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Approfondimenti

Le irrisolte criticità dell’imposizione fiscale indiretta applicata agli accordi in esecuzione degli strumenti di composizione della crisi di impresa

9 Maggio 2017

Avv. Matteo Bascelli, Partner, CBA Studio Legale e Tributario

Di cosa si parla in questo articolo

Il contesto negoziale oggetto di accertamento

Si è avuta notizia di un recente avviso di liquidazione, con irrogazione delle relative sanzioni, da parte di un’Agenzia delle Entrate marchigiana (Pesaro e Urbino) la quale – a quanto consta per la prima volta in merito all’atto accertato – ha ritenuto di assoggettare a tassazione ai sensi dell’art. 3, Parte Prima della Tariffa allegata al D.P.R. 26 aprile 1986 n. 131 (“TUR”) e, pertanto, all’imposta di registro nella misura dell’1% dell’esposizione debitoria, il riconoscimento di debito contenuto nel corpo di un più vasto accordo di ristrutturazione predisposto e perfezionato tra alcune banche creditrici e una società debitrice in stato di crisi ai sensi e per gli effetti dell’art. 182bis R.D. 16 marzo 1942 n. 267.

Com’è prassi negli accordi in parola – necessariamente sottoscritto tra le parti in autentica notarile di firma per consentire l’esecuzione degli adempimenti di legge (deposito a R.I. e presso il Tribunale competenti) – la previsione negoziale presa in esame dall’AdE riguarda l’usuale clausola in forza della quale con la sottoscrizione dell’accordo stesso la società debitrice riconosce espressamente l’esistenza, la validità e l’esigibilità dei debiti scaduti verso le banche creditrici, cosiddette “aderenti” all’accordo di ristrutturazione, generati dalla congerie di rapporti creditizi pregressi, a breve e a medio/lungo termine, chirografari e garantiti, oggetto della complessiva manovra finanziaria di rinegoziazione.

Il riconoscimento del debito – Inquadramento dogmatico e natura civilistica

E’ noto che la tassabilità della ricognizione del debito – civilisticamente contemplata assieme alla promessa di pagamento dall’art. 1988 cod. civ. – risulta ancora oggi questione oggetto di un vivace dibattito dottrinale e di ondivaghe pronunce da parte dell’Erario e della giurisprudenza tributaria.

Diversamente da quanto avveniva nella legge di registro contenuta nel R.D. 30 dicembre 1923 n. 3269, che all’art. 28, Tariffa, Allegato A, prevedeva espressamente la tassazione dell’atto, stabilendone l’aliquota dell’1,5%, il silenzio dell’odierna normativa in merito alla tassazione dell’atto ricognitivo di debito impone all’interprete una non agevole opera di inquadramento dogmatico e di ricostruzione della natura civilistica dello stesso, in ossequio dell’insegnamento della stessa Direzione Centrale Normativa dell’AdE (Risoluzione 12 febbraio 2010 n. 8/E), secondo la quale, per costante giurisprudenza di legittimità, la disciplina civilistica di un istituto è applicabile al campo tributario qualora l’ordinamento tributario non disciplini autonomamente la materia con norme proprie (come accade nella fattispecie).

L’obiettivo di tale analisi sta nell’esigenza di fornire risposta alla domanda fondante dell’eventuale gravame fiscale, ossia se sussista il presupposto impositivo derivante dal contenuto patrimoniale dell’atto di riconoscimento di debito, conseguente al trasferimento di ricchezza tra le parti che con esso si intenda effettuare (per onestà intellettuale si ricorda che, secondo alcuni, l’art. 1 del TUR che fa ricadere nel proprio ambito applicativo gli “atti soggetti a registrazione e quelli volontariamente presentati per la registrazione” porterebbe a concludere che l’imposta di registro rientra a pieno titolo nella categoria delle cosiddette “imposte d’atto”, ossia tra quelle imposte con cui si intende colpire un determinato atto giuridico e non il trasferimento di ricchezza ad esso eventualmente sotteso).

In forza della ricognizione del debito, l’autore della stessa dichiara di riconoscere l’esistenza del proprio debito, con la conseguenza di dispensare il creditore destinatario della stessa dall’onere di provare il rapporto fondamentale o sottostante, la cui esistenza si presume sino a prova contraria; si assiste, quindi, ad un effetto processuale tipico rappresentato dall’inversione dell’onere della prova a favore del creditore il quale sarà così dispensato dall’obbligo di agire a mente dell’art. 2697 cod. civ. (relevatio ab onere probandi), dovendo, diversamente, provare i fatti che costituiscono il fondamento del diritto per il quale si agisca in giudizio.

