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Attualità

Le novità del Decreto Crescita sul rientro dei lavoratori dall’estero: entrata in vigore e possibili discriminazioni

17 Aprile 2019

Luca Rossi e Marina Ampolilla, Studio Tributario Associato Facchini Rossi & Soci

Di cosa si parla in questo articolo

1. Le modifiche recate dal Decreto Crescita alla normativa sui lavoratori impatriati

Lo Schema di decreto recante misure urgenti per la crescita economica modifica, per l’ennesima volta, le disposizioni di favore previste per il rientro in Italia di lavoratori residenti all’estero (cfr. art. 4 dello schema di D.L.). In particolare, le modifiche proposte al regime degli impatriati di cui all’art. 16, comma 1 del D.Lgs. n. 147/2015 prevedono, per i soggetti che trasferiscono la residenza in Italia, ai sensi dell’art. 2 del T.U.I.R., a partire dal 2020:

  • l’incremento dell’agevolazione;
  • la semplificazione delle condizioni per accedere al regime fiscale di favore;
  • l’estensione dell’agevolazione ai soggetti che avviano un’impresa;
  • l’incremento dell’agevolazione al ricorrere di determinati requisiti (numero di figli minorenni, acquisto di una unità immobiliare residenziale in Italia, trasferimento della residenza in alcune regioni del Mezzogiorno).

Più in dettaglio, la nuova disposizione prevede la riduzione dal 50% al 30% della percentuale di concorso alla formazione del reddito imponibile. Al fine di accedere al regime agevolato è unicamente richiesto che: (i) i lavoratori non siano stati residenti in Italia nei due periodi d’imposta precedenti al trasferimento e si impegnino a rimanervi per almeno due anni; (ii) l’attività lavorativa sia prestata prevalentemente in Italia.

A differenza della normativa attualmente vigente, la nuova normativa – se approvata senza ulteriori modifiche – presenta un ambito soggettivo più ampio in quanto non prevede limitazioni quanto alla natura dell’attività lavorativa svolta ovvero al titolo di studio richiesto[1]. Pertanto, potrebbero accedere al beneficio anche soggetti non in possesso di un titolo di laurea e/o che non ricoprono ruoli dirigenziali. La nuova disposizione, così come ampliata, potrebbe avere un effetto attrattivo, ad esempio, nei confronti degli sportivi la cui prestazione costituisce oggetto di lavoro subordinato ai sensi dell’art. 3, comma 1 della L. 23 marzo 1981, n. 91.

Anche per i soggetti diversi da quelli di cui al comma 2 dell’art. 16[2], viene ridotto da 5 a 2 anni il periodo minimo di residenza all’estero precedente al rientro in Italia. La nuova norma non pone condizioni quanto alla natura del datore di lavoro: il datore di lavoro può essere, quindi, sia una impresa residente sia una impresa estera (anche non collegata alla società italiana presso cui il lavoratore svolge la propria prestazione), purché l’attività di lavoro sia svolta prevalentemente in Italia.

Ai fini del regime agevolativo rilevano non solo i rapporti di lavoro dipendente o assimilati a quelli di lavoro dipendente, ma il suddetto regime viene esteso anche ai soggetti che avviano un’attività di impresa.

L’agevolazione di norma si applica per un periodo di 5 anni ai sensi del comma 3 dell’art. 16 del D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 147. Tuttavia, la nuova disposizione prevede il prolungamento dell’agevolazione per ulteriori 5 periodi d’imposta ai lavoratori con almeno un figlio minorenne o a carico (anche in affido preadottivo), o nel caso in cui i lavoratori diventino proprietari di almeno una unità immobiliare di tipo residenziale in Italia. L’unità immobiliare può essere acquistata successivamente al trasferimento o nei dodici mesi precedenti al trasferimento direttamente dal lavoratore oppure dal coniuge, dal convivente, dai figli anche in comproprietà. In entrambi i casi, negli ulteriori 5 periodi d’imposta i redditi concorrono alla formazione del reddito complessivo nei limiti del 50% (anziché del 30% come avviene nei primi 5 anni). Viceversa, per i lavoratori che abbiano almeno tre figli minorenni o a carico, anche in affido preadottivo, l’agevolazione negli ulteriori 5 periodi è maggiorata in quanto i redditi concorrono limitatamente al 10% del loro ammontare. La percentuale è ridotta al 10% anche per i soggetti che trasferiscono la residenza in una delle seguenti aree: Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sardegna, Sicilia.

