WEBINAR / 26 Giugno
Gestione di informazioni privilegiate: il nuovo regime MAR


Le novità del Listing Act e i nuovi standard europei

ZOOM MEETING
Offerte per iscrizioni entro il 06/06


WEBINAR / 26 Giugno
Gestione di informazioni privilegiate: il nuovo regime MAR
www.dirittobancario.it
Note

La sentenza della Corte d’appello dell’Aja nel caso Milieudefensie et al. c. Shell e i possibili sviluppi del caso Greenpeace et al. c. Eni et al. Il 2025 sarà l’anno decisivo per il contenzioso climatico italiano?

13 Giugno 2025

Raffaele Roberto Severino, Dottorando in Diritto e management della sostenibilità, Università di Siena

Di cosa si parla in questo articolo

SOMMARIO: La recente sentenza della Corte d’appello dell’Aja sul caso Milieudefensie et al. c. Shell ha annullato la storica decisione di primo grado che imponeva alla holding del gruppo Shell di ridurre le emissioni di CO2. La nuova pronuncia, se apparentemente segna un arretramento del contenzioso climatico diretto contro le imprese, in realtà conferma molti degli aspetti più innovativi della decisione annullata e, al netto di qualche profilo di criticità, contribuisce a rafforzare molti dei risultati fin qui maturati, a partire dal caso Urgenda e fino alla recente sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso KlimaSeniorinnen c. Svizzera. Essa offre poi l’occasione per fare il punto sul contenzioso climatico italiano che proprio nel corso del 2025 potrebbe andare incontro a sviluppi decisivi, soprattutto in tema di giurisdizione e legittimazione ad agire. È appena iniziato il secondo grado del c.d. Giudizio Universale, conclusosi in primo grado con una declinatoria di giurisdizione, mentre la c.d. Giusta Causa, intentata da Greenpeace e altri contro Eni davanti al Tribunale di Roma proprio sul modello della controversia olandese, è sospesa in ragione del ricorso ex art. 41 c.p.c. degli attori su cui si pronuncerà a breve la Cassazione. Questo contributo intende analizzare gli aspetti più rilevanti della decisione della Corte d’appello dell’Aja e di maggiore impatto sul contenzioso climatico italiano, cercando di prevederne i possibili prossimi sviluppi.

ABSTRACT: The recent ruling by the Hague Court of Appeal in Milieudefensie et al. v. Shell overturned the landmark first-instance decision that had required Shell’s parent company to reduce its CO₂ emissions. While at first glance the judgment may appear to represent a step back for climate litigation targeting corporations, it actually reaffirms many of the most innovative aspects of the overturned ruling. Despite some critical elements, it contributes to consolidating several key achievements in climate litigation to date —beginning with the Urgenda case and extending to the recent judgment by the European Court of Human Rights in KlimaSeniorinnen v. Switzerland. This decision also offers an opportunity to take stock of climate litigation developments in Italy, where 2025 could prove decisive, particularly regarding issues of jurisdiction and standing. The second-instance proceedings in the so-called Giudizio Universale have just begun, following a first-instance decision that declined jurisdiction. Meanwhile, the case known as Giusta Causa — brought by Greenpeace and others against Eni before the Rome Civil Court and modeled on the Dutch litigation — is currently suspended due to a jurisdictional objection raised by the plaintiffs pursuant to Article 41 of the Italian Code of Civil Procedure, which the Court of Cassation is expected to rule on shortly. This contribution aims to examine the most significant aspects of the Hague Court of Appeal’s decision and assess its potential impact on Italian climate litigation, considering possible future developments.


1. Introduzione

Il 12 novembre 2024 la Corte d’appello dell’Aja[1] pronunciandosi sulla nota controversia Milieudefensie et al. c. Shell ha annullato la storica decisone del Tribunale distrettuale che nel 2021, al termine del primo grado di giudizio[2], aveva imposto alla compagnia petrolifera di ridurre le emissioni di CO2.

La nuova sentenza, se apparentemente segna un arretramento del contenzioso climatico diretto contro le imprese, in realtà non manca di confermare molti degli aspetti più innovativi della decisione annullata e, al netto di qualche profilo di criticità, contribuisce a rafforzare molti dei risultati fin qui maturati nello sviluppo progressivo delle controversie climatiche.

La pronuncia della Corte d’appello dell’Aja offre poi l’occasione per fare il punto sul contenzioso climatico italiano che proprio nei prossimi mesi potrebbe andare incontro a sviluppi decisivi.

In particolare, la c.d. Giusta Causa, intentata da Greenpeace, Recommon e una dozzina di persone fisiche contro Eni, ampiamente ispirata al caso olandese, è attualmente sospesa in attesa che le Sezioni unite della Cassazione si pronuncino sul regolamento preventivo di giurisdizione richiesto dagli attori[3].  A breve, il Supremo Collegio dovrà quindi stabilire se può esservi spazio nell’ordinamento italiano per il contenzioso climatico diretto contro le imprese o se, al contrario, la domanda rivolta contro Eni è improponibile, mancando la c.d. possibilità giuridica dell’azione, ovvero inammissibile, per difetto assoluto di giurisdizione.

Entrambi i casi giudiziari in esame fanno parte della categoria delle private climate change litigation fondate sulla responsabilità civile delle imprese per le emissioni di gas serra[4]. Le due azioni in giudizio vertono sulle obbligazioni delle multinazionali del settore petrolifero in materia di tutela dei diritti fondamentali nonché sui limiti all’esercizio dell’attività d’impresa, a fronte dell’emergenza climatica globale.

Se il caso olandese ha già dato luogo a uno storico successo per i promotori dell’iniziativa, sebbene ora rimesso parzialmente in discussione, la controversia intentata in Italia è ancora ben lontana dal pervenire a un giudizio sul merito. Qualora, decisi in senso favorevole agli attori il regolamento di giurisdizione e le altre questioni preliminari, si giungesse all’esame della causa, un eventuale accoglimento della domanda consentirebbe forse di definire in modo nuovo e più giusto, i rapporti tra diritto ed economia nel nostro Paese, anche alla luce dell’assetto costituzionale delineato dalla revisione, nel 2022, degli artt. 9 e 41 della Carta fondamentale.

Questo articolo vuole ripercorrere le motivazioni della sentenza d’appello Milieudefensie et al. c. Shell per coglierne gli aspetti più significativi e di maggiore impatto sul contenzioso climatico italiano, in particolare con riguardo al caso Greenpeace et al. c. Eni et al., in vista dei prossimi possibili sviluppi. Ci si soffermerà dapprima sulle questioni preliminari, in specie la giustiziabilità della domanda ovvero il difetto di giurisdizione (2) e la legittimazione ad agire (3), quindi sui profili di merito (4).

2. L’azione in giudizio a difesa del clima: giustiziabilità della domanda e difetto di giurisdizione

Nel 2021, il Tribunale distrettuale dell’Aja, con una decisione storica, aveva ordinato alla holding del gruppo Shell di ridurre (o di determinare la riduzione de) le emissioni di CO2 del gruppo di almeno il 45% entro la fine del 2030, rispetto ai livelli del 2019. L’obbligo di riduzione doveva applicarsi a tutte le emissioni, dirette e indirette, relative agli ambiti (scope) 1, 2 e 3 come definiti dal GHG Protocol[5].

L’azione in giudizio era stata promossa dall’associazione Milieudefensie, in nome proprio e in rappresentanza di più di 17000 persone fisiche, insieme con altre associazioni e fondazioni ambientaliste.

In via preliminare, in primo grado, Shell, pur riconoscendo la necessità di far fronte al cambiamento climatico, eccepiva l’inammissibilità della domanda, per la mancanza di una base legale e perché risolvere il problema del cambiamento climatico sarebbe compito del legislatore e della politica e non del giudice.

Il Tribunale rigettava l’eccezione, in quanto decidere sull’esistenza in capo a Shell dell’allegato obbligo di riduzione è “il compito del giudice per eccellenza”[6].

Le conclusioni del giudice di primo grado in materia di giurisdizione hanno trovato piena conferma anche in appello[7]. In particolare, viene respinto l’argomento di Shell e Milieu en Mans[8], per il quale ogni decisione sulla riduzione delle emissioni spetterebbe al legislatore e non al giudice civile. Solo il legislatore potrebbe operare un corretto bilanciamento tra i diversi interessi investiti dalla transizione energetica, tra i quali va inclusa anche la sicurezza energetica[9].

La pronuncia della Corte d’appello dell’Aja interviene in un momento decisivo per il contenzioso climatico italiano. Le due maggiori controversie climatiche intentate finora nel nostro paese potrebbero avere degli sviluppi significativi proprio a partire dai primi mesi del 2025.

Il 29 gennaio è iniziato a Roma il secondo grado del c.d. Giudizio Universale, nel quale l’associazione A Sud e gli altri appellanti tenteranno di andare oltre la declinatoria di giurisdizione del Tribunale di Roma che ha messo fine al primo grado di giudizio[10]. Vi è anche la possibilità che sulla questione di giurisdizione si pronunci la Cassazione, in via pregiudiziale ai sensi dell’art. 363-bis c.p.c.[11].

Quanto alla c.d. Giusta Causa, promossa da Greenpeace e altri contro Eni, il processo è stato sospeso in ragione del regolamento preventivo di giurisdizione richiesto dagli attori sul quale, come si è detto, dovranno pronunciarsi le Sezioni unite e l’udienza in Cassazione è stata fissata per il 18 febbraio.

Quest’ultima controversia, instaurata nel 2023 davanti al Tribunale di Roma, è indubbiamente ispirata dal caso Milieudefensie et. al. c. Shell e dal successo che due anni prima le associazioni e fondazioni ambientaliste olandesi avevano ottenuto con la storica decisione del Tribunale distrettuale dell’Aja. Le due iniziative hanno non pochi aspetti in comune ma anche alcune differenze significative.

Nel caso italiano, ad agire in giudizio sono le associazioni Greenpeace Onlus e Recommon APS, insieme ad alcuni individui residenti in zone del Paese che sarebbero già colpite e suscettibili di essere colpite in futuro dagli effetti negativi del cambiamento climatico. Convenuti in giudizio, oltre a Eni S.p.A, sono il Ministero dell’economia e delle finanze e la Cassa depositi e prestiti, quali azionisti di controllo di Eni e perciò responsabili delle sue strategie d’impresa.

Forti del precedente maturato nel primo grado del Giudizio Universale, tutti i convenuti hanno sollevato la questione del difetto di giurisdizione, formulata in relazione a diversi profili.

Si contesta anzitutto la giustiziabilità della pretesa dedotta in giudizio, ovvero la stessa possibilità giuridica dell’azione, data l’abnormità del provvedimento richiesto – in particolare, imporre ad Eni la modificazione del piano industriale – che si tradurrebbe in un’ingerenza illegittima nella libera determinazione delle politiche aziendali, in violazione del diritto di iniziativa economica garantito dall’art. 41 Cost. Inoltre, la domanda sarebbe inammissibile sotto il distinto profilo della carenza assoluta di giurisdizione del giudice ordinario, in quanto l’intervento richiesto al giudice nella definizione della politica aziendale di Eni violerebbe il principio di separazione dei poteri, richiedendo ogni limitazione della libertà d’impresa un bilanciamento di interessi riservato al legislatore, come si afferma con un immancabile richiamo alla sent. n. 85 del 2013 della Corte costituzionale[12].