Con il riconoscimento del debito, quindi, il debitore che se ne faccia latore presso il proprio creditore non interviene in senso modificativo sul rapporto sottostante (ossia sull’obbligazione originaria che ha generato il debito), né tantomeno assume una nuova obbligazione, facendola così sorgere, ma semplicemente da luogo alla suddetta astrazione processuale, assumendo l’onere di fornire l’eventuale prova contraria in merito all’esistenza, alla validità, all’efficacia e all’esigibilità del rapporto fondamentale, ove lo stesso risulti difforme da quanto riconosciuto.

La circostanza che la ricognizione del debito abbia solo ed unicamente effetti sul piano probatorio (oltre ad avere un effetto interruttivo della prescrizione ai sensi dell’art. 2944 cod. civ.) e non anche, e in nessun modo, su quello obbligatorio, la fa tradizionalmente distinguere da altre figure (pur in parte assimilabili e, alcune, oggetto di specifica tassazione), come:

– la confessione giudiziale (art. 2733 cod. civ.) e stragiudiziale (art. 2735, comma 1, cod. civ.), dalla quale originano vere e proprie prove legali vincolanti per il giudice;

– la promessa di pagamento (pure ospitata nell’art. 1988 cod. civ.), con la quale la parte promittente assume l’obbligazione solutoria (per alcuni autonoma dal rapporto fondamentale) oggetto della promessa (assente, invero, dalla mera ricognizione di debito, nella quale il debitore non esprime alcuna volontà, limitandosi a certificare una situazione già esistente);

– la remissione del debito (art. 1236 cod. civ.), che con tutta evidenza modifica l’obbligazione di pagamento, estinguendola, in tutto o in parte, in modo diverso dall’adempimento;

– i negozi di accertamento, in forza dei quali le parti pur intervenendo su una situazione giuridica pregressa, connotata da profili di incertezza, ne stabiliscono in maniera vincolante termini e condizioni, integrando in tal modo un’autonoma fonte di obbligazione e precludendosi la possibilità di contestare successivamente il rapporto sottostante così come accertato (circostanza che non ricorre, invece, con la ricognizione del debito, che rileva solo a mente dell’art. 2697 cod. civ., potendo il dichiarante sempre fornire prova contraria).

Si sostiene – più in generale – in dottrina che la ricognizione di debito esuli dal genus dei negozi giuridici (anche laddove li si volesse assimilare alla sub-categoria di negozi improduttivi di effetti sostanziali, ossia incapaci di originare obbligazioni, avendo esclusivamente efficacia ed effetti probatori e processuali, limitandosi a confermare il rapporto sottostante preesistente), per essere, invece, mera dichiarazione unilaterale di scienza resa dal debitore contro se stesso[1].

La suddetta qualificazione risulta, peraltro, coerente con l’analisi condotta dalla più qualificata dottrina[2] che ha addirittura criticato la collocazione della ricognizione di debito sotto il Titolo IV – “Delle promesse unilaterali” del Libro IV del codice civile, non potendosi essa configurare né quale promessa, né quale negozio giuridico. In particolare, si è osservato che la ragione principale per cui si è dubitato e si può dubitare che il riconoscimento di debito sia un negozio giuridico obbligatorio (cioè fonte di una propria obbligazione) sta nella circostanza che il debitore che se ne è fatto autore non è tenuto fatalmente ad adempiere, ma dovrà farlo solo se non riesce a provare l’inesistenza del debito; al pari, se si guarda a ciò che può esigere il creditore quando ha in mano il documento ricognitivo, si deve constatare che quest’ultimo nulla ha aggiunto all’obbligazione precedente.

L’affermazione che il riconoscimento di debito sia da qualificare quale mera dichiarazione di scienza risulta poi pienamente compatibile con la risposta che tradizionalmente si offre allorché ci si interroghi sull’utilità sociale (funzione, causa) insita nel riconoscimento. Con questo, ha scritto autorevole dottrina, non si fissa né si accerta perentoriamente il rapporto sottostante, quanto piuttosto lo si “irrobustisce”, rendendo più solida la posizione di chi vorrà farlo valere e tale scopo si realizza non in quanto il rapporto sia definitivamente ed irrimediabilmente accertato, ma nel senso che la controparte sarà esonerata dall’onere della prova[3].