La nuova normativa, al comma 1 lett. f), prevede che possano accedere all’agevolazione anche i soggetti che non si sono mai iscritti all’AIRE (rimanendo, quindi, iscritti nell’anagrafe della popolazione residente) “purché abbiano avuto la residenza in un altro Stato ai sensi di una convenzione contro le doppie imposizioni sui redditi” per il periodo minimo (due anni) richiesto dalla norma. Tale disposizione è stata introdotta al precipuo fine di evitare che possano essere esclusi dall’agevolazione, per un motivo meramente formale, quei soggetti che, pur avendo trasferito in senso sostanziale la propria residenza all’estero, fossero da considerarsi residenti in Italia ai sensi dell’art. 2 del T.U.I.R. per aver dimenticato di cancellarsi dall’anagrafe della popolazione residente[3]. Analoga disposizione è stata introdotta anche con riferimento ai lavoratori già impatriati entro il 31 dicembre 2019 e che abbiano applicato ai periodi d’imposta chiusi e già accertati (o suscettibili di accertamento) le disposizioni dell’art. 16, comma 1 del D.Lgs. n. 147/2015 nel testo pro tempore vigente. Tale ultima disposizione è stata introdotta, con finalità deflattive del contenzioso, al fine di estinguere (o prevenire l’insorgere di) le controversie fondate sulla mancanza del requisito dell’iscrizione all’AIRE.

2. Dubbi interpretativi e possibili discriminazioni

La modifica normativa proposta dal D.L. pone alcuni dubbi interpretativi. Il primo e più rilevante concerne l’entrata in vigore delle nuove (e più favorevoli) disposizioni. Infatti, ai sensi del comma 2 dell’art. 4 del D.L. le nuove disposizioni recate dal comma 1 del medesimo D.L. si applicano “ai soggetti che trasferiscono la residenza in Italia ai sensi dell’art. 2 del testo unico delle imposte … a partire dall’anno 2020”. Ne discende che, stando al tenore letterale della disposizione, ai lavoratori che hanno trasferito la residenza in Italia anteriormente al periodo d’imposta 2020[4] dovrebbero spettare le agevolazioni contenute nell’art. 16, comma 1 del D.Lgs. n. 147/2015 nel testo vigente anteriormente alle modifiche da ultimo recate dal D.L.. Tale lettura, che appare invero ingiustificatamente penalizzante, pare confermata indirettamente anche dalla lettura del comma 1, lett. f) dell’articolo in commento. Tale norma, infatti, al fine di risolvere (e prevenire) il contenzioso concernente i lavoratori già rientrati in Italia entro il 31 dicembre 2019 che non avevano provveduto ad iscriversi all’AIRE, dispone espressamente la “sopravvivenza” della previgente normativa, prevedendo che con riferimento ai periodi d’imposta ancora accertabili (ivi incluso il 2019) “spettano i benefici fiscali di cui al presente articolo (art. 16, n.d.r.) nel testo vigente al 31 dicembre 2018, purché abbiano avuto la residenza in un altro Stato ai sensi di una convenzione”.

Stando alla ricostruzione innanzi illustrata, i soggetti che si trasferiscono in Italia a partire dal 2020 (ma lo stesso dovrebbe valere anche per coloro che si trasferiscono in Italia nella seconda metà del 2019 i quali, in base all’art. 2 del T.U.I.R. acquisiscono la residenza fiscale a partire dal 2020[5]) potrebbero beneficiare del nuovo (e più favorevole) regime fiscale, mentre i soggetti rientrati anteriormente al 31 dicembre 2018 ovvero quelli che rientreranno entro la prima metà del 2019 dovrebbero applicare, per il periodo d’imposta in cui avviene il trasferimento della residenza e per i 4 periodi d’imposta successivi, il regime previsto dall’art. 16 nel testo previgente, il quale non solo richiedeva condizioni di accesso più restrittive, ma prevedeva un regime decisamente meno favorevole giacché, come innanzi rilevato, la percentuale di esonero da imposizione è stata da ultimo elevata dal 50% al 70%. Inoltre, ai soggetti impatriati anteriormente al periodo d’imposta 2020 non potrebbero applicarsi neppure le disposizioni di cui al comma 3-bis e 5-bis dell’art. 16 che, al ricorrere di particolari condizioni legate al numero dei figli minorenni, all’acquisto di una casa ovvero al trasferimento in determinate regioni del mezzogiorno, dispongono l’incremento e/o il prolungamento dell’agevolazione.