Il Tribunale di Roma, l’11 aprile 2024, rimetteva la causa in decisione proprio in ragione delle eccezioni preliminari sollevate. Si profilava quindi il rischio di una nuova declinatoria di giurisdizione, con buona pace dei giudici di Strasburgo che soltanto due giorni prima, con la storica decisione KlimaSeniorinnen, si erano espressi con fermezza sul ruolo chiave che spetta ai giudici nazionali nel contenzioso climatico[13]. Per scongiurare un tale epilogo, gli stessi attori, con ricorso ex art. 41 c.p.c., hanno richiesto alla Suprema Corte di regolare in via preventiva la questione.

L’ostacolo del difetto di giurisdizione che ha impedito finora una pronuncia sul merito delle prime due controversie climatiche italiane è forse destinato a venir meno già nei prossimi mesi.

Si è visto come per il Tribunale distrettuale e per la Corte d’appello dell’Aja l’accertamento dell’obbligazione climatica di Shell rientri pacificamente tra le funzioni proprie del giudice.

Ma un’indicazione decisiva, che dovrebbe imporsi al giudice italiano, è venuta dalla Corte EDU. Alla luce della sentenza KlimaSeniorinnen, il diritto al clima quale diritto fondamentale protetto dall’articolo 8 della CEDU impone agli Stati parte di assicurarne la tutela giurisdizionale. Inoltre, come si è già accennato, la sentenza afferma con decisione che nel contenzioso climatico ai giudici nazionali spetta un ruolo chiave[14].

Pare quindi tutto sommato improbabile che le Sezioni unite possano rilevare un difetto assoluto di giurisdizione e negare la giustiziabilità dell’azione di Greenpeace et al., a pena di una condanna dell’Italia da parte della Corte EDU e lo stesso vale per la Corte d’appello di Roma nel caso Giudizio Universale[15].

Se questa ipotesi è corretta, allora il vero ostacolo ad un esame nel merito del contenzioso climatico italiano rimane il problematico riconoscimento della legittimazione ad agire per la tutela di una posizione giuridica – il diritto al clima, alla stabilità climatica – che, sebbene si configuri sempre più chiaramente come un diritto dell’individuo, addirittura un diritto fondamentale, fatica ad affrancarsi da una dimensione meta-individuale. Su questo aspetto che potrebbe costituire il maggiore ostacolo, anche in futuro, ad una pronunzia sul merito nelle controversie climatiche in Italia, conviene ora soffermarsi brevemente.

3. Segue: legittimazione ad agire

Quanto alla legittimazione degli attori, il Tribunale distrettuale dell’Aja riteneva ammissibile l’azione degli enti ambientalisti sul fondamento dell’articolo 305a del libro terzo del Codice civile olandese che prevede espressamente l’azione collettiva di fondazioni e associazioni per la tutela di interessi di altre persone, a condizione che tali interessi siano tra loro simili (gelijksoortig). In specie, gli interessi dei cittadini nederlandesi e dei residenti della regione del Mare dei Wadden, incluse le future generazioni, possono ritenersi sufficientemente simili e ciò consente di esperire un’azione collettiva per la loro tutela, sulla base della disposizione ora citata. Veniva invece ritenuta inammissibile l’azione a tutela degli interessi dell’intera popolazione mondiale perché questi non sarebbero sufficientemente simili tra loro[16].

Salvo quanto si dirà più oltre sulla domanda di riduzione delle emissioni indirette, la decisione di ammissibilità trovava conferma anche in appello[17].

Nel contesto italiano, il riconoscimento della legitimatio ad causam di individui ed enti collettivi nel contenzioso climatico pare destinato a intersecarsi con il mai sopito dibattito sulla possibilità di tutela giurisdizionale degli interessi meta-individuali.

Pur senza addentrarsi nel tema che per la sua complessità richiederebbe una trattazione specifica[18], non può sfuggire come il tentativo di affermare la tutela giurisdizionale di interessi che trascendono la sfera prettamente individuale, come l’ambiente o il clima, si pone in attrito con la radicata tendenza della giurisprudenza italiana – non senza significativi interventi di segno contrario da parte del giudice amministrativo – a negare l’azione in giudizio per la tutela di interessi meta-individuali in assenza di un’apposita previsione legislativa e addirittura finanche in presenza di questa[19]. Si è visto, del resto, come pure per i giudici dell’Aja un’azione collettiva per la tutela indifferenziata dell’intera popolazione mondiale non è ammissibile nemmeno sulla base dell’articolo 3:305a del Codice civile olandese, su cui si è fondata la legittimazione ad agire di Milieudefensie e degli altri enti ambientalisti, a cominciare dalla fondazione Urgenda.

In Italia, in materia di ambiente, la legge prevede espressamente la legittimazione al ricorso in annullamento per le associazioni ambientaliste iscritte nell’apposito elenco ministeriale[20]. Quanto alla riparazione del danno ambientale, solo il Ministero dell’ambiente può agire in sede risarcitoria[21].

Nel caso in esame, il difetto di legittimazione e di interesse ad agire è stato eccepito da Eni e dagli altri convenuti[22], ma la consapevolezza del problema emerge già dall’atto di citazione.

Viene infatti sottolineato a più riprese come gli enti associativi e gli attori persone fisiche lamentino la lesione di una situazione differenziata rispetto alla generalità dei consociati e che i danni di cui si chiede la riparazione sono distinti dal danno ambientale in senso stretto per il quale solo lo Stato (il Ministero dell’ambiente) sarebbe legittimato all’azione risarcitoria[23].

Il cambiamento climatico è un fenomeno plurioffensivo.  Le alterazioni climatiche causate da Eni costituiscono – si afferma – una violazione dei diritti umani e quindi degli artt. 2043, 2050 e 2051 c.c., e, al tempo stesso, un disastro ambientale[24] produttivo, a sua volta, non solo di un danno ambientale in senso stretto ma anche dei danni patiti individualmente dagli attori, individui e associazioni. Pertanto, i primi avrebbero legittimazione e interesse ad agire a fronte della violazione dei diritti umani garantiti dagli artt. 2 e 8 della CEDU, ma anche per la diminuzione di valore degli immobili di loro proprietà (situati in zone particolarmente esposte agli effetti del cambiamento climatico), per il danno conseguente all’alterazione delle loro abitudini di vita, nonché per il danno da metus derivante dal timore di esporre i propri beni e l’incolumità, la vita e la salute proprie e dei propri cari alle conseguenze del cambiamento climatico; le associazioni ambientaliste, lese nei loro interessi statutari, sarebbero legittimate ad agire per i danni patrimoniali e non patrimoniali derivanti dal pregiudizio arrecato all’attività da esse svolta[25].

Nell’ordinamento italiano manca una norma come l’art. 3:305a del Codice civile olandese[26]. Sarebbe forse possibile far uso, nel contenzioso climatico contro le imprese, delle disposizioni del Codice di procedura civile che prevedono le azioni collettive, in particolare, l’azione collettiva inibitoria di cui all’art. 840-sexiesdecies, ma si tratta, ad oggi, di un sentiero ancora inesplorato[27].

Ciò non toglie che il riconoscimento del locus standi di singoli individui ed enti collettivi per la tutela del clima potrebbe comunque fondarsi, pur prescindendo da una specifica disposizione di legge, su diversi elementi: le indicazioni della Corte EDU nella sentenza KlimaSeniorinnen; gli obblighi derivanti dalla Convenzione di Aarhus, anche tenendo conto delle indicazioni del Compliance Committee sul dovere per il giudice di interpretare in conformità allo scopo della Convenzione i criteri dettati dal diritto nazionale sullo standing[28]; e il nuovo assetto costituzionale, opportunamente valorizzato, guardando agli artt. 9 e 41, come modificati nel 2022[29], e al principio di sussidiarietà orizzontale[30]. Inoltre, l’esigenza di assicurare in termini ampi l’accesso al giudice emerge anche dalla nuova direttiva sulla due diligence delle imprese in materia di sostenibilità (CSDDD) che dovrà essere trasposta nell’ordinamento italiano[31].

4. Quale obbligazione climatica per le imprese?

Nel merito, la decisione di primo grado del caso Milieudefensie et al. c. Shell determinava il contenuto dello standard di condotta che deve ritenersi appropriato nelle relazioni sociali, anche al di là degli obblighi imposti da norme scritte, la cui violazione costituisce illecito conformemente all’articolo 6:162 del Codice civile olandese.

Tale standard of care (zorgvuldigheidsnorm) veniva ricostruito dal Tribunale distrettuale alla luce di diversi elementi: le conoscenze scientifiche sul cambiamento climatico; gli strumenti di tutela dei diritti umani, in particolare gli articoli 2 e 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che – si afferma nella sentenza – includono la protezione dagli effetti negativi del cambiamento climatico; e quelli sulla responsabilità sociale delle imprese, tra cui i Principi guida delle Nazioni Unite e le Linee guida dell’OCSE. Si poteva così accertare l’esistenza di un consenso diffuso per il quale Shell è obbligata a ridurre le emissioni di CO2. In particolare, un ampio consenso esisterebbe sul fatto che per contenere l’aumento della temperatura globale nel limite di 1,5°C è necessario che le emissioni globali siano ridotte del 45% nel 2030 e del 100% nel 2050, rispetto ai valori del 2010[32]. Ciò consentiva al giudice di primo grado di ordinare a Shell di ridurre le emissioni nella misura richiesta del 45% rispetto ai valori relativi al 2019[33], rigettando per il resto la domanda[34].

Su quest’ultimo aspetto, che riveste un ruolo fondamentale nella strategia adottata dagli attori, la Corte d’appello opera una diversa valutazione e giunge alla conclusione opposta.

Pur riaffermando l’obbligo in capo a Shell di ridurre le emissioni, la Corte d’appello non ritiene possibile individuare il quantum dell’obbligo di riduzione. La soglia del 45% (o le altre indicate dagli attori in via subordinata) su cui si fonda la domanda in giudizio costituisce un obiettivo globale e in quanto tale non può costituire un vincolo specifico per una singola impresa. Né è riferibile in modo sufficientemente specifico al settore dei combustibili fossili[35].

La strategia adottata da Milieudefensie e accolta dal Tribunale distrettuale si basava proprio sulla possibilità di individuare, sulla base delle evidenze scientifiche, una precisa soglia di riduzione delle emissioni del gruppo Shell. È quindi venuto meno l’elemento essenziale su cui si fondava la domanda in giudizio così come formulata degli attori e ciò ha portato all’annullamento dell’intera decisione di primo grado.

Se la sentenza del 2021 è stata accolta come una decisione epocale, un landmark judgement nel contenzioso climatico contro i grandi gruppi industriali[36], il suo annullamento è ora visto come una battuta d’arresto per le associazioni ambientaliste impegnate nella lotta al cambiamento climatico mentre è stato accolto con favore da Shell[37].

Questa lettura sembra però trascurare che, in realtà, molti dei profili più innovativi della decisione annullata trovano conferma anche in appello, e ne escono anzi rafforzati, quali espressione di un orientamento in via di progressivo consolidamento presso giudici nazionali di diversi paesi europei e la Corte europea dei diritti dell’uomo.

Anzitutto, trova un’esplicita consacrazione anche da parte della Corte d’appello il nesso tra emergenza climatica e diritti fondamentali.

Riprendendo l’esperienza maturata dalla Corte suprema olandese nel caso Urgenda[38] e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo in KlimaSeniorinnen[39], nonché il contenzioso climatico fuori dall’Europa[40] e le posizioni espresse da alcuni organi delle Nazioni Unite[41], la Corte d’appello ribadisce in modo inequivocabile che la protezione dai pericoli derivanti dal cambiamento climatico è un diritto fondamentale. Ne deriva per gli Stati l’obbligazione – come riconosciuto a livello mondiale – di proteggere i propri cittadini (rectius gli individui soggetti alla loro giurisdizione) dagli effetti avversi del cambiamento climatico[42].