L’assenza di contenuto patrimoniale e le conseguenze sulla relativa tassazione. La diversa tesi civilistica della natura dichiarativa dell’atto di riconoscimento del debito e la rilevanza dell’alternatività IVA-registro.

L’esito della sopra ricordata ricostruzione dogmatica e qualificazione civilistica dovrebbe condurre ad escludere qualsiasi valenza patrimoniale alla ricognizione del debito, incapace per sua natura di alcun effetto modificativo sul rapporto sottostante, né generatrice di obbligazioni nuove e autonome rispetto al primigenio rapporto sottostante, come tale non suscettibile di valutazione economica idoneo a rilevare un indice di capacità contributiva. La natura (e il conseguente effetto) meramente confermativo o ricognitivo in senso stretto del riconoscimento di debito non modifica, infatti, la sfera patrimoniale delle parti in atto, ma si limita a “cristallizzare” un’obbligazione già esistente e in nulla modificata dallo stesso.

Ove si accedesse alla definitiva qualificazione dell’atto di riconoscimento di debito quale mera dichiarazione di scienza, priva di contenuto patrimoniale autonomo, accedendo e, quindi, presupponendo, una preesistente situazione giuridica potenzialmente rilevante sotto un profilo impositivo, sulla quale impatta solo ed unicamente a livello probatorio / processuale, se ne dovrebbe allora dedurre l’assoggettamento ad imposta di registro non certo proporzionale, bensì in misura fissa a mente dell’art. 11, Tariffa, Parte I, TUR, secondo il quale scontano l’imposta in misura fissa (e, nei casi di seguito indicati, in termine fisso) tra gli altri, gli atti pubblici e le scritture private autenticate (come nel caso della ricognizione contenuta nell’accordo di ristrutturazione oggetto di accertamento) non aventi per oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale.

A proposito degli atti non aventi ad oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale, si ricorda che gli stessi possono avere natura negoziale (come le procure) o meno (ad esempio i verbali assembleari, oltre, appunto, agli atti ricognitivi).

E’ stato peraltro acutamente osservato che anche laddove si volesse aderire alla diversa tesi civilistica della natura dichiarativa propria dell’atto di riconoscimento del debito, la soluzione al quesito circa il corretto trattamento tributario ai fini dell’imposta di registro applicabile allo stesso (assumendo, come interessa ai fini della presente analisi, che la ricognizione acceda a rapporti di natura creditizia), dovrebbe trovarsi nel principio di alternatività tra IVA e registro[4].

In forza del combinato disposto dell’art. 21 (in base al quale se la dichiarazione contenuta in un atto, come ad esempio la ricognizione del debito, si colloca in un rapporto di derivazione necessaria dal contratto che si è concluso, come nel caso di finanziamenti bancari che hanno originato i debiti riconosciuti, la dichiarazione successiva non è suscettibile di autonomo assoggettamento ad imposta) e dell’art. 40 del TUR (secondo il quale per gli atti relativi a beni e prestazioni di servizi soggetti all’IVA l’imposta di registro si applica in misura fissa), la ricognizione del debito andrebbe comunque tassata in misura fissa posto che il debito del quale il dichiarante si riconosce onerato è rappresentato da prestazioni soggette ad IVA (interessi corrispettivi da pagare e capitale finanziato da restituire).

Le pronunce giurisprudenziali e gli orientamenti dell’amministrazione fiscale

Non può tuttavia tacersi che la suddetta conclusione parrebbe non condivisa dalla giurisprudenza tributaria la quale ha di recente avuto modo di esprimersi in termini quantomeno dubitativi in merito ad una scrittura privata di ricognizione di debito allegata a supporto di un ricorso per decreto ingiuntivo[5]. In tale circostanza, la Suprema Corte, cassando la sentenza emessa dalla Commissione regionale della Lombardia la quale aveva confermato l’annullamento dell’avviso di liquidazione sostenendo che l’atto di ricognizione di debito, posto a base della domanda di ingiunzione, non avendo a oggetto prestazioni di carattere patrimoniale, doveva essere registrato soltanto in caso d’uso, ha ricordato che quest’ultimo ricorre (anche) quando un atto si deposita presso le cancellerie giudiziarie per l’acquisizione dell’atto medesimo a fini giuridici ed operativi.