Al fine di evitare ingiustificate quanto inopportune discriminazioni sarebbe auspicabile, in sede di approvazione del testo definitivo del decreto ovvero in sede di conversione, estendere il nuovo regime (compresa l’eventuale proroga) anche a coloro che abbiano già trasferito la residenza in Italia anteriormente al periodo d’imposta 2020 per i periodi d’imposta residui (e successivi a quello in corso al 31 dicembre 2019) che beneficiano del regime agevolato.

Da ultimo, si evidenzia che a seguito delle modifiche introdotte che hanno notevolmente semplificato i requisiti richiesti per l’accesso al regime agevolato, non è chiaro l’attuale ambito applicativo del regime di cui al comma 2 del citato art. 16. Ed infatti, al fine di accedere all’agevolazione il citato comma 2 richiede una serie articolata di requisiti quali: il possesso del titolo di laurea, lo svolgimento di una attività di lavoro o studio all’estero per un periodo minimo di due anni, la cittadinanza di uno Stato UE o di uno Stato extra-UE con il quale risulti in vigore una convenzione o un accordo che assicuri lo scambio di informazioni in materia fiscale. Inoltre, sebbene l’art. 16, comma 2 (a differenza del previgente comma 1) non richieda espressamente un periodo di residenza minima all’estero, l’Amministrazione finanziaria in più di una occasione ha precisato che “la norma presuppone … che il soggetto non sia stato residente in Italia per un periodo minimo precedente all’impatrio”. Inoltre, poiché la norma richiede un periodo minimo di studio o lavoro all’estero di due anni, l’Amministrazione finanziaria ha ritenuto che “la residenza all’estero per almeno due periodi d’imposta costituisca il periodo minimo sufficiente ad integrare il requisito della non residenza nel territorio dello Stato e a consentire, pertanto, l’accesso al regime agevolativo”[6].

Poiché un soggetto in possesso di tutti i requisiti di cui al comma 2 dell’art. 16 prima elencati integra, per definizione, anche i requisiti previsti dal nuovo comma 1 del citato art. 16 il quale richiede soltanto che: a) i lavoratori non siano stati residenti in Italia nei due periodi d’imposta precedenti al trasferimento e b) l’attività lavorativa sia prestata prevalentemente nel territorio italiano, ci si chiede se sia necessario mantenere il suddetto comma 2 o se non sia opportuno prevederne l’abrogazione, trattandosi di una norma ormai superflua.


[1] Si rammenta che al fine di beneficiare della attuale agevolazione, il comma 1 dell’art. 16 richiede che i lavoratori svolgano funzioni direttive e/o siano in possesso di requisiti di elevata qualificazione o specializzazione; mentre il successivo comma 2 richiede il possesso di un titolo di laurea.

[2] Relativamente ai requisiti di cui al comma 2 dell’art. 16 si rinvia infra nel testo.

[3] Si ricorda che ai sensi dell’art. 2, comma 2 del T.U.I.R. “si considerano residenti le persone che per la maggior parte del periodo d’imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del Codice civile”. Le tre condizioni enunciate nella disposizione sopra riportata sono tra loro alternative; pertanto, la sussistenza anche di una sola di esse (come ad esempio l’iscrizione nell’anagrafe della popolazione residente) è sufficiente a far ritenere integrato il requisito della residenza in base alla normativa interna. Ciò tuttavia non esclude che in base alle disposizioni convenzionali le quali risolvono i conflitti di residenza sulla base di indici sostanziali e non formali (tie break rules) l’individuo sia da considerare residente nello Stato estero.

[4] Si precisa che considerato che, ai sensi dell’art. 2, comma 2 del T.U.I.R., per stabilire la residenza fiscale rileva la situazione esistente “per la maggior parte del periodo d’imposta”, coloro che trasferiscono in Italia il domicilio o la residenza o che si iscrivono all’anagrafe della popolazione residente nella seconda metà del 2019 si considereranno fiscalmente residenti in Italia solo a partire dal 2020.

[5] A questi fini dovrebbe essere irrilevante la circostanza che l’eventuale convenzione stipulata con il Paese di provenienza preveda il principio dello split year in quanto, in base all’art. 2, comma 2 del T.U.I.R. un soggetto rientrato nella seconda metà del 2019 si considererà fiscalmente residente in Italia solo a partire dal 2020, a prescindere dalla circostanza che lo stesso cessi di essere residente nello Stato estero nel corso del 2019. Resta fermo che, eventuali redditi di lavoro percepiti nel 2019 da un datore di lavoro residente per prestazioni di lavoro svolte in Italia saranno comunque assoggettate a tassazione in Italia in capo al lavoratore non residente.

[6] Cfr., Risoluzione n. 51/E del 6 luglio 2018.

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