In questo senso, trascurando alcuni aspetti critici di cui si dirà più oltre, è possibile cogliere nella sentenza in esame non un passo indietro, ma un ulteriore contributo al consolidamento dei risultati già raggiunti dalle iniziative giudiziarie esperite con successo presso diverse giurisdizioni.

La Corte prosegue poi la sua analisi chiedendosi se una responsabilità nella protezione dall’emergenza climatica può esservi anche in capo alle imprese e segnatamente a Shell.

Nel diritto nederlandese si tende a escludere un effetto orizzontale dei diritti fondamentali. Senza rimettere in discussione questa visione tradizionale, la Corte ammette però la possibilità di un effetto orizzontale indiretto: i valori incarnati nei diritti fondamentali devono potersi invocare, almeno in qualche misura, anche nei rapporti tra privati. E tanto i diritti fondamentali quanto i valori che in essi trovano espressione vengono in considerazione nell’applicare a un caso specifico i concetti generali del diritto privato, nel determinare il contenuto esatto dello standard di condotta[43].

Si giunge così ad affermare, principalmente sulla base degli articoli 2 e 8 della CEDU e di diversi strumenti internazionali di soft law tra cui le Linee guida dell’OCSE e i Principi guida delle Nazioni Unite, che anche i privati – non solo gli Stati – hanno una responsabilità nel contrastare il cambiamento climatico. In particolare, le imprese che maggiormente vi hanno contribuito. Quindi anche Shell ha il dovere di limitare le emissioni di CO2 e una propria responsabilità nel raggiungere gli obiettivi dell’Accordo di Parigi. Ciò pur in assenza di esplicite previsioni legali o regolamentari nel diritto pubblico dei Paesi ove opera[44].

La sentenza precisa ulteriormente che il contenuto dell’obbligazione climatica in capo alla singola impresa dipende dal contributo di essa al cambiamento climatico e dalla sua capacità di porvi rimedio. In questo senso ci si deve attendere da Shell, che è stata e continua a essere uno dei major player nel mercato dei combustibili fossili, uno sforzo maggiore rispetto a molte altre imprese[45].

Emerge a questo punto un aspetto critico della decisione. Il riconoscimento di una responsabilità individuale differenziata per ciascuna impresa forse avrebbe dovuto condurre la Corte a una diversa conclusione circa il contenuto dell’obbligazione climatica di Shell. Non sarebbe stato irragionevole imporre a un’impresa che contribuisce in modo determinante alle emissioni climalteranti – non solo in misura maggiore di tanti soggetti privati, ma addirittura rispetto a molti Stati – un obbligo di riduzione almeno pari al valore minimo globale del 45%. Detto altrimenti, cosa giustificherebbe un obbligo di riduzione inferiore al minimo globale per chi come Shell contribuisce maggiormente alle emissioni?

La Corte d’appello dell’Aja pare rimettere in discussione quanto già affermato nel caso Urgenda ove, sebbene in un contesto diverso, non aveva esitato a imporre individualmente allo Stato olandese un tasso minimo di riduzione pari al 25%, dato scientifico riferibile a più Paesi industrializzati complessivamente considerati[46].

La Corte d’appello ha poi precisato come le misure legislative in fatto di riduzione delle emissioni, laddove adottate, non sono esaustive. Gli stessi Stati – si sottolinea nella sentenza – hanno affermato che anche le imprese hanno il dovere (their own duty) di ridurre le emissioni[47].

Si arriva così ad un altro punto fermo della decisione, pure di grande rilevanza: le obbligazioni di fonte legale non esauriscono il duty of care delle imprese e ciò vale anche per gli obblighi derivanti dal diritto dell’Unione Europea[48]. Ne consegue che le imprese non possono giovarsi dell’inerzia del legislatore. Né il giudice può limitarsi a sindacare la conformità delle condotte di queste alle previsioni legislative.

La sentenza in esame contiene infine un paio di elementi che meritano di essere sottolineati.

La Corte d’appello prende in considerazione i nuovi investimenti nel settore fossile pianificati dal gruppo Shell. Gli investimenti in nuove infrastrutture petrolifere, in particolare, avranno come conseguenza, per tutta la durata del loro periodo di payback, di incoraggiare lo sfruttamento delle infrastrutture realizzate e al contempo di rendere economicamente più interessanti i prodotti fossili che ne derivano e meno competitive le alternative sostenibili (è il c.d. carbon lock-in effect).

Per conseguire gli obiettivi dell’Accordo di Parigi – afferma la Corte – non è sufficiente adottare misure che incentivino una riduzione della domanda di combustibili fossili, ma è necessario anche diminuirne l’offerta. I nuovi investimenti del gruppo Shell appaiono quindi in contrasto con questa esigenza. Nella sentenza, la responsabilità dei produttori di combustibili fossili ricomprende in modo chiaro anche questo profilo, e se la Corte non si pronuncia direttamente sull’illegittimità degli investimenti di Shell è solo perché la questione esula dal thema decidendum come delineato dalla domanda degli attori[49]. Si può ritenere che, al contrario, una domanda in giudizio volta ad accertare l’illiceità di nuovi investimenti avrebbe potuto, e potrebbe anche in futuro, trovare accoglimento[50].

Infine, la sentenza prende in considerazione la riduzione delle emissioni nei diversi ambiti. Per quanto riguarda le emissioni dirette del gruppo (scope 1 e 2), Shell si è già impegnata a conseguire una riduzione in misura maggiore di quanto richiesto dagli attori e, secondo la Corte, il rischio che un tale impegno non venga mantenuto non è sufficientemente provato[51].

Vengono poi in rilevo le emissioni indirette, ovvero quelle generate in conseguenza delle attività del gruppo Shell, da fonti di proprietà o sotto il controllo di terzi, inclusi gli utilizzatori finali dei combustibili fossili prodotti o comunque immessi sul mercato da Shell (scope 3).

La questione è particolarmente delicata, non solo perché queste emissioni costituiscono il 95% del totale, ma anche perché in questo caso si tratta di accertare una responsabilità di Shell in relazione alle condotte di soggetti terzi circa l’impiego e il consumo dei suoi prodotti.

La Corte rigetta l’argomento per cui Shell non sarebbe in grado di esercitare un’influenza significativa sulle scelte degli utilizzatori finali e non può essere tenuta per responsabile per il solo fatto di soddisfare la domanda di combustibili fossili proveniente dal mercato. Shell è responsabile anche per le emissioni in parola, conformemente a numerose fonti normative che prevedono la responsabilità delle imprese anche per le emissioni di questo tipo[52].

Questa conclusione, insieme con la censura mossa ai nuovi investimenti nel settore fossile, costituisce forse l’aspetto più significativo della sentenza in esame, come è stato sottolineato già nei primissimi commenti[53]. Negare ogni responsabilità per le emissioni scope 3 che, come si è detto, costituiscono la stragrande maggioranza delle emissioni attribuibili a Shell e alle altre carbon major svuoterebbe di significato il contenzioso diretto contro questo tipo di imprese. Inoltre, attribuire alle grandi multinazionali le emissioni dovute al consumo di combustibili fossili, in ragione della loro capacità di influenzare le scelte del mercato, è un risultato significativo nella definizione attraverso il contenzioso climatico dei rapporti economici e dei limiti imponibili all’attività d’impresa.

Tuttavia, nel prosieguo della motivazione emerge ancora un profilo critico.

La sentenza di primo grado non ha precisato le modalità con cui Shell dovrebbe adempiere all’obbligo di ridurre le emissioni scope 3. La compagnia petrolifera – osserva la Corte d’appello – ben potrebbe rinunciare ad acquistare e commercializzare combustibili prodotti da terzi. Così, però, altre imprese potrebbero sostituirsi a Shell e commercializzare quegli stessi combustibili che arriverebbero comunque, sebbene senza il tramite di Shell, agli utilizzatori finali, senza che a una riduzione delle emissioni attribuibili indirettamente al gruppo Shell corrisponda una riduzione delle emissioni complessive. Milieudefensie e gli altri attori – conclude la Corte – non hanno saputo provare che a una riduzione delle vendite di Shell corrisponderebbe una riduzione delle emissioni complessive. Di conseguenza, viene meno il loro interesse ad agire per la condanna di Shell in relazione all’obbligo di riduzione delle emissioni scope 3[54].

Qui la sentenza sembra porsi in tensione con il principio della responsabilità parziale individuale che ha avuto un ruolo fondamentale nella decisione del caso Urgenda, ancora una volta contraddicendo quanto ivi deciso[55].

Il principio era già stato richiamato dal Tribunale distrettuale per rigettare il c.d. market substitution argument. La sentenza di primo grado infatti non mancava di precisare che, anche ad ammettere la possibilità per altre imprese di sostituirsi completamente a Shell nella sua catena di valore, ciò comunque non farebbe venir meno la responsabilità di Shell[56].

Forse, ancora una volta, la conclusione a cui giunge la Corte d’appello andrebbe letta in relazione alla specifica domanda su cui essa era chiamata a pronunciarsi. Una domanda diversamente formulata, che tenga debitamente conto dell’argomento della sostituzione troverebbe accoglimento, proprio in ragione dell’obbligazione di Shell, nuovamente confermata nel secondo grado di giudizio, di ridurre anche le proprie emissioni scope 3. La stessa Corte d’appello sembra prospettare questa possibilità quando osserva come la sentenza di primo grado non specifichi le modalità con cui Shell dovrebbe adempiere all’obbligo di riduzione delle emissioni scope 3, né è stata impugnata sul punto da Milieudefensie e gli altri attori[57]. Ma è difficile immaginare come si potrebbe (chiedere a un giudice di) imporre a Shell di impedire ad altre imprese di sostituirsi ad essa.

È questo l’aspetto più criticabile della decisione, non solo perché contraddittorio dal punto di vista logico, ma soprattutto perché sembra aprire la via ad una deriva pericolosa, col rischio di rimettere in discussione alcuni dei traguardi raggiunti nello sviluppo del contenzioso climatico, proprio a partire dal caso Urgenda.

Se vi è una responsabilità di Shell in ragione delle emissioni derivanti alla commercializzazione e dall’uso dei suoi prodotti da parte di soggetti terzi posti a valle lungo la sua value chain, questa responsabilità non può venir meno solo perché ipoteticamente altri soggetti potrebbero sostituirsi a Shell nella condotta illecita. Solo una volta che Shell abbia adempiuto ai suoi obblighi di riduzione, se davvero una tale sostituzione dovesse concretizzarsi, verrebbe meno ogni responsabilità di Shell e potrebbe venire in rilievo la responsabilità di altri soggetti[58].

Ma se così è – e la sentenza pare riconoscerlo – allora ragionare in termini di interesse ad agire, come fa la Corte d’appello, ha come conseguenza di escludere il controllo giurisdizionale sul rispetto da parte di Shell del proprio obbligo di riduzione. Altrimenti, così ragionando, chi potrebbe agire in giustizia? E come?

Riassumendo, la decisione della Corte d’appello dell’Aja ha il merito di affermare come la responsabilità delle imprese per il cambiamento climatico è materia soggetta al controllo del giudice. Inoltre, l’obbligazione climatica, il cui contenuto deve definirsi secondo la logica della responsabilità differenziata, non si esaurisce nell’osservanza delle norme scritte applicabili. Il contenzioso climatico sulla responsabilità delle imprese ne esce quindi rafforzato.

Al contempo, però, si nega al giudice la possibilità di riferire alla singola impresa convenuta in giudizio le soglie di riduzione stabilite a livello globale in base alle conoscenze scientifiche disponibili e ciò sembra affievolire il sindacato giurisdizionale, venendo a mancare un parametro certo di giudizio.