Oltre a soffermarsi, più diffusamente, sul caso d’uso, per quanto qui più interessa con la stessa sentenza la Corte di Cassazione ha affermato, pur senza alcun approfondimento, che “è difficile negare che la patrimonialità pertenga all’obbligazione certificata in una scrittura ricognitiva di debito”, conseguendone, sempre secondo la Suprema Corte, che agli atti ricognitivi di un debito giova la previsione generale dell’art. 9, Parte I, a tenore del quale vanno registrati in termine fisso gli atti diversi da quelli altrove indicati aventi per oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale.

E’ il caso di segnalare che in tale pronuncia, tuttavia, la Corte di Cassazione non ha statuito alcunché in punto di aliquota da applicarsi all’atto ricognitivo, questione invece affrontata in altre pronunce della stessa Corte[6], nonché in alcune pronunce di Commissioni regionali[7], nelle quali gli atti in parola sono stati qualificati come aventi natura dichiarativa di un preesistente rapporto giuridico ai quali risulta quindi applicabile l’aliquota dell’1% prevista dall’art. 3 della Tariffa allegata al TUR.

Le conclusioni alle quali giunge la giurisprudenza tributaria oltre a non essere condivise dalla dottrina che con disamina attenta include gli atti ricognitivi tra le mere dichiarazioni di scienza, il cui effetto è di natura eminentemente probatorio e di astrazione processuale, senza che vi sia alcuna manifestazione di volontà negoziale, né produzione (ma neppure modifica alcuna) di una situazione giuridica che ad esso preesiste e allo stesso sopravvive intatta (interpretazione che risulta peraltro accolta anche da alcune, invero non numerose, pronunce giurisprudenziali[8]), risultano ictu oculi contrastanti con le finalità sottese all’introduzione nell’ordinamento concorsuale degli strumenti di composizione della crisi di impresa, il cui utilizzo, oramai ampiamente diffuso complice la crisi economica ancora in corso, è finalizzato al risanamento dei debitori in stato di tensione finanziaria, ove non addirittura insolventi, chiedendo ai creditori (tra i quali, quasi sempre, l’Erario e gli Enti Previdenziali) ingenti sacrifici in termini di dilazione temporale e diminuzione dell’onerosità dei termini rimborsuali, in alcuni casi accompagnati anche dalla concessione di nuova finanza a tassi calmierati.

In termini (meramente) adesivi rispetto alle pronunce sopra richiamate – senza tuttavia offrire una propria lettura interpretativa – si è espressa anche la Direzione Regionale della Lombardia[9] – “Questioni controverse in materia di imposta di registro”. In tale comunicazione, la DR lombarda si limita a ricordare che la figura della ricognizione di debito non è espressamente disciplinata dal legislatore fiscale, mentre la giurisprudenza di legittimità ha espresso specifico orientamento sul tema, precisando che alla ricognizione di debito, sia essa titolata o pura, in quanto atto avente natura dichiarativa, è applicabile l’aliquota dell’1%, prevista dall’art. 3 della Tariffa Parte Prima allegata al TUR. La menzionata Direzione Regionale ha ritenuto, al riguardo, di poter seguire anche amministrativamente tale orientamento.

E’ stata invece persa un’utile occasione di chiarimento circa la corretta tassazione dell’atto di ricognizione del debito in particolare nell’ambito degli accordi di ristrutturazione dei debiti, allorché la Direzione Centrale Normativa dell’AdE è stata chiamata a fornire risposte a quesiti in materia di imposta di registro da applicare, tra gli altri, ai decreti di omologazione degli stessi e dei concordati preventivi[10].

In tale circostanza la menzionata Direzione ha ritenuto che le posizioni espresse dalla giurisprudenza in ordine al trattamento fiscale del decreto di omologa del concordato preventivo debbano trovare applicazione anche in relazione ai provvedimenti di omologa degli accordi di ristrutturazione dei debiti, riconducendoli nell’ambito applicativo di cui alla lett. g) dell’art. 8 della Tariffa, parte prima, allegata al TUR. In particolare, l’imposta di registro nella misura fissa di Euro 168 è stata ritenuta applicabile anche agli accordi di ristrutturazione del debito (rectius, ai decreti di omologazione degli stessi)[11].

