamento rispetto ai fondi non immobiliari domestici e/o europei “qualificati” (ai sensi della Legge di Bilancio 2021) e, in ultima istanza, la restrizione della libertà di circolazione dei capitali prevista dall’art. 63 TFUE.

Del pari, a parere di chi scrive, le Sentenze (unitamente alla sentenza della Corte di Cassazione n. 21598/2022) hanno reso palese l’illegittimità dell’efficacia temporale stabilita dalla Legge di Bilancio 2021 per la norma di esenzione delle plusvalenze e dei dividendi realizzati dagli OICR UE/SEE qualificati. Anche in questo caso, dunque, sarebbe apprezzabile un intervento chiarificatore da parte degli organi competenti teso a risolvere questo ulteriore profilo di incoerenza della disciplina domestica.

Non da ultimo, come già rilevato con riferimento ai fondi d’investimento interessati dal regime di esenzione previsto dalla Legge di Bilancio 2021[12], i principi di diritto espressi dalla Corte di Cassazione nelle sentenze in commento dovrebbero essere destinati ad influenzare, in via indiretta ed a maggior ragione, anche il caso di fondi esteri che partecipano in società italiane per il tramite di sub-holding localizzate in altri Stati che consentono un adeguato scambio di informazioni con l’Italia.

Sul punto, infatti, occorre ricordare che, secondo la Circolare n. 6 del 30 marzo 2016, nel caso di dividendi incassati (o plusvalenze realizzate) da una società madre comunitaria partecipata in ultima istanza da un fondo estero, l’Agenzia delle Entrate può, in presenza di una struttura intermedia d’investimento priva di sostanza economica e in mancanza di ragioni extra fiscali non marginali, disconoscere l’applicazione di eventuali regimi fiscali premiali beneficiati dalla struttura intermedia applicando il regime ordinariamente previsto per il fondo.

In conclusione.

I fondi di investimento stranieri rappresentano uno dei principali motori per il progresso e la sostenibilità dell’economia italiana. Grazie alla loro attenzione per il mercato nazionale le imprese domestiche hanno potuto conoscere processi espansivi notevolissimi, garantendo altresì stabilità economica per tutte le persone da questi impiegate. Si ritiene dunque di cruciale importanza garantire che agli operatori del settore sia assicurato un trattamento pienamente conforme ai principi unionali. È infatti evidente che il vantaggio macroeconomico garantito dai predetti investimenti esteri sia di gran lunga superiore rispetto ad un paventato “pericolo di una perdita di gettito” (motivazione, quest’ultima, a cui peraltro, come giustamente notato dalla Sentenze, “la giurisprudenza comunitaria ha negato l’idoneità a legittimare trattamenti discriminatori”).

 

[1] Cfr. sul punto, L. Rossi, M. Ampolilla, F.Y. Lissoni, Dividendi corrisposti a (e plusvalenze realizzate da) fondi di investimento esteri, Diritto Bancario, 6 maggio 2022.

[2] Per un primo commento alla riforma introdotta dalla Legge di Bilancio 2021, cfr. L.Rossi, M. Ampolilla, Fondi di investimento esteri: le novità al regime di tassazione nel Ddl di Bilancio 2021, Diritto Bancario, 16 dicembre 2020.

[3] Come noto infatti, l’art. 1, commi 631 e 633, della Legge di Bilancio 2021 ha reso applicabile il regime di esenzione in parola esclusivamente nei confronti degli OICR istituiti in Stati membri dell’Unione Europe (o aderenti all’Accordo sullo spazio economico europeo che consentono un adeguato scambio di informazioni) operanti secondo il quadro normativo e regolamentare di fonte comunitaria previsto dalla Direttiva 2009/65/CE (“Direttiva UCITS”) e dalla Direttiva 2011/61/UE (c.d. “Direttiva AIFM”) soggetti (ovvero gestiti da un gestore soggetto) a forme di vigilanza prudenziale da parte delle autorità competenti.

[4] Cfr., inter alia, i contributi richiamati nelle precedenti note 1 e 2.

[5] Sul punto, si veda anche G. Bizioli, Dividendi a fondi Usa: il diritto Ue limita l’aliquota applicabile, il Sole 24 Ore, 1 agosto 2022 e F. Brunelli, R. Villa, Sui fondi extra-Ue tassazione ancora discriminatoria, il Sole 24 Ore, 26 luglio 2022.

[6] Il riferimento è, in particolare, all’art. 9, comma 2, della legge del 23 marzo 1983, n. 77.

[7] Per completezza, si rileva altresì che la Corte di Giustizia ha censurato altre volte la normativa di numerosi Stati membri che trattavano in modo differente i fondi residenti rispetto a quelli istituiti all’estero, dichiarandola incompatibile con la libera circolazione dei capitali di cui all’art. 63 TFUE; si veda al riguardo sentenza del 18 giugno 2009, C-303/07, Aberdeen; sentenza 10 maggio 2012, Santander da C-338/11 a C-347/11; sentenza del 21 giungo 2018, C-480/16, Fidelity Funds; e sentenza 30 gennaio 2020, C-156/17, Ka Deka.