Ma la sentenza non è definitiva ed è possibile, e forse anzi è auspicabile, che venga impugnata davanti alla Corte suprema e che sia da questa rimessa in discussione nei suoi tratti meno convincenti. Ad ogni modo, da essa possono trarsi, fin d’ora, alcune indicazioni utili per orientare nuove iniziative dirette contro la stessa Shell o le altre carbon major. Come si è già osservato, è probabile che possa trovare accoglimento sulla base di quanto stabilito dalla Corte d’appello una domanda in giudizio diversamente formulata, ad esempio volta ad accertare l’illiceità di nuovi investimenti nei combustibili fossili.

Non diversamente dal gruppo Shell, anche Eni è una delle principali compagnie petrolifere e figura tra i maggiori responsabili del cambiamento climatico, con un quantitativo di emissioni di gas serra superiore a quelle attribuibili allo Stato italiano. Come per Shell, peraltro, anche le emissioni attribuite ad Eni sono in grande maggioranza di tipo scope 3.

L’approccio adottato nell’iniziativa italiana è simile a quello di Milieudefensie. Entrambe le azioni contestano la natura illecita delle emissioni attribuite alle multinazionali convenute. Nel caso Milieudefensie c. Shell, come si è visto, per la violazione dello standard di condotta ai sensi dell’art. 6:162 del Codice civile olandese, ricostruito dal giudice sulla base dell’ampio consenso esistente quanto all’obbligazione climatica di Shell.

Anche la causa italiana, non diversamente da quella olandese, si fonda sull’assunto che la protezione contro gli effetti negativi del cambiamento climatico costituisce un diritto umano. Osservano quindi gli attori nel lungo e complesso atto di citazione come obblighi di tutela dei diritti umani gravino pure sulle imprese e non solo sugli Stati, come è stato riconosciuto dai giudici dell’Aja, ora anche in appello. E proprio sottolineando l’analogia con il caso Milieudefensie et al. c. Shell, si afferma che la violazione dei diritti umani da parte di Eni costituisce un illecito sotto il profilo della responsabilità civile, ovvero, nel diritto italiano, principalmente in base all’art. 2043 e, in subordine, agli artt. 2050 e 2051 del Codice civile. Di conseguenza, si chiede al giudice di imporre ad Eni la cessazione delle condotte illecite modificando adeguatamente il suo piano industriale, in conformità con gli obiettivi fissati dall’Accordo di Parigi[59].

La responsabilità di Eni ex art. 2043 c.c. sarebbe dolosa e colposa. Sotto il profilo della colpa viene in rilievo lo standard di condotta ricostruito, in modo non troppo dissimile da quanto già osservato nel caso Shell, sulla base degli strumenti di soft law sulla responsabilità sociale delle imprese[60]. Emergerebbe così, ancora una volta, la responsabilità dell’impresa convenuta (di Eni, in questo caso) per il rispetto dei diritti umani. In particolare, poi, nell’ordinamento italiano, la tutela dell’ambiente e del clima troverebbe fondamento, anche in una prospettiva intergenerazionale, nel nuovo testo degli artt. 9 e 41 della Costituzione.

Così costruito, il contenzioso climatico fa leva sulle norme civilistiche in materia di responsabilità extracontrattuale, che nel particolare contesto in parola assumono di fatto una funzione principalmente preventiva e inibitoria di danni futuri[61]. E il risarcimento richiesto – in forma specifica e non per equivalente, in forza degli artt. 2058 c.c. e 614-bis c.p.c. – consiste in rimedi di tipo ingiuntivo, che impongono ai convenuti un facere specifico – la riduzione delle emissioni climalteranti – i cui effetti si producono a vantaggio non (o non esclusivamente) di un certo numero di danneggiati singolarmente individuati come avviene nelle applicazioni più tradizionali della responsabilità aquiliana, ma inevitabilmente si proiettano su una dimensione meta-individuale e collettiva, addirittura intergenerazionale.

Un approccio simile è stato adottato anche nel Giudizio Universale, nel quale convenuto è però lo Stato e non un’impresa. Ma se l’azione nei confronti dello Stato si scontra con l’ulteriore difficoltà di ammettere una responsabilità per omessa legislazione, al di là dell’esperienza maturata nel settore specifico dell’attuazione del diritto dell’Unione Europea a partire dal caso Francovich, l’azione in giudizio rivolta contro una multinazionale come Eni potrebbe trovare invece un solido fondamento nella Costituzione.

L’art. 41, in particolare come riformulato in occasione della revisione costituzionale del 2022 – si sottolinea nell’atto di citazione – consentirebbe, e forse anzi imporrebbe, una funzionalizzazione dell’attività d’impresa in senso ambientale, a tutela della stabilità climatica, valorizzando proprio la partecipazione dello Stato al capitale azionario delle imprese e segnatamente di Eni[62].

Inoltre, come suggerito da un’attenta analisi, la norma costituzionale in parola imporrebbe di rileggere lo stesso art. 2058 c.c. come meccanismo conformativo in senso ambientale dell’iniziativa economica, giustificando l’intervento del giudice nella definizione delle strategie d’impresa[63].

Dovendo rinunciare per esigenze di brevità ad analizzare nel dettaglio le ragioni delle parti, ci si può limitare ad osservare come alcune delle difese nel merito di Eni sembrano contraddette dalla Corte d’appello dell’Aja. Le attività di Eni – si sostiene nella comparsa di costituzione – sarebbero lecite perché oggetto di regolamentazione e autorizzate dall’amministrazione[64]. Dalle fonti internazionali in materia di cambiamento climatico – la Convenzione quadro delle Nazioni Unite e gli Accordi successivi tra cui l’Accordo di Parigi – non deriverebbero obblighi in capo a Eni, essendo queste rivolte solo agli Stati, e lo stesso dovrebbe valere per il quadro normativo dettato dall’Unione Europea in materia di riduzione delle emissioni climalteranti[65]. Ancora, le attività di Eni non potrebbero nemmeno costituire una violazione degli artt. 2 e 8 CEDU, in quanto una tale violazione potrebbe essere imputata solo ad uno Stato parte della Convenzione e non a privati[66]. Viene poi negata la responsabilità di Eni per le emissioni scope 3, in quanto essenzialmente riferibili a scelte di soggetti terzi e perciò solo indirettamente controllabili da Eni[67].

Per contro, pare in linea con la decisone della Corte d’appello dell’Aja il rilievo per cui gli scenari di decarbonizzazione rappresenterebbero essenzialmente dei percorsi illustrativi non prescrittivi che descrivono possibili traiettorie di decarbonizzazione. Le traiettorie di decarbonizzazione ivi definite assumerebbero una prospettiva generale e globale senza rappresentare le peculiarità dei singoli settori di business, quale l’Oil & Gas[68].

Anche nei confronti di Eni, in modo analogo a quanto si è visto nel caso Milieudefensie et al. c. Shell, si chiede al giudice di imporre una riduzione delle emissioni di almeno il 45% (entro il 2030 rispetto ai livelli del 2020) ma questo dato non sembra avere, nel quadro complessivo delineato dalla domanda in giudizio, quel ruolo dominante, praticamente esclusivo, che lo stesso elemento riveste nel caso olandese e che ha determinato, come si è visto, l’annullamento della sentenza di primo grado[69].

Leggendo le conclusioni dell’atto di citazione di Greenpeace et al., si vede bene come la domanda di condanna è formulata in termini alternativi, chiedendo al giudice una riduzione delle emissioni nella misura minima del 45% ovvero in un’altra misura che dovrà essere accertata in corso di causa. Inoltre, in via subordinata, si chiede la condanna dei convenuti all’adozione di ogni necessaria iniziativa che garantisca il rispetto degli scenari elaborati dalla comunità scientifica internazionale per mantenere l’aumento della temperatura entro 1,5 gradi[70].

Ma al giudice si chiede anche, in via principale, di accertare e dichiarare l’illecito dei convenuti, i quali già ora – e non in relazione ad un orizzonte temporale futuro (il 2030) come nel caso olandese – non avrebbero ottemperato e non starebbero ottemperando al raggiungimento degli obiettivi climatici internazionalmente riconosciuti di cui Eni si sarebbe dovuta dotare in linea con l’Accordo di Parigi e gli scenari elaborati dalla comunità scientifica internazionale per mantenere l’aumento della temperatura entro 1,5 gradi, in violazione degli artt. 2 e 8 della CEDU.

Si può quindi pensare che, se anche il giudice italiano come la Corte d’appello dell’Aja dovesse escludere la riconducibilità dell’indice globale del 45% all’obbligazione di una singola impresa, ciò comunque non implicherebbe il rigetto dell’intera domanda, che peraltro potrebbe essere meglio precisata in corso di causa, ovviamente nell’ipotesi che il processo riprenda il suo corso una volta regolata la giurisdizione in senso favorevole ai ricorrenti.

Ma la responsabilità differenziata di Eni potrebbe forse giustificare, in termini analoghi a quanto già osservato a proposito di Shell, l’imposizione di un obbligo di riduzione nella misura del 45%. E ciò a maggior ragione se si considera il ruolo diretto dello Stato nella gestione e nella proprietà di Eni e degli obblighi derivanti dall’art. 41 Cost. Il riconoscimento in capo allo Stato di un’obbligazione climatica – già chiaramente maturato nella sentenza della Corte EDU KlimaSeniorinnen, nonché, eventualmente, da parte del giudice italiano nella stessa causa in esame così come nel Giudizio Universale – implica un suo intervento nella definizione delle strategie aziendali delle partecipate come Eni in conformità agli obiettivi di riduzione globali.

5. Brevi note conclusive

La pronuncia della Corte d’appello dell’Aja sul caso Milieudefensie et al. c. Shell si inserisce in un lungo percorso che, a partire dal caso Urgenda e fino alle recenti pronunce della Corte EDU[71], segna il progressivo avanzare del contenzioso climatico diretto contro gli Stati e contro le imprese.

Come si è avuto modo di osservare, alcuni passaggi della motivazione sembrano rimettere in discussione approdi già raggiunti, ma, complessivamente, il modello di climate litigation fondato sulla responsabilità delle imprese esce rafforzato dalla rinnovata affermazione del nesso tra cambiamento climatico e diritti umani, dell’esistenza di un obbligo di tutela anche per le imprese e non solo per gli Stati, nonché della responsabilità delle imprese per le emissioni climalteranti, che si estende anche al di là di quanto espressamente previsto dalle norme di diritto pubblico di volta in volta applicabili, e comprende anche le emissioni solo indirettamente attribuibili alle imprese stesse.

Fatta salva la riserva dei giudici dell’Aja sulla possibilità di identificare un tasso specifico di riduzione delle emissioni da imporre a una singola impresa, ciò conferma, in massima parte, gli assunti su cui si fonda la causa italiana e, al contempo, contraddice alcuni degli argomenti addotti a sostegno della difesa di Eni.

Naturalmente la sentenza olandese non vincola in alcun modo il giudice italiano. Ma è possibile che a una decisione di analogo tenore, se non più favorevole agli attori qualora fossero superate le criticità già segnalate, si potrebbe giungere anche nella Giusta Causa[72].

È però necessario sciogliere le questioni sollevate in via preliminare.

Conosceremo a breve il responso delle Sezioni unite della Cassazione sulla giurisdizione. Sviluppi significativi potranno venire nei prossimi mesi anche dal caso Giudizio Universale.

L’affermazione della giurisdizione e il superamento di antiche consuetudini giurisprudenziali in fatto di standing per la tutela di interessi meta-individuali, che immancabilmente si ripropongono da decenni nella prassi e nel dibattito scientifico ma della cui attualità a fronte dell’emergenza climatica è lecito dubitare, imprimerebbero alle due controversie una svolta decisiva, con la possibilità di un loro esame nel merito.

Non è da escludere, peraltro, che la Corte EDU sia chiamata a pronunciarsi nuovamente e, questa volta, direttamente nei confronti dell’Italia[73].

Una pronuncia sul merito della controversia intentata contro Eni sarebbe particolarmente rilevante perché consentirebbe al giudice di definire, in materia di cambiamento climatico, i limiti dell’esercizio dell’attività economica alla luce degli strumenti internazionali sulla responsabilità sociale delle imprese e del nuovo assetto ordinamentale tracciato dalla revisione costituzionale del 2022, chiarendo la portata degli artt. 9 e 41 Cost. e la loro applicabilità ai rapporti tra privati.

Infine, sulla responsabilità in materia climatica delle (grandi) imprese è ora chiamato a intervenire anche il legislatore, che dovrà dare attuazione nell’ordinamento italiano alla CSDDD[74].

La nuova direttiva, entrata in vigore il 25 luglio 2024, all’esito di un travagliato iter legislativo e frutto di un compromesso al ribasso, soprattutto quanto all’estensione dell’ambito di applicazione, è il precipitato normativo a livello dell’Unione Europea delle iniziative giudiziarie maturate negli ultimi anni e del caso Shell in particolare[75].

Si può cogliere infatti una complementarità tra gli argomenti addotti a sostegno delle iniziative giudiziarie contro le imprese a tutela del clima e il nuovo assetto normativo che emerge dalla direttiva. In entrambi i casi si fa leva su obblighi internazionali pensati per gli Stati affermandone l’efficacia anche tra privati, sottolineando in particolare il ruolo fondamentale del settore privato per il conseguimento degli obiettivi stabiliti a livello internazionale ed eurounitario[76].

Il legislatore europeo introduce così espliciti obblighi di due diligence e uno specifico regime di responsabilità civile per le imprese che ricadono nell’ambito di applicazione della direttiva, che si riflettono anche sulla value chain e nelle relazioni commerciali[77].

Di nuovo, come nella private climate change litigation, la responsabilità civile, anche grazie alla previsione di rimedi di tipo ingiuntivo, inibitorio, che mirano di fatto a ridefinire le politiche industriali non in linea con gli obiettivi di protezione del clima, si allontana dalla più tradizionale funzione risarcitoria, di compensazione del danno, ed assume una funzione di private enforcing degli obblighi di due diligence. E proprio in quest’ottica emerge la necessità di adattare le norme procedurali nazionali – comprese quelle in materia di acceso al giudice per individui ed enti collettivi – alla luce degli obiettivi della direttiva, per assicurarne la piena effettività[78].

Si ritrovano così, nel diverso contesto della trasposizione e applicazione della direttiva, le criticità sollevate dal contenzioso climatico. Curiosamente, infatti, proprio la CSDDD finisce per consacrare, da una parte, l’arretramento del decisore pubblico a favore dell’iniziativa dei privati (tanto nella pianificazione e attuazione della mitigazione dei cambiamenti climatici quanto nel ruolo di enforcing attraverso il ricorso al giudice in caso di violazioni) e, d’altra parte, il ruolo del giudice, chiamato ancora una volta ad intervenire sull’attività d’impresa conformandola agli imperativi di stabilità climatica.

In conclusione, l’esperienza giudiziaria maturata dalla giurisprudenza olandese nei casi Urgenda e Shell e dalla Corte EDU e, insieme, la CSDDD delineano un nuovo quadro normativo, con cui anche l’interprete italiano dovrà confrontarsi, che impone il riconoscimento del diritto al clima stabile e sicuro e obblighi di tutela per lo Stato e per le imprese.

Per il momento la CSDDD non ha avuto ancora alcun ruolo nel contenzioso italiano, sebbene sia evidente l’assonanza tra il quadro normativo da essa delineato e la richiesta di condanna di Eni[79].

La Corte d’appello dell’Aja ha invece preso in esame la nuova direttiva negando che da essa, così come dalle altre fonti normative dell’Unione Europea, possano derivare per una singola impresa o per un particolare settore industriale uno specifico obbligo di riduzione delle emissioni del 45% o in altra misura percentuale[80].

I piani di transizione che le imprese devono adottare ed attuare in forza dell’articolo 22 della CSDDD devono contenere obiettivi temporalmente definiti connessi ai cambiamenti climatici, per il 2030 e in fasi quinquennali fino al 2050, sulla base di prove scientifiche conclusive e, ove opportuno, obiettivi assoluti di riduzione delle emissioni di gas a effetto serra di ambito 1, 2 e 3.

La difesa di Shell, facendo leva, fra l’altro, sulla lettera della disposizione in esame e sull’inciso ove opportuno, ritiene che i piani di transizione non debbano necessariamente includere un obiettivo assoluto di riduzione[81] e la Corte, in un tratto a dire il vero non chiarissimo della motivazione, pare far propria questa tesi[82].

Se questa lettura della direttiva è corretta – ciò di cui si può forse dubitare, dal momento che ciascuna impresa soggetta alla CSDDD è comunque tenuta a garantire la compatibilità del suo modello di business e della sua strategia aziendale con l’accordo di Parigi e con l’obiettivo di conseguire la neutralità climatica[83] – allora ci si dovrà interrogare sulla reale effettività di una disciplina che finisce per delegare alle stesse imprese la determinazione nell’an e nel quantum degli obiettivi di riduzione. E la questione è fondamentale ora che si dovrà dare applicazione alla direttiva. Al contempo, la Corte non manca di precisare come l’osservanza delle prescrizioni di matrice eurounitaria non esaurisce lo standard of care delle imprese né il sindacato del giudice, dando nuovo vigore al contenzioso climatico e questo è probabilmente il lascito più significativo della sentenza Milieudefensie et al. c. Shell per l’avvenire.

 

[1] Corte d’appello dell’Aja, Shell c. Vereniging Milieudefensie, n. 200.302.332/01, 12 novembre 2024. La traduzione inglese, a cui si è fatto riferimento, è disponibile sul sito https://uitspraken.rechtspraak.nl/details?id=ECLI:NL:GHDHA:2024:2100 (ultimo accesso il 14 dicembre 2024). Per i primi commenti, si vedano A. Nollkaemper, Lessons of a Landmark Lost. The Judgment of the Hague Court of Appeal in Shell v Milieudefensie, in Verfassungsblog, 12 novembre 2024; P. Paiement, Shell v Milieudefensie Confirms Major Developments in Climate Change Liability, in Verfassungsblog, 15 novembre 2024; C. Hilson, Into Reverse Gear. Shell v Milieudefensie and the Non-Regression Principle, in Verfassungsblog, 15 novembre 2024; L. Jeremiašová, The Court of Appeal Judgment in Shell v. Milieudefensie: As One Door Closes, Another Opens, in Blogging for Sustainability, 18 novembre 2024; A. M. Tigre, M. Hesselman, Milieudefensie v Shell: 3 Takeaways and Challenges on the Appeal’s Court Decision, in Climate Law. A Sabin Center blog, 12 dicembre 2024; C. V. Giabardo, Corporate Climate Responsibility After “Milieudefensie vs. Shell” Court of Appeal Decision, in Verfassungsblog, 17 dicembre 2024; P. Nieto, The Market Substitution Argument in Milieudefensie et al. v. Shell judgment: A Threat to Justiciability for Scope 3 Emissions, in EJIL:Talk!, 20 dicembre 2024.

[2] Trib. distrettuale dell’Aja, Vereniging Milieudefensie c. Royal Dutch Shell, n. C/09/571932/HA ZA 19-379, 26 maggio 2021. La traduzione inglese, a cui si è fatto riferimento, è consultabile sul sito https://uitspraken.rechtspraak.nl/details?id=ECLI:NL:RBDHA:2021:5339 (ultimo accesso il 14 dicembre 2024).

[3] Greenpeace Onlus et al. c. Eni S.p.A. et al. I principali atti del processo sono consultabili sul sito https://www.greenpeace.org/italy/rapporto/17711/lagiustacausa-leggi-tutti-i-documenti/ (ultimo accesso il 14 dicembre 2024).

[4] R. Fornasari, The Legal Form of Climate Change Litigation: An Inquiry into the Transformative Potential and Limits of Private Law, in Journal of Law and Political Economy, vol. 4, n. 2, 2024, pp. 820-862; MP. Weller, ML. Tran, Climate Litigation against companies, in Climate Action, vol.1, n. 14, 2022; A. Foerster, Climate Justice and Corporations, in King’s Law Journal, vol. 30, n. 2, 2019, pp. 305-322. Tra la vastissima letteratura su contenzioso climatico e giustizia climatica, si vedano anche: I. Alogna, C. Billet, M. Fermeglia, A. Holzhausen, Climate Change Litigation in Europe: Regional, Comparative and Sectoral Perspectives, Brussels, 2024; M. Bönnemann, M. A. Tigre, The Transformation of European Climate Litigation, Berlino, 2024; A. Pisanò, Il diritto al clima. Il ruolo dei diritti nei contenziosi climatici europei, Napoli, 2022; S. Baldin, Towards the judicial recognition of the right to live in a stable climate system in the European legal space? Preliminary remarks, in DPCE Online, vol. 43, 2/2020; I. Alogna, C. Bakker, J.-P. Gauci, Climate Change Litigation: Global Perspectives, Leiden, 2021; F. Sindico, M. M. Mbengue, K. Mckenzie, Climate Change Litigation and the Individual: An Overview, Heidelberg, 2020; W. Kahl, M.P. Weller, Climate Change Litigation: A Handbook, Londra, 2021; M. Montini, Verso una giustizia climatica basata sulla tutela dei diritti umani, in Ordine internazionale e diritti umani, 2020, pp. 506 ss.; G. Giorgini Pignatiello, Verso uno Ius Climaticum Europeum? Giustizia climatica ed uso dei precedenti stranieri da parte dei giudici costituzionali nei Paesi membri dell’Unione Europea, in Comparative Law Review, 15, 2024, pp. 36 ss.; J. Peel, H.M. Osofsky, Climate Change Litigation: Regulatory Pathways to Cleaner Energy, Cambridge, 2015.

[5] Secondo il GHG Protocol, per rendicontare le emissioni riferibili a una data impresa, è necessario tener conto dei tre ambiti così definiti: le emissioni scope 1 sono quelle originate da fonti di proprietà o sotto il controllo dell’impresa; le emissioni scope 2 sono quelle dovute alla generazione dell’elettricità acquistata e consumata dall’impresa; le emissioni scope 3 sono quelle dovute all’attività dell’impresa, ma originate da fonti non di proprietà né sotto il controllo dell’impresa (includono le emissioni generate dall’uso dei prodotti dell’impresa da parte di soggetti terzi, quali gli utilizzatori finali). Per maggiori informazioni, si veda The Greenhouse Gas Protocol, A Corporate Acounting and Reporting Standard, disponibile sul sito https://ghgprotocol.org/corporate-standard (ultimo accesso il 14 dicembre 2024).

[6] Nel testo originale, “bij uitstek de taak van de rechter”; nella traduzione inglese, “pre-eminently a task of the court” (Trib. distrettuale dell’Aja, Vereniging Milieudefensie c. Royal Dutch Shell, cit., 4.1.3).

[7] Corte d’appello dell’Aja, Shell c. Vereniging Milieudefensie, cit., 6; si veda anche 7.52-7.53.