Si è scritto di avere la sensazione di occasione persa in quanto in tale intervento l’AdE ha avuto anche modo di affermare che, in mancanza di una puntuale definizione da parte del legislatore del contenuto degli accordi di ristrutturazione, se il decreto di omologazione in parola costituisca anche titolo per il trasferimento o la costituzione di diritti reali su beni immobili o su altri beni e diritti reali, allora lo sesso dovrebbe essere ricondotto nell’ambito della disposizione dell’art. 8, lett. a), della Tariffa, parte prima, allegata al TUR, con applicazione dell’imposta di registro in misura proporzionale.

Con un ulteriore passo, purtroppo non compiuto, la Direzione Centrale Normativa dell’AdE avrebbe potuto porre definitivo rimedio, per via dell’autorevolezza dell’intervento, ad una vexata quaestio che rischia invece di rappresentare un serio vulnus all’utilizzo stesso degli strumenti di composizione della crisi di impresa.

Conclusioni

La scarsa chiarezza normativa assieme alla vetustà di alcuni aspetti del diritto tributario, tra i quali certamente si annovera la disciplina dell’imposizione indiretta (e, in particolare, quella dell’imposta di registro), la perdita di occasioni utili per una loro revisione in termini coerenti con le finalità di alcuni specifici istituti come quelli introdotti per favorire la conservazione della continuità aziendale, l’atteggiamento forse poco capace di guizzi interpretativi coraggiosi da parte dell’amministrazione finanziaria e giudiziaria, rischiano davvero di relegare il diritto tributario in un isolamento da alcuni definito “narcisistico”, in quanto disancorato dal resto del sistema e caratterizzato da una mera funzione impositrice autogiustificantesi, indifferente rispetto a qualsiasi equo contemperamento con le regole fondanti del quadro giuridico proprio di specifici istituti e con le relative finalità, tra i quali si annoverano gli strumenti di composizione della crisi di impresa[12].

In merito allo specifico contesto nel quale si colloca l’azione accertativa in commento, giova ricordare che l’avviso di liquidazione dell’AdE marchigiana percuote con il proprio impietoso (e forse esiziale) maglio impositore la ricognizione di una debitoria complessiva oggetto di un accordo di ristrutturazione dei debiti che originano da rapporti creditizi i quali hanno già scontato un proprio carico fiscale (con il pagamento di imposte sostitutive ai sensi del D.P.R. 601/1973 per i finanziamenti a ML/T oggetto di riscadenzamento, ovvero delle diverse imposte d’atto negli altri casi), non ponendosi quindi nella fattispecie neppure una questione di enunciazione ovvero di valutare se siano stati adeguatamente sottoposti ad imposta i contratti creditizi ai quali la ricognizione rimanda[13], avendo altresì appena cura di notare che negli accordi esecutivi degli strumenti di composizione della crisi di impresa il riconoscimento del debito risulta già previamente e ampiamente espresso altrove (piano di risanamento/di ristrutturazione/concordatario, relative attestazioni di legge, comunicazioni ex latere debitoris, etc.).

La lettura che si ritiene qui preferibile, ossia della tassazione con aliquota in misura fissa (e non, invece, proporzionale) dell’atto di riconoscimento di debito – una volta condivisane la qualificazione civilistica quale mera dichiarazione di scienza – non risulta peraltro in contrasto con la portata antielusiva dell’art. 20 del TUR, a mente del quale l’imposta di registro è applicata secondo l’intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente (come potrebbe accadere, ad esempio, nel più ampio contesto negoziale di un articolato accordo di ristrutturazione del debito). Con la ricordata disposizione normativa il legislatore ha infatti voluto affermare che ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro gli atti devono essere qualificati esclusivamente in base agli effetti giuridici ad essi tipicamente riconducibili. Coerentemente con tale impostazione è stato osservato, come già scritto, che in assenza di una specifica norma tributaria che disponga diversamente, gli effetti giuridici cui si riferisce espressamente l’art. 20 D.P.R. 131/1986 sono quelli civilistici ai quali l’interprete (ivi incluso l’Erario) deve scupolosamente attenersi.