[8] Per un maggior approfondimento sul tema, sia concesso rinviare alla L.Rossi, M. Ampolilla, Direttiva madre-figlia – Holding estere detenute da fondi internazionali e libertà di circolazione dei capitali, Diritto Bancario, 10 settembre 2020.

[9] Sul punto, peraltro, occorre segnalare anche la pubblicazione della sentenza della Corte di Cassazione n. 21598 del 7 luglio 2022. Nella fattispecie oggetto di esame, in particolare, la Suprema Corte ha affrontato un caso, analogo a quello delle Sentenze, sollevato da un fondo d’investimento tedesco rispetto a dividendi percepiti da società italiane nel 2003. Ebbene anche in questo caso i giudici di legittimità hanno stabilito il principio in forza del quale “in tema di dividendi distribuiti, nel 2003, da società residenti in Italia ad un fondo comune d’investimento mobiliare aperto residente in Germania – le cui quote o azioni siano sottoscritte esclusivamente dai soggetti non residenti in Italia di cui al D.Lgs. n. 461 del 1997, art. 9, comma 3, e D.Lgs. n. 239 del 1996, n. 2396, art. 6, comma 1, e successive modificazioni – la Convenzione Italia-Germania, art. 10, par. 2, per il quale “tali dividendi possono essere tassati anche nello Stato contraente di cui la società che paga i dividendi è residente, ed in conformità alla legislazione di detto Stato”, va interpretato – secondo il canone di buona fede ex art. 31 del Trattato di Vienna ed i principi della fiscalità comunitaria ed internazionale, per evitare la violazione dell’art. 63 T.F.U.E. in materia di libera circolazione dei capitali tra Stati membri – nel senso che anche ai predetti dividendi si applica l’esenzione prevista, con riferimento all’imposta sostitutiva sul risultato della gestione, per gli organismi d’investimento collettivo mobiliare residenti, dal D.Lgs. n. 461 del 1997, art. 9, comma 4, vigente ratione temporis”. Per ulteriori considerazioni sul tema di veda anche M. Leo, Imposte sui dividendi: i fondi esteri discriminati, il Sole 24 Ore, 27 luglio 2022.

[10] Al riguardo, si vedano i principi espressi dalla Corte di Giustizia nella già richiamata sentenza c-190/12, secondo cui la giustificazione attinente la necessità di garantire l’efficacia dei controlli fiscali non è ammissibile quando “esiste un contesto normativo di reciproca assistenza amministrativa (…) che consente lo scambio di informazioni che risultino necessarie ai fini dell’applicazione della normativa tributaria”. In merito alla rilevanza degli accordi stipulati tra la Repubblica italiana e Stati terzi, d’altronde, si ricorda che proprio l’Introduction al Modello TIEA specifica come “the Agreement is intended to establish the standard of what constitutes effective exchange of information for the purposes of the OECD’s initiative on harmful tax practices”. Un’ulteriore conferma al riguardo sembra poi potersi implicitamente rilevare dal fatto che gli Stati che hanno sottoscritto TIEA con la Repubblica italiana sono stati inclusi nella cd. “White List” di cui al D.M. 4 settembre 1996; infatti, se il legislatore domestico non avesse ritenuto tali accordi internazionali quali adeguati al fine di contrastare, tra l’altro, fenomeni di evasione fiscale, sembra difficile immaginare che avrebbe comunque accettato la relativa inclusione nel decreto ministeriale citato. In questo senso, del resto, basti ricordare che secondo il commentario OCSE all’art. 1 del Modello TIEA “The Agreement is limited to exchange of information that is foreseeably relevant to the administration and enforcement of the laws of the applicant Party concerning the taxes covered by the Agreement. The standard of foreseeable relevance is intended to provide for exchange of information in tax matters to the widest possible extent (…)”.

[11] Per completezza, occorre precisare che, nonostante le Sentenze (e la sentenza n. 21598/2022, citata) si siano espresse rispetto a fattispecie che vedano coinvolti fondi di investimento mobiliari “aperti”, non si rinvengono motivi utili a giustificare un diverso trattamento per i fondi mobiliari “chiusi” (a condizione che siano soggetti ad adeguate forme di vigilanza e stabiliti in Stati che permettano un adeguato scambio di informazioni). Ciò che, d’altronde, sarebbe coerente con la scelta del legislatore italiano di includere tra i fondi UE/SEE beneficiari del regime di esenzione introdotto dalla Legge di Bilancio 2021 anche i fondi “AIFMD compliant” e, dunque, anche fondi “chiusi”.

[12] Sul punto, cfr. ancora, il contributo citato nella precedente nota. 2

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