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La Direttiva UE n. 1673/2018 sulla lotta al riciclaggio mediante il diritto penale: osservazioni sul recepimento

18 Dicembre 2020

Nicola Mainieri, già responsabile del Nucleo della Banca d’Italia a supporto dell’Autorità Giudiziaria; Marco Alessandro Morabito, membro Commissione Antiriciclaggio Ordine Avvocati Milano

Di cosa si parla in questo articolo
AML

Premessa[*]

Lo scorso 3 dicembre 2020 è scaduto il termine per il recepimento nell’ordinamento degli stati membri della direttiva 23 ottobre 2018 n. 1673 riguardante la lotta al riciclaggio mediante il diritto penale. E’ attualmente in fase di discussione alla Camera il disegno di legge n. C.2757 riguardante la delega al Governo per il recepimento delle direttive europee, mentre lo scorso 29 ottobre 2020 il Senato ha approvato il disegno di legge n. S.1721 avente ad oggetto il medesimo argomento. Nel disegno di legge n. S.1721, l’articolato licenziato dalla commissione delle politiche europee (articolo 1, comma 1) rinvia soltanto all’allegato A, contenente un elenco delle direttive UE da recepire, tra le quali compare la direttiva antiriciclaggio n. 1673/2018. Tuttavia, a differenza di molte altre direttive in via di recepimento, il disegno di legge approvato in prima lettura dal Senato nulla prevede in merito a principi e criteri direttivi specifici di delega al governo per l’effettivo adeguamento della normativa interna alle novità non trascurabili introdotte dalla direttiva in argomento[1].

Nello specifico, gli autori ritengono auspicabili modifiche della legislazione interna in tema di: descrizione delle azioni che costituiscono riciclaggio ex art. 648 bis cod. pen., giurisdizione penale e locus commissi delicti ex art. 7 cod. pen., definizione giuridica delle monete virtuali[2], completamento della normativa antiriciclaggio sulla disciplina riguardante i prestatori dei relativi servizi.

1.1 La descrizione delle azioni che devono costituire il reato di riciclaggio

1. La direttiva n. 1673, nel delimitare all’art. 3 la figura del reato attraverso la descrizione delle azioni che devono costituire riciclaggio, specifica testualmente che tali condotte devono essere poste in atto intenzionalmente ed essere caratterizzate dalla consapevolezza della provenienza dei beni da attività criminosa: conoscenza della provenienza illecita e coscienza e volontà sono dunque indicati espressamente come elementi della condotta (riciclaggio consapevole)[3].

L’accento sulla necessaria intenzionalità della condotta e sulla consapevolezza della provenienza dei beni da illecito è contenuto a chiare lettere anche nel considerando n. 13 della direttiva, che aggiunge anche l’indicazione di criteri esemplificativi di massima per valutare la sussistenza dell’elemento soggettivo alla luce del caso concreto[4].

D’altra parte, al comma 2 dello stesso art. 3 la direttiva prevede la sola facoltà – ma non l’obbligo – per gli stati membri di emanare norme punitive in relazione a condotte dell’autore che sospetti o debba essere a conoscenza della provenienza dei beni da attività criminosa, ossia in presenza di colpa o rimproverabilità. È lasciata quindi alla discrezionalità dei singoli stati membri la scelta di adottare politiche criminali di maggiore severità nel considerare reato il riciclaggio anche se commesso con leggerezza o negligenza grave.

L’ordinamento italiano rispetta le indicazioni delle direttive europee attraverso la previsione un doppio binario sanzionatorio, che vede da una parte un coefficiente di consapevolezza e colpevolezza per le violazioni penali in materia di riciclaggio, e, dall’altra, un concetto di conoscibilità e rimproverabilità che prescinde dall’accertamento del dolo o della colpa per le violazioni amministrative. Da questo punto di vista, la scelta del legislatore italiano è certamente rigorosa se solo si considera che nel nostro paese le sanzioni più gravi e frequenti che possono colpire gli autori delle violazioni della normativa antiriciclaggio ex d.lgs. 231/2007 sono di tipo amministrativo (artt. 56-69 d.lgs. 231/2007) e, dunque, già esenti ex lege dalla necessità di dimostrazione dell’elemento soggettivo doloso o colposo. L’art. 3 della legge 24 novembre 1981 n. 689, infatti, prevede la punibilità dell’azione od omissione, sia essa dolosa o colposa, purché cosciente e volontaria,[5] salvo, comunque, l’onere della prova in capo all’incolpato circa la mancanza di colpa in concreto.[6]