 


[1] M. Basilavecchia, Tassabilità della ricognizione di debito: dubbi e risvolti processuali, in Rivista di Giurisprudenza Tributaria, 3/2015, pag. 213; V. Pappa Monteforti, La ricognizione di debito nell’imposta di registro, in Notariato, 2/2011, pag. 234 ss.; D. Amendola, Il trattamento della ricognizione di debito ai fini dell’imposta di registro, in Il Fisco, 1/2011, parte 1, pag. 34 ss.; A. Busani, in L’imposta di registro, 2009, pag. 972 ss.

[2] F. Ferri, Autonomia privata e promesse unilaterali, in Banca, borsa e titoli di credito, 1960, I, n. 2, pag. 482 ss.; Corrado, Note sulla ricognizione di debito, in Rivista di diritto commerciale, 1951, II, i ss.; Montesano, Giurisprudenza completa Cassazione civile, 1948, III, pagg. 128 ss.

[3] G. Branca, Delle promesse unilaterali, in Commentario del codice civile a cura di A. Scialoja e G. Branca, 1974, pag. 412 ss.

[4] M. Pulcini, Analisi dell’imposizione indiretta applicabile agli atti contenenti “piani di rientro” di pregressi indebitamenti bancari, redatti per scrittura privata autenticata, in Boll. Trib. 21 – 2010, pagg. 1618 ss.

[5] Cassazione civile, Sez. V, sentenza n. 24107 del 12 novembre 2014.

[6] Cassazione civile, Sez. Trib., sentenza n. 16829 del 20 giugno 2008, sempre in tema di atto di ricognizione di debito allegato a decreto ingiuntivo, e Cassazione civile, Sez. Trib., sentenza n. 12432 del 28 maggio 2007, ove è meno chiara la collocazione dell’atto ricognitivo accertato.

[7] Commissione Tributaria Regione Toscana n. 15 del 15 aprile 2008.

[8] Commissione Tributaria Regione Puglia n. 36 del 27 giugno 2006.

[9] Direttiva Prot. 2011/114394.

[10] Circolare n. 27/E del 21 giugno 2012.

[11] Nella Circolare n. 27/E l’AdE richiama, aderendovi, la risoluzione 26 marzo 2012 n. 27 nella quale è stato chiarito che l’imposta di registro trova applicazione in misura proporzionale nella differente ipotesi del concordato con trasferimento di beni al terzo assuntore. In senso opposto si è tuttavia espressa la Commissione Provinciale di Milano 1303/3/17 secondo la quale in caso di concordato fallimentare (art. 124 l.f.) è illegittimo l’accertamento dell’imposta di registro in misura proporzionale, rilevando ai fini dell’individuazione del presupposto impositivo unicamente la sentenza di omologazione (con registro in misura fissa) e non il terzo assuntore, la cessione dell’attivo fallimentare a suo favore e il contestuale accollo dei debiti. E’ appena il caso di notare come l’orientamento di favore espresso dalla CTP di Milano appaia pienamente coerente non solo con le finalità proprie del concordato con assuntore, ma, vieppiù, con quelle sottese agli strumenti di composizione della crisi di impresa.

[12] Per ulteriori riflessioni in merito al difficile coordinamento tra strumenti di composizione della crisi di impresa e imposizione fiscale, sia consentito rimandare a P.Carrière e M.Bascelli, Profili civilistici degli “accordi esecutivi delle soluzioni negoziate della crisi di impresa” e connesse implicazioni fiscali, in Riv. Dott. Comm. Anno LX, Fasc. 4 – 2009, pag. 723 ss.; P.Carrière e M.Bascelli, La fiscalità “indiretta” negli “accordi esecutivi delle soluzioni negoziate della crisi di impresa”. Nihil sub sole novi, in Riv. Dott. Comm. Anno LXIV, Fasc. 1 – 2013, pag. 63 ss.; A.Bonissoni, M.Bascelli, L.Pangrazzi, La fiscalità “indiretta” e il sostegno alle imprese, anche quelle in crisi: eppur (qualcosa) si muove, in Diritto24, 7 gennaio 2014; M.Bascelli e L.Pangrazzi, L’imposta sostitutiva sui finanziamenti alla luce degli ultimi orientamenti della Cassazione, Diritto Bancario, luglio 2015.

[13] Caveat condivisibilmente accennato dalla stessa Cassazione nelle menzionate sentenze 16829/2008 e 12432/2007.

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