[8] La fondazione Milieu en Mens si propone di promuovere la conciliazione tra la cura dell’ambiente e altri interessi quali “la capacità finanziaria dei cittadini e un’economia sana, che richiede energia affidabile e a prezzi accessibili”. Costituita all’indomani della sentenza di primo grado, è intervenuta nel giudizio di appello.

[9] Corte d’appello dell’Aja, Shell c. Vereniging Milieudefensie, cit., 7.52. Sull’insufficienza dell’argomento del c.d. trilemma energetico, M. D’Auria, Climate litigation: una riflessione preliminare a margine della c.d. “Giusta Causa”, in Ianus Diritto e Finanza, n. 29, 2024, pp. 11-36.

[10] La causa è stata introdotta nel 2021 davanti al Tribunale civile di Roma da più associazioni e singoli individui contro lo Stato. Le pretese degli attori, come emergono nel lungo e complesso atto di citazione, si fondano sul nesso esistente tra l’emergenza climatica e l’esigenza di protezione e non regressione dei diritti umani, da cui deriva il diritto umano al clima stabile e sicuro, meritevole di tutela anche in base agli articoli 2 e 8 della CEDU e, in combinato disposto con questi, all’articolo 14. Le allegate insufficienze dello Stato nel garantire la stabilità climatica ne implicano la responsabilità extracontrattuale ai sensi dell’art. 2043 c.c., norma di cui si evidenzia la funzione preventiva del danno, prima ancora che risarcitoria. In subordine, si fa valere la responsabilità ex art. 2051 c.c. dello Stato, quale custode del sistema climatico per il pericolo che ne deriva in ragione della sua instabilità. In via ulteriormente subordinata, alcune delle associazioni attrici che hanno partecipato all’elaborazione del PNIEC evocano la responsabilità contrattuale dello Stato in base al contatto sociale qualificato (e alla conseguente obbligazione di protezione) sorto in ragione degli obblighi esistenti in materia climatica, a cui lo Stato italiano ha dato esecuzione con la predisposizione e l’adozione del PNIEC nel procedimento al quale le stesse associazioni hanno partecipato presentando osservazioni, e del legittimo affidamento che ne deriva per i cittadini nella loro corretta esecuzione. Si chiede così la condanna dello Stato alla reintegrazione in forma specifica, ex art. 2058 c.c., con l’adozione di ogni necessaria iniziativa (ovvero adeguando il PNIEC) per conseguire l’abbattimento, entro il 2030, delle emissioni nazionali artificiali di CO2-eq nella misura, oltremodo ambiziosa, del 92% rispetto ai livelli del 1990.

In primo grado, il Tribunale di Roma ha rilevato il difetto assoluto di giurisdizione, salvo ammettere astrattamente la possibilità di impugnare il PNIEC davanti al giudice amministrativo. (Trib. di Roma, II sez. civ., sent. n. 3552, 26 febbraio 2024). La sentenza e i principali atti del processo sono consultabili sul sito https://www.contenziosoclimaticoitaliano.it/i-casi/giudizio-universale-c.-stato/ (ultimo accesso il 14 dicembre 2024). Tra i numerosi contributi a commento della sentenza, M. D’Auria, La separazione dei poteri è un lusso che possiamo ancora permetterci?, in Giurisprudenza Italiana, Novembre 2024, pp. 2326-2334.

[11] L’appello contro la sentenza di primo grado mira al riconoscimento della giurisdizione del giudice ordinario in relazione a tutte le domande proposte, inclusa la domanda subordinata per la quale il Tribunale pare ammettere la giurisdizione del giudice amministrativo. In subordine, si chiede alla Corte d’appello di investire della questione di giurisdizione la Cassazione ai sensi del art. 363-bis c.p.c. La disposizione nuovamente introdotta nel codice di rito consente, a certe condizioni, di operare un rinvio pregiudiziale alla Corte di Cassazione per la risoluzione di una questione di diritto. La Cassazione può pronunciarsi a sezione semplice o a sezioni unite. Si veda l’atto d’appello, pp. 36 ss., consultabile sul sito https://www.contenziosoclimaticoitaliano.it/i-casi/giudizio-universale-c.-stato/ (ultimo accesso il 14 dicembre 2024).

Si noti che, qualora la Corte di cassazione non dovesse riconoscere la sussistenza nel nostro ordinamento del diritto fondamentale alla stabilità, sicurezza e mitigazione climatica, gli appellanti ritengono, alla luce delle sentenze KlimaSeniorinnen e Duarte, di poter considerare di fatto già esaurite le vie di ricorso interne e ricorrere direttamente alla Corte EDU.

[12] La difesa di Eni S.p.A. eccepisce anche il difetto di giurisdizione del giudice italiano in relazione alle condotte tenute al di fuori del territorio nazionale. Ancora, il vero scopo dell’azione sarebbe la denuncia di un danno ambientale, difettando di conseguenza la legittimazione ad agire degli attori che, conformemente all’art. 309 cod. amb., avrebbero dovuto sollecitare l’intervento del Ministero dell’ambiente; ciò si tradurrebbe in un difetto di competenza o di giurisdizione del giudice adito proprio perché la domanda in giudizio violerebbe la competenza esclusiva dell’amministrazione.

L’inammissibilità della domanda sotto il profilo della sua possibilità giuridica nonché del difetto assoluto di giurisdizione e del difetto di giurisdizione del giudice italiano sulle condotte poste in essere da Eni in altri Stati è eccepita con argomenti simili anche dagli altri convenuti.

[13] Corte EDU, Verein KlimaSeniorinnen Schweiz e altri c. Svizzera, n. 53600/20, 9 aprile 2024.

[14] Corte EDU, Verein KlimaSeniorinnen Schweiz e altri c. Svizzera, cit., §639.

[15] Sia nel ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione nella Giusta Causa, sia nell’atto di appello del Giudizio Universale, si fa ampio riferimento alle considerazioni svolte dai giudici di Strasburgo.

Con riguardo a quest’ultima controversia, come si è già osservato, nell’appello avverso la sentenza di primo grado si chiede alla Corte d’appello di Roma, in via principale, di riconoscere la giurisdizione in relazione alle domande proposte e, in subordine, di sollevare una questione di rinvio pregiudiziale alla Cassazione ex art. 363-bis c.p.c. sull’esistenza e giustiziabilità del diritto al clima nell’ordinamento italiano. Qualora la questione dovesse essere disattesa dalla Suprema Corte, gli appellanti ritengono di poter considerare di fatto già esaurite le vie di ricorso interne e agire direttamente innanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, alla luce delle sentenze KlimaSeniorinnen e Duarte.

Anche in dottrina è stato osservato come la sentenza KlimaSeniorinnen sia in grado, di far raggiungere nel caso Giudizio Universale gli stessi risultati ottenuti dai promotori della causa Urgenda. Così L. Serafinelli, Responsabilità extracontrattuale e cambiamento climatico, cit., pp. 72-73.

[16] Trib. distrettuale dell’Aja, Vereniging Milieudefensie c. Royal Dutch Shell, cit., 4.2.3. Si sottolineano le enormi differenze quanto ai tempi e alle modalità con cui la popolazione globale sarà interessata dagli effetti delle emissioni climalteranti. Il Tribunale riteneva pure inammissibile l’azione degli attori individuali, essendo i loro interessi già tutelati dall’azione collettiva (Ibidem, cit., 4.2.7). Veniva infine esclusa la legittimazione ad agire dell’associazione ActionAid perché la tutela degli interessi della popolazione olandese non corrisponde sufficientemente al suo oggetto statutario (Ibidem, cit., 4.2.5).

[17] Corte d’appello dell’Aja, Shell c. Vereniging Milieudefensie, cit., 6; si veda anche 7.52-7.53. Sul difetto di interesse ad agire per la riduzione delle emissioni indirette, infra, 4.

[18] Sarebbe pure superflua una ricognizione della sterminata bibliografia sul tema in parola. Basterà osservare come l’impronta individualistica del processo civile veniva sottolineata, già all’indomani della celebre sentenza Italia Nostra, da S. Rodotà, Le azioni civilistiche, in AA.VV., Le azioni a tutela degli interessi collettivi, Atti del Convegno di Studio – Pavia 11-12 giugno 1974, Padova, 1976, pp. 81-102. Con riferimento alla tutela di interessi diffusi nel processo amministrativo, va ricordato il contributo, di sorprendente attualità, di M. Nigro, Le due facce dell’interesse diffuso; ambiguità di una formula e mediazioni della giurisprudenza, in Il Foro Italiano, vol. 110, n. 1, 1987, pp. 8-20. L’Autore proponeva un ripensamento in chiave soggettiva dell’interesse diffuso. Quest’ultimo sarebbe in realtà “la formula descrittiva di una estesa pluralità di interessi individuali consistenti in un rapporto diretto e «proprio» fra soggetto e bene e come tali potenzialmente capaci tutti e direttamente di tutela giurisdizionale”. Più di recente, nel dibattito dottrinale si è fatto riferimento alla nozione di diritto trans-soggettivo. Si veda V. Conte, Per una teoria civilistica del danno climatico. Interessi non appropriativi, tecniche processuali per diritti trans-soggettivi, dimensione intergenerazionale dei diritti fondamentali, in DPCE Online, n. 2, 2023, p. 669, e i riferimenti bibliografici ivi riportati.

[19] Con l’art. 10 della c.d. legge Ponte (n. 765 del 1967) il legislatore introduceva chiaramente un’azione popolare, legittimando chiunque a ricorrere contro una licenza edilizia concessa a un soggetto terzo. La giurisprudenza, sin dalle prime applicazioni, ha di fatto snaturato questa previsione, facendo prevalere sull’inequivocabile dato letterale della legge la tradizionale diffidenza verso l’actio popularis.

[20] Artt. 13 e 18, co. 5, legge 8 luglio 1986, n. 349. Ma la giurisprudenza amministrativa è solita riconoscere la legittimazione a ricorrere di associazioni prive del riconoscimento ministeriale, al sussistere di certe condizioni individuate sempre in via pretoria. Si veda, ex multis, Cons. Stato, Ad. Plen. 20 febbraio 2020, n. 6.

[21] Art. 311 cod. amb.

[22] Particolarmente esemplificativa del problema in parola è la comparsa di costituzione della Cassa depositi e prestiti, ove senza esitazione si identifica il diritto (individuale) al clima con un interesse collettivo: “l’azione attorea è comunque assolutamente inammissibile, stante il palese difetto di legittimazione ad agire in via individuale sia delle Associazioni, sia dei privati, ai sensi dell’art. 81 c.p.c., atteso che essi hanno agito in giudizio per tutela di un interesse collettivo, ossia il c.d. diritto al clima (…)”. Ma la legittimazione ad agire viene negata anche in base all’argomento per cui il danno di cui si chiede la riparazione sarebbe in realtà un danno ambientale e pertanto la legittimazione all’azione risarcitoria spetterebbe in via esclusiva al Ministero dell’ambiente.

[23] Secondo gli artt. 311 e 313, u.c., del codice dell’ambiente, la legittimazione all’azione di risarcimento del danno ambientale spetta esclusivamente al Ministero dell’ambiente. I soggetti privati, individui e associazioni, possono soltanto sollecitare l’intervento del Ministero, potendo adire il giudice amministrativo solo avverso l’inerzia di quest’ultimo o il giudice ordinario per chiedere il risarcimento dei soli danni da essi eventualmente subiti a titolo individuale, a causa del fatto produttivo di danno ambientale. Quest’ultima previsione viene in rilievo nel caso in esame.

[24] Tale da integrare le fattispecie di cui agli artt. 434 e 452-quater c.p. (Atto di citazione, cit., p. 67).

[25] L’atto di citazione contiene un’ampia disamina della giurisprudenza penale in tema di legittimazione delle associazioni ambientaliste. I principi così affermati devono trovare applicazione – si sostiene – anche nel processo civile. (Atto di citazione, cit., pp. 69-71).

[26] Circostanza rilevata dal Tribunale di Roma nella sentenza Giudizio Universale.

[27] Sull’azione collettiva inibitoria nel contenzioso climatico, R. Tiscini, Tutela inibitoria e contenzioso climatico, in Riv. Dir. Processuale, n. 2, 2024, pp. 331 ss., ma già R. Louvin, Spazi e opportunità per la giustizia climatica in Italia, in DPCE, n. 4, 2021, pp. 935 ss, e S. Vincre, A. Henke, Il contenzioso «climatico»: problemi e prospettive, in Riv. BioDiritto, n. 2, 2023, p. 139. Contra, V. Conte, Per una teoria civilistica del danno climatico. Interessi non appropriativi, tecniche processuali per diritti trans-soggettivi, dimensione intergenerazionale dei diritti fondamentali, in DPCE Online, n. 2, 2023, p. 669, che propone invece un’azione popolare costituzionalizzata.

[28] Communicazione ACCC/C/2005/11 (Belgio) para. 35-36. Sulla base delle osservazioni del Comitato, il Tribunale di Bruxelles ha ritenuto ammissibile l’azione dell’associazione Klimaatzaak (Trib. di prima istanza franc. di Bruxelles, sez. civile, ASBL Klimaatzaak et al. c. Belgio et al., 2015/4585/A, 17 giugno 2021). Il caso belga è particolarmente significativo in ragione del riconoscimento del locus standi dell’associazione attrice (e degli attori a titolo individuale) pure in mancanza di disposizioni specifiche nell’ordinamento giuridico nazionale.

[29] “Le nuove norme costituzionali dei riformati artt. 9 e 41 Cost. aprono (…) la strada ad una più ampia sindacabilità giudiziale degli interessi ambientali/climatici anche nell’interesse delle future generazioni. In primis in termini di legittimazione attiva, ossia di inevitabile interpretazione estensiva delle condizioni per l’accesso alla giustizia dei singoli e delle associazioni ed ONG con espresse finalità statutarie di protezione ambientale e climatica declinate in termini di equità intergenerazionale (…)” (Atto di citazione, cit., p. 90).

[30] La tesi per cui il principio di sussidiarietà orizzontale di cui all’art. 118, u.c., Cost. potrebbe valere a fondamento della legittimazione a ricorrere ha trovato accoglimento, sebbene in modo incostante, in alcune pronunce del giudice amministrativo. Si veda, con riferimento al contenzioso climatico, F. Scalia, La giustizia climatica, in federalismi.it, n. 10, 2021, pp. 269-308 e le sentenze e i contributi della dottrina ivi citati.

[31] Più diffusamente, 4, infra.

[32] Il valore del 45% rispetto ai livelli del 2010 è tratto dal Rapporto speciale dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), Global Warming of 1.5 ºC, del 2018. Si veda IPCC SR 15 (2018), Summary for Policymakers, C.1, p. 12. In un primo tempo la domanda verteva su una riduzione del 72% nel 2040 e del 100% nel 2050, obbiettivi che successivamente gli stessi attori hanno ritenuto troppo lontani nel tempo. In via subordinata alla richiesta riduzione del 45% nel 2030, gli attori hanno chiesto la condanna di Shell a una riduzione del 35% o, in via ulteriormente subordinata, del 25%. Ciò con il proposito di ottenere più facilmente una pronuncia favorevole, a prescindere dalla soglia, più o meno ambiziosa, della riduzione. Così Milieudefensie, How We Defeated Shell, Amsterdam, 2021, p. 27.

[33] La domanda di Milieudefensie e degli altri attori prende come riferimento l’anno 2019 invece del 2010. Il 2019 è stato scelto come riferimento perché è l’anno in cui è stata avviata l’azione in giudizio e anche l’anno di pubblicazione dell’ultimo report di sostenibilità di Shell all’epoca disponibile, da cui, secondo gli attori, dovrebbe risultare la responsabilità della compagnia (Milieudefensie, How We Defeated Shell, cit., p. 27). Il Tribunale ritiene che una riduzione del 45% rispetto alle emissioni relative al 2019 costituisca comunque un obiettivo sufficiente (Trib. distrettuale dell’Aja, Vereniging Milieudefensie c. Royal Dutch Shell, cit.,4.4.38).

[34] Milieudefensie e gli altri attori chiedevano anzitutto di accertare l’illegittimità delle emissioni di CO2 del gruppo Shell; questa prima parte della domanda è rigettata già in primo grado, perché affermare l’obbligo di ridurre le emissioni con il 2030 come orizzonte temporale non implica che l’illecito sia già consumato. Si chiedeva poi di dichiarare Shell obbligata a ridurre le emissioni rispetto al livello di riferimento del 2019 in conformità all’obiettivo di temperatura dell’Accordo di Parigi e alle migliori conoscenze scientifiche disponibili, ma l’accoglimento della domanda di ingiunzione fa venir meno l’interesse degli attori a una pronuncia dichiarativa. Infine, viene rigettata anche la domanda volta a dichiarare l’inadempimento di Shell degli obblighi di riduzione, non potendosi stabilire fin d’ora che questi resteranno disattesi. (Trib. distrettuale dell’Aja, Vereniging Milieudefensie c. Royal Dutch Shell, cit., 4.5.8-4.5.10). Gli attori non hanno impugnato la sentenza, nemmeno con appello incidentale.

[35] Corte d’appello dell’Aja, Shell c. Vereniging Milieudefensie, cit., 7.57 e, con riferimento alle emissioni scope 3, Ibidem, 7.67-7.111.

[36] A. Nollkaemper, Lessons of a Landmark Lost. The Judgment of the Hague Court of Appeal in Shell v Milieudefensie, cit.; C. Macchi, J. van Zeben, Business and human rights implications of climate change litigation: Milieudefensie et al. v Royal Dutch Shell, in RECIEL, vol. 30, n. 3, 2021, pp. 409-415.

[37] Si veda, ad esempio, il comunicato stampa dell’ong ambientalista ClientEarth, Dutch Shell ruling disappointing but legal responsibilities for high-emitting companies still firmly in the spotlight, disponibile sul sito https://www.clientearth.org/latest/press-office/press-releases/dutch-shell-ruling-disappointing-but-legal-responsibilities-for-high-emitting-companies-still-firmly-in-the-spotlight/ (ultimo accesso il 14 dicembre 2024); e all’opposto, Shell welcomes Dutch Court of Appeal ruling, disponibile su https://www.shell.com/news-and-insights/newsroom/news-and-media-releases/2024/shell-welcomes-dutch-court-of-appeal-ruling.html (ultimo accesso il 14 dicembre 2024).

[38] Corte suprema dei Paesi Bassi, Paesi Bassi c. Fondazione Urgenda, n. 19/00135, 09 ottobre 2018.

[39] Corte EDU, Verein KlimaSeniorinnen Schweiz e altri c. Svizzera, cit.

[40] Corte d’appello dell’Aja, Shell c. Vereniging Milieudefensie, cit., 7.12.

[41] Corte d’appello dell’Aja, Shell c. Vereniging Milieudefensie, cit., 7.13-7.16.

[42] Corte d’appello dell’Aja, Shell c. Vereniging Milieudefensie, cit., 7.17.

[43] Corte d’appello dell’Aja, Shell c. Vereniging Milieudefensie, cit., 7.18. La sentenza non manca peraltro di segnalare che l’effetto diretto di alcuni diritti fondamentali è riconosciuto dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea, citando in particolare alcune pronunce sul diritto del lavoratore a fruire di ferie annuali retribuite garantito dall’art. 31, par. 2 della Carta dei diritti fondamentali (CGUE C 684/16, 6 novembre 2018; CGUE, da C 271/22 a C 275/22, 9 novembre 2023).

[44] Corte d’appello dell’Aja, Shell c. Vereniging Milieudefensie, cit., 7.27.

[45] Corte d’appello dell’Aja, Shell c. Vereniging Milieudefensie, cit., 7.55.

[46] Nel caso Urgenda i giudici erano chiamati a stabilire se lo Stato nederlandese fosse obbligato a una riduzione delle emissioni del 25-40% entro il 2020 rispetto ai livelli del 1990. Questo dato si ricavava dal rapporto AR4 del’IPCC come condizione per contenere l’aumento della temperatura entro 2°C ed era riferito complessivamente agli Stati dell’Allegato I della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico, tra cui i Paesi Bassi. La Corte suprema ha stabilito che tale obiettivo si applica però anche allo Stato olandese singolarmente considerato e così già la Corte d’appello che sottolineava come lo Stato convenuto non avesse provato perché dovrebbe applicarsi ad esso un tasso di riduzione inferiore a quello previsto per i paesi dell’Allegato I. (Corte d’appello dell’Aja, Paesi Bassi c. Fondazione Urgenda, n. 200.178.245/01, 09 ottobre 2018, 60). Sul punto, la sentenza d’appello veniva richiamata e confermata dalla Corte Suprema (Corte suprema dei Paesi Bassi, Paesi Bassi c. Fondazione Urgenda, cit., 7.3.4). Si veda, tra i primissimi commenti alla sentenza in esame nel testo, P. Paiement, Shell v Milieudefensie Confirms Major Developments in Climate Change Liability, cit.

[47] Corte d’appello dell’Aja, Shell c. Vereniging Milieudefensie, cit., 7.53.

[48] Corte d’appello dell’Aja, Shell c. Vereniging Milieudefensie, cit., 7.57. La Corte prende in esame principalmente quattro direttive introdotte in parte nel contesto del Green Deal e del pacchetto Fit for 55: ETS, ETS-2, CSRD e CSDDD. Su quest’ultima direttiva, entrata in vigore nelle more del giudizio d’appello, si veda 5, infra.

[49] Corte d’appello dell’Aja, Shell c. Vereniging Milieudefensie, cit., 7.61.

[50] A. Nollkaemper, Lessons of a Landmark Lost. The Judgment of the Hague Court of Appeal in Shell v Milieudefensie, cit.; L. Jeremiašová, The Court of Appeal Judgment in Shell v. Milieudefensie: As One Door Closes, Another Opens, in Blogging for Sustainability, 18 novembre 2024, consultabile sul sito https://www.jus.uio.no/english/research/areas/sustainabilitylaw/blog/2024/shell-v-milieudefensie.html (ultimo accesso il 20 dicembre 2024).

[51] Corte d’appello dell’Aja, Shell c. Vereniging Milieudefensie, cit., 7.63-7.66.

[52] Corte d’appello dell’Aja, Shell c. Vereniging Milieudefensie, cit., 7.99. Vengono citati a titolo di esempio il sistema ETS2 e le direttive europee CSRD e CSDDD, insieme con le Linee guida dell’OCSE. La Corte ricorda anche gli strumenti che consentirebbero a Shell di orientare le scelte dei clienti: le ISOs Net Zero Guidelines e il 1.5°C Business Playbook.

[53] A. Nollkaemper, Lessons of a Landmark Lost. The Judgment of the Hague Court of Appeal in Shell v Milieudefensie, cit.; P. Paiement, Shell v Milieudefensie Confirms Major Developments in Climate Change Liability, cit.

[54] Corte d’appello dell’Aja, Shell c. Vereniging Milieudefensie, cit., 7.110.

[55] Corte d’appello dell’Aja, Paesi Bassi c. Fondazione Urgenda, cit., 57. In Urgenda, lo Stato olandese ipotizzava il rischio del c.d. carbon-leakage: imporre nei Paesi Bassi una riduzione delle emissioni avrebbe spinto le imprese a trasferirsi in Paesi soggetti a regole meno restrittive, senza alcun risultato sulle emissioni complessive. L’argomento veniva rigettato dalla stessa Corte d’appello anche perché meramente ipotetico. Lo Stato non aveva adeguatamente provato che un tale rischio si concretizzerebbe. Nel caso Shell la Corte, all’opposto, sostiene che a mancare la prova siano Milieudefensie e gli altri attori, i quali non avrebbero sufficientemente dimostrato il nesso di causalità tra una riduzione delle vendite di carburanti fossili e la riduzione delle emissioni complessive.

[56] Trib. distrettuale dell’Aja, Vereniging Milieudefensie c. Royal Dutch Shell, cit., 4.4.49.

[57] Corte d’appello dell’Aja, Shell c. Vereniging Milieudefensie, cit., 7.101.

[58] P. Nieto, The Market Substitution Argument in Milieudefensie et al. v. Shell judgment: A Threat to Justiciability for Scope 3 Emissions, cit. L’Autrice osserva come l’argomento controfattuale di un’ipotetica sostituzione di Shell con altre compagnie petrolifere non vale a escludere il dato reale e non ipotetico delle emissioni causate dalle condotte di Shell.

[59] Atto di citazione Greenpeace Onlus et al. c. Eni S.p.A. et al., p. 129. L’atto è consultabile sul sito https://www.greenpeace.org/italy/rapporto/17711/lagiustacausa-leggi-tutti-i-documenti/ (ultimo accesso il 14 dicembre 2024).

[60] Principalmente, ancora una volta, i Principi guida delle Nazioni Unite su imprese e diritti umani e le Linee guida dell’Ocse per le imprese multinazionali sulla condotta responsabile d’impresa.

[61] Sull’applicazione della responsabilità civile nel contenzioso climatico, L. Serafinelli, Responsabilità extracontrattuale e cambiamento climatico, Torino, 2024; M. Zarro, Danno da cambiamento climatico e funzione sociale della responsabilità civile, Napoli, 2022. Sul ruolo dell’inibitoria, R. Fornasari, La struttura della tutela inibitoria ed i suoi possibili utilizzi nel contrasto al cambiamento climatico, in Responsabilità civile e previdenza, 86(6), 2021, pp. 2061-2084; R. Tiscini, Tutela inibitoria e contenzioso climatico, in Riv. Dir. Processuale, n. 2, 2024, pp. 331 ss.

[62] Atto di citazione, cit., p. 91.

[63] L. Serafinelli, Responsabilità extracontrattuale e cambiamento climatico, cit., p. 352.

[64] Comparsa di costituzione di Eni S.p.A., p. 5.

[65] Comparsa di costituzione di Eni S.p.A., pp. 24 ss.

[66] Comparsa di costituzione di Eni S.p.A., pp. 83-84. Inoltre, gli attori avrebbero mancato di dedurre specificamente e provare (i) la sussistenza di un effettivo deterioramento della propria qualità della vita privata o familiare, (ii) il “legame diretto ed immediato” tra l’asserita condotta illecita lamentata e l’incidenza della stessa sul godimento del diritto al rispetto della vita privata e familiare, nonché (iii) le specifiche conseguenze dannose ed “infauste” subite sulla propria sfera privata o familiare.

[67] Comparsa di costituzione di Eni S.p.A., pp. 16-19.

[68] Comparsa di costituzione di Eni S.p.A., p. 37.

[69] Il valore del 45% rispetto ai livelli del 2010 è tratto dal Rapporto speciale dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), Global Warming of 1.5 ºC, del 2018. Si veda IPCC SR 15, Summary for Policymakers, C.1, p. 12. La raccomandazione troverebbe conferma, più di recente nel Rapporto AR6 Working Group III del 2023 (meno 48% al 2030 con riferimento ad una baseline del 2019). Secondo gli attori, da ciò è plausibile ed anche conservativo, rispetto a quanto la migliore scienza disponibile effettivamente richiede e ai principi di equità (principio delle responsabilità comuni ma differenziate e capacità rispettive), richiedere una riduzione del 45% al 2030 rispetto alla baseline del 2020.

[70] Atto di citazione cit., p. 133.

[71] Oltre alla sentenza Verein KlimaSeniorinnen Schweiz e altri c. Svizzera più volte citata nel testo, contengono diversi elementi significativi le contestuali pronunce Carême c. Francia, n. 7189/21, e soprattutto Duarte Agostino e altri c. Portogallo e 32 altri, n. 39371/20.

[72] Così L. Serafinelli, Responsabilità extracontrattuale e cambiamento climatico, cit., pp. 113-114, ma con riferimento alla sentenza di primo grado. L’Autore osserva, tuttavia, come nell’ordinamento italiano manchi un precedente come Urgenda.

[73] A seguito della sentenza KlimaSeniorinnen, negare la giustiziabilità del contenzioso climatico o la giurisdizione in materia esporrebbe l’Italia ad una condanna della Corte EDU. Perciò è probabile che, davanti a una decisione sfavorevole, i promotori della Giusta Causa e del Giudizio Universale ricorrerebbero a Strasburgo. Si è già osservato come l’appello rivolto contro la sentenza Giudizio Universale prospetta chiaramente questa eventualità. Ma i giudici di Strasburgo sono chiamati sin d’ora a pronunciarsi su due ricorsi attualmente pendenti (Corte EDU, Uricchio c. Italia e altri, n. 14615/21, e De Conto c. Italia e altri, n. 4620/21). Promossi da due cittadine italiane, questi sembrano essere costruiti sul modello del caso Duarte Agostino e altri c. Portogallo e 32 altri. Se è improbabile che la Corte contraddica le conclusioni della Grand Chambre sul tema della giurisdizione extraterritoriale, le insufficienze dell’ordinamento italiano in fatto di accesso al giudice in materia climatica e la stessa declinatoria di giurisdizione del Tribunale di Roma nel caso Giudizio Universale potrebbero forse valere a giustificare l’assunto delle ricorrenti quanto alla superfluità dei ricorsi interni e quindi portare ad un giudizio di ammissibilità, limitatamente alle allegate violazioni del solo Stato italiano, diversamente dal caso Duarte dove il ricorso è stato ritenuto inammissibile anche nei confronti del Portogallo proprio per il mancato previo esperimento dei mezzi di ricorso interni, che però nel diritto portoghese appaiono, nella lettura della Corte di Strasburgo, molto più completi che in Italia.

[74] Corporate Sustainability Due Diligence Directive (CSDDD), Direttiva (UE) 2024/1760 del Parlamento europeo e del Consiglio del 13 giugno 2024 relativa al Dovere di diligenza delle imprese ai fini della sostenibilità e che modifica la Direttiva (UE) 2019/1937 e il Regolamento (UE) 2023/2859.

[75] L. Serafinelli, Responsabilità extracontrattuale e cambiamento climatico, cit., p. 401. M. Manna, Il caso Milieudefensie et al. contro Royal Dutch Shell plc e la proposta di direttiva della Commissione europea sulla corporate sustainability due diligence, l’alba di una nuova giustizia climatica?, in Comparative Law Review, 15, 2024, pp. 83 ss.

[76] La CSDDD richiama gli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite (considerando 8), la Convenzione quadro sui cambiamenti climatici, l’Accordo di Parigi (in particolare, l’obiettivo di contenere l’aumento della temperatura entro 1,5°C) e il Patto di Glasgow per il clima (considerando 10). M. Libertini, Gestione «sostenibile» delle imprese e limiti alla discrezionalità imprenditoriale, in Contratto e impresa, 1, 2023, sottolinea l’imponente fenomeno di drittwirkung di norme storicamente sorte sul piano del diritto internazionale quindi originariamente atte a fondare obblighi degli Stati e non dei soggetti privati. Sull’impatto della CSDDD sul contenzioso climatico, M. D’Auria, Climate litigation: una riflessione preliminare a margine della c.d. “Giusta Causa”, cit.

[77] Principalmente, in materia climatica, l’adozione e attuazione di un piano di transizione per la mitigazione dei cambiamenti climatici compatibile con l’obiettivo di conseguire la neutralità come stabilito nel regolamento (UE) 2021/1119, compresi i suoi obiettivi intermedi e di neutralità climatica al 2050 (considerando 73 e articolo 22). Si noti come gli obblighi di mitigazione sono obbligazioni di mezzi, laddove, in relazione alle emissioni scope 1 e 2, il Tribunale distrettuale dell’Aja aveva invece imposto a Shell obblighi di risultato. Ancora, “[t]rattandosi di un obbligo di mezzi, è opportuno tenere debitamente conto dei progressi compiuti dalle società, nonché della complessità e della natura evolutiva della transizione climatica. Mentre le imprese dovrebbero sforzarsi di conseguire gli obiettivi di riduzione delle emissioni di gas a effetto serra contenuti nei loro piani, circostanze specifiche possono far sì che le imprese non siano in grado di raggiungere tali obiettivi, laddove ciò non sia più ragionevole. Il piano dovrebbe includere obiettivi temporalmente definiti connessi ai cambiamenti climatici, per il 2030 e in fasi quinquennali fino al 2050, sulla base di prove scientifiche conclusive nonché, se del caso, obiettivi assoluti di riduzione delle emissioni di gas a effetto serra di ambito 1, 2 e 3” (considerando 73, ma in termini analoghi anche l’articolo 22).

La direttiva, all’articolo 29, prevede poi un regime di responsabilità civile delle società, di applicazione necessaria, peraltro facendo salve le norme nazionali ed eurounitarie più rigorose.

[78] È quanto sostiene, in particolare con riguardo alle norme di procedura in materia di prova, N. Touw, The CSDDD: beyond remedies in civil litigation?, in Academy of European Law, Working Paper, 2024/25.

[79] L. Serafinelli, Responsabilità extracontrattuale e cambiamento climatico, cit., p. 352. L’Autore osserva anche come la nuova direttiva e l’iniziativa giudiziaria rivolta in Italia contro Eni abbiano entrambe la loro matrice comune nel caso Shell.

[80] Corte d’appello dell’Aja, Shell c. Vereniging Milieudefensie, cit., 7.56.

[81] Tra gli argomenti addotti, anche la flessibilità assicurata dal considerando 73 che precisa: “[m]entre le imprese dovrebbero sforzarsi di conseguire gli obiettivi di riduzione delle emissioni di gas a effetto serra contenuti nei loro piani, circostanze specifiche possono far sì che le imprese non siano in grado di raggiungere tali obiettivi, laddove ciò non sia più ragionevole”.

[82] Corte d’appello dell’Aja, Shell c. Vereniging Milieudefensie, cit., 7.45-7.46. La sentenza chiarisce invece che la legislazione eurounitaria in materia climatica non parte dall’assunto che una singola impresa sia soggetta a un preciso tasso di riduzione predeterminato dall’Unione (Ibidem, 7.51).

[83] CSDDD, art. 22. In termini analoghi, il considerando 73.

Di cosa si parla in questo articolo
Vuoi leggere la versione PDF?

WEBINAR / 26 Giugno
Gestione di informazioni privilegiate: il nuovo regime MAR


Le novità del Listing Act e i nuovi standard europei

ZOOM MEETING
Offerte per iscrizioni entro il 06/06


WEBINAR / 18 Giugno
Rischio geopolitico e gestione del credito, tra dazi e guerre commerciali


Strumenti di monitoraggio e mitigazione

ZOOM MEETING
Offerte per iscrizioni entro il 30/05