Tuttavia, alla luce dell’espresso riferimento alla consapevolezza della condotta, contenuto all’art. 3 comma 1 e nel considerando n. 13 della direttiva n. 1673, appare oggi maturo e necessario un adeguamento della descrizione legislativa delle fattispecie penali di riciclaggio ex art. 648 bis e reimpiego ex art. 648 ter c.p.

In un’ottica di maggior rispetto del principio di legalità, tassatività e colpevolezza che anima il diritto penale, appare auspicabile un adeguamento della descrizione normativa della fattispecie penale di cui all’art. 648 bis e ter c.p., che veda l’inserimento nel testo dell’art. 648 bis c.p.(riciclaggio) e dell’art. 648 ter (reimpiego) dell’avverbio “consapevolmente” prima della descrizione della condotta (quindi prima dei verbi “sostituisce”, “trasferisce”, “compie”, “impiega”) in modo da garantire una maggiore importanza all’elemento soggettivo della condotta, che andrebbe accertato in termini rigorosi.

Ciò consentirebbe di neutralizzare il rischio di perseguire condotte caratterizzate da trascuratezza o leggerezza in un quadro di adempimenti preventivi sempre più diffusi e pressanti per i destinatari delle norme antiriciclaggio, pur senza sconfinare in un inaccettabile recupero di quel dolo specifico che originariamente era previsto dall’articolo 648 bis nella formulazione antecedente alla riforma del 1990.

Si eviterebbe, in questo modo, la tentazione (tutt’altro che rara nella prassi) di contestare non già la conoscenza della provenienza illecita ma piuttosto la sua “conoscibilità”, utilizzando quindi un criterio di rimproverabilità che prescinde dall’accertamento del dolo ed entra pericolosamente nel campo della colpa.

L’aggiunta di questa specificazione, peraltro, non darebbe luogo a problemi neppure per la configurabilità in concreto del dolo eventuale, atteso che per l’accertamento di questa modalità di manifestazione dell’elemento soggettivo è essenziale soprattutto il momento volitivo, che contrassegna l’adesione del soggetto al fatto[7].

Del resto, il legislatore italiano non è nuovo, nei tempi recenti, all’utilizzo di tale tecnica normativa: si legga, per esempio, l’attuale formulazione della fattispecie di reato di false comunicazioni sociali ex art. 2621 c.c. a seguito della novella legislativa 2015, con l’inserimento dell’avverbio “consapevolmente” nella descrizione della condotta di esposizione dei fatti falsi, proprio nell’intento di richiedere la consapevolezza piena del soggetto agente[8].

2.La definizione di riciclaggio contenuta nell’art. 3 della direttiva 1673 prevede inoltre al comma 3 che la condanna per questo reato debba intervenire a prescindere dall’esistenza di condanne precedenti (lett. a) e dalla determinazione di tutti gli elementi fattuali o circostanze relative (lett. b). Oltre a questo, alla lettera c) si specifica che il reato presupposto possa essere costituito anche dalla condotta posta in essere in altro stato membro o terzo a condizione che la condotta commessa costituisca attività criminosa se posta in essere nel territorio nazionale (e gli Stati membri possono esigere che tale condotta costituisca reato anche nello Stato membro o terzo)[9].

Nel nostro ordinamento è la giurisprudenza di legittimità ad affermare -ormai in modo consolidato- che non è necessario che il reato presupposto del riciclaggio sia accertato con sentenza definitiva né che sia totalmente determinato nei suoi elementi costitutivi, compresa l’identità del soggetto passivo, essendo sufficiente la prova logica della provenienza delittuosa delle utilità oggetto delle operazioni compiute[10].

Appare opportuno, quindi, un ulteriore aggiornamento del testo dell’art. 648 bis c.p. – questa volta in senso più severo – con l’inserimento esplicito di tali caratteristiche del reato presupposto nella descrizione della fattispecie criminale, ovvero della espressa indicazione “di non necessario od integrale accertamento giudiziale, e commesso anche al di fuori del territorio dello Stato, purché costituente attività criminosa anche nello Stato italiano”.

In questo modo l’adeguamento alla direttiva potrebbe essere assicurato evitando il rischio di creazioni giurisprudenziali di fattispecie penalmente rilevanti, con il pieno rispetto dei principi di legalità e tassatività tipici del nostro diritto penale.

1.2 I criteri di giurisdizione internazionale

La direttiva n. 1673, all’art. 10 e nei considerando n. 1 e 9, – nell’ottica di favorire la cooperazione transfrontaliera tra le autorità competenti nella lotta al riciclaggio – regola anche la giurisdizione ed il locus commissi delicti, allo scopo di evitare che il riciclatore possa usufruire della legislazione più favorevole di un altro Stato o della sua minore collaborazione informativa.

In particolare, l’art. 10 prevede due criteri alternativi -obbligatori per gli Stati membri- per stabilire la giurisdizione nazionale, ossia l’obbligo per lo Stato di radicare la propria competenza se (alternativamente):

  • lett. a): il reato commesso nel proprio territorio, anche solo in parte;
  • lett. b): l’autore del reato è un suo cittadino [11].

Dunque, dal raffronto con le norme in materia di giurisdizione vigenti nell’ordinamento italiano, emerge che i criteri di territorialità previsti dal codice penale italiano (artt. 6, 7, 8, 9 e 11 c.p.) vengono in parte estesi nella previsione della direttiva n.1673.

Infatti, se è certamente speculare al primo criterio obbligatorio di giurisdizione previsto dall’art. 10 co. 1 della direttiva la previsione dell’art. 6 codice penale in merito alla punibilità secondo la legge italiana dei reati commessi da chiunque in Italia (in tutto o in parte o anche in relazione all’evento), altrettanto non può dirsi nel caso in cui l’autore del reato sia un cittadino dello Stato ed il reato sia commesso all’estero[12], giacché

  • l’art 10 lett. b della direttiva n. 1673 non pone limiti o condizioni alla giurisdizione interna nel caso in cui l’autore del reato di riciclaggio sia un cittadino dello stesso Stato membro.
  • invece, l’articolo 7 del nostro codice penale radica la giurisdizione in Italia solo in caso di delitti gravi contro lo Stato (artt. 241 ss., 467, 453 ss., 357-314 ss.-61 n.9 c.p.) o stabiliti da leggi speciali o convenzioni internazionali commessi da chiunque.[13]

Dunque, da un parte, la direttiva 1673 pone un obbligo per gli Stati membri di radicare la propria giurisdizione interna nel caso in cui l’autore del reato di riciclaggio sia un cittadino dello stesso Stato membro, senza alcuna condizione (se non quella – implicita – che il reato sia commesso integralmente al di fuori del territorio di quello Stato, e, quindi, non trovi applicazione, il criterio alternativo di giurisdizione previsto alla lettera a dell’art. 10 della direttiva).

D’altra parte, nell’ordinamento italiano oggi vigente, secondo la previsione dell’art. 9 c.p., la giurisdizione italiana in caso di commissione del reato di riciclaggio interamente all’estero da parte di un cittadino italiano verrebbe radicata solo se questi si trova in Italia[14].

Ma le discordanze non sono finite. Significativa, infatti, è anche la differente procedibilità attualmente prevista per il reato di autoriciclaggio ex art. 648 ter 1 c.p. che sia commesso interamente all’estero dal cittadino italiano: in questo caso, tale delitto sarebbe addirittura perseguibile nel nostro paese soltanto dietro richiesta del ministro della giustizia, essendo l’art. 648 ter n. 1 c.p. punito nel minimo con la reclusione da due anni e perciò inferiore ai tre anni previsti dall’art. 9 c.p[15].

Le condizioni di procedibilità sopra richiamate, peraltro, delimitano e circoscrivono oggi allo stesso modo anche tutti i casi in cui l’ente (avente sede principale in Italia) si sia reso corresponsabile dei medesimi delitti di riciclaggio, reimpiego ed autoriciclaggio richiamati dall’art. 25 octies del medesimo decreto. Il riferimento è l’art. 4 del d.lgs. 231/01 (Reati commessi all’estero) nella parte in cui si prevede che “1. Nei casi e alle condizioni previsti dagli articoli 7, 8, 9 e 10 del codice penale, gli enti aventi nel territorio dello Stato la sede principale rispondono anche in relazione ai reati commessi all’estero, purché nei loro confronti non proceda lo Stato del luogo in cui è stato commesso il fatto. 2. Nei casi in cui la legge prevede che il colpevole sia punito a richiesta del Ministro della giustizia, si procede contro l’ente solo se la richiesta è formulata anche nei confronti di quest’ultimo”[16].

Infine, le contraddizioni aumentano se si considera che sarebbe, invece, punibile in Italia a norma dell’art. 7 c.p. il reato di riciclaggio commesso interamente all’estero dal cittadino italiano o dallo straniero avente le specifiche caratteristiche della transnazionalità, essendo applicabile in Italia la Convenzione e Protocollo ONU (cd. Convenzione di Palermo) del 2000 e 2001 sul crimine organizzato transnazionale, ratificata con L. n. 146/2006[17].

E’ dunque difficilmente negabile l’inconciliabilità, nel caso di commissione da parte del cittadino italiano del reato di riciclaggio (ed autoriciclaggio) interamente all’estero, tra gli attuali criteri di giurisdizione previsti dagli art. 7 e ss. c.p. e gli obblighi incondizionati di stabilire la propria giurisdizione in caso di commissione del reato di riciclaggio (e autoriciclaggio) da parte del cittadino dello Stato membro, sanciti dall’art. 10 lett. b) e 3 comma 5 della direttiva 1673.

Per l’adeguamento del nostro ordinamento ai principi ed agli obblighi di giurisdizione e i tema di locus commissi delicti (considerando 1 e 9[18], art. 10 direttiva) nell’ottica della cooperazione transfrontaliera tra le autorità competenti ed allo scopo di evitare che il riciclatore (o la persona giuridica che trae vantaggio dal reato) possa usufruire della legislazione più favorevole di un altro Stato o della sua minore collaborazione informativa, appare auspicabile una modifica del criterio di giurisdizione interna di cui all’art. 7 c.p. che veda l’aggiunta nel testo dell’art. 7 c.p. (reati commessi all’estero) dei delitti di riciclaggio (art. 648 bis c.p.), impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita (art. 648 ter) e autoriciclaggio (art. 648 ter n. 1 c.p.).

Tale modifica, oltre che imposta dall’obbligo per gli stati membri di perseguire il proprio cittadino senza condizioni previsto dall’art. 10 della direttiva, sarebbe anche in linea con l’esigenza di prescindere dai confini fisici tra le nazioni in un’ottica di effettività e concretezza della lotta al riciclaggio ed in conformità al progressivo abbandono nella legislazione internazionale del principio di territorialità a favore del principio di universalità.

2. Il tema delle valute virtuali nella Direttiva n. 2018/1673

La Direttiva parla esplicitamente di “valute virtuali” al considerando n. 6: “L’uso delle valute virtuali presenta nuovi rischi e sfide nella prospettiva della lotta al riciclaggio. Gli Stati membri dovrebbero garantire che tali rischi siano affrontati in modo adeguato”. Fa poi seguito l’art. 2 che definisce i “beni” che possono formare oggetto di condotte di riciclaggio e intende per tali quelli: “di qualsiasi tipo, materiali o immateriali, mobili o immobili, tangibili o intangibili, e i documenti o gli strumenti giuridici in qualsiasi forma, compresa quella elettronica o digitale, che attestano il diritto di proprietà o altri diritti sui beni medesimi”.

2.1 I rischi di riciclaggio

Come noto, valute virtuali, o cripto-valute, sono – di fatto – quei mezzi di pagamento elettronico, di tipo peer to peer, fondato sull’accettazione volontaria da parte degli operatori del mercato, che lo ricevono come corrispettivo per lo scambio di beni e servizi, riconoscendogli un valore di scambio in assenza di un obbligo di legge. Nate in una comunità di giocatori del poker on line, le valute virtuali si sono ampiamente sviluppate ed aumentate di numero tramite la block-chain: la catena di piattaforme elettroniche tramite la quale le valute virtuali vengono trattate [19].

L’utilizzo delle cripto-valute nel commercio elettronico è di fatto molto limitato dalla necessità di questa accettazione volontaristica, mentre le stesse sono diventate sempre più oggetto di vere e proprie scommesse speculative. Si stima che a tutt’oggi ne siano in circolazione quasi ottomila per un valore complessivo che supera i 560 miliardi di dollari; entrambi i dati sono caratterizzati da amplissime oscillazioni a carattere temporale, anche nello stesso giorno. Il bitcoin è quella più significativa, dal momento che da sola capitalizza oltre il 62 per cento del mercato [20].

Le valute virtuali hanno natura “puramente digitale”: sono infatti create, memorizzate e utilizzate su dispositivi elettronici nei quali sono conservate in conti personalizzati c.d. “portafogli elettronici” (e-wallet), come tali accessibili e trasferibili dal titolare in possesso delle relative credenziali, in qualsiasi momento e senza bisogno dell’intervento di terzi. Per utilizzarle occorre acquistarle da altro soggetto in cambio di valuta legale (fiat) – o di altra valuta digitale – ovvero accettarle, nei termini volontaristici sopra indicati, come corrispettivo per la vendita di beni e servizi, tramite piattaforme definite “exchange” che consentono lo scambio delle valute virtuali con le valute fiat al tasso di cambio aggiornato al valore di mercato. Queste piattaforme o prestatori di servizi svolgono, sempre di fatto, un ruolo simile a quello di un intermediario finanziario.

Le loro caratteristiche di anonimato, non ufficialità, assenza di autorità di vigilanza – unitamente alle frequenti notizie di procedimenti giudiziari in Italia e all’estero in merito a utilizzi per scopi illeciti, tra cui il riciclaggio e perfino il finanziamento del terrorismo – hanno fatto sì che negli ultimi anni sia cresciuta l’esigenza di una loro regolamentazione a fini anti-money laundering e di contrasto all’abusivismo finanziario.

La nostra legislazione antiriciclaggio [21] ha sviluppato negli ultimi anni una definizione ampia dei prestatori di servizi in valuta digitale o exchange, nonché di quelli di portafoglio elettronico o e-wallet [22]: gli appartenenti a entrambe le categorie sono classificati come soggetti obbligati tra gli “altri operatori non finanziari”. Dopo essere stato il primo Paese in Europa ad imporre gli obblighi antiriciclaggio agli exchange, già in sede di recepimento ex d.lgs. 90/17 della quarta direttiva che ancora non li menzionava ed in prospettiva del testo allora conosciuto della quinta, poi emanata nel maggio del 2018, l’Italia ha successivamente ampliato la base e le caratteristiche dei prestatori di servizi in valute virtuali, mediante il d.lgs. 125/19 che ha recepito la direttiva n. 2018/843.

Molto opportunamente, al fine sia di verificare il rispetto degli obblighi di contrasto al riciclaggio e al finanziamento del terrorismo da parte dei prestatori di tali servizi digitali, sia di disciplinare le forme i profili di abusivismo, già il d.lgs. 90/17 ha considerato gli exchange alla stregua di “cambiavalute virtuali”, imponendo loro obblighi di registrazione e assoggettandoli così alla vigilanza dell’Organismo Agenti e Mediatori – O.A.M. Detti obbligo sono stati poi estesi dal d.lgs. 125/19 anche agli e-wallet [23]. A tal fine il legislatore ha operato tramite la modifica della disciplina dell’attività tradizionale di cambiavalute, alla cui norma (art. 17-bis del d.lgs. n. 141/10) è stato aggiunto uno specifico comma che ne ha esteso le previsioni ai prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale. Veniva parimenti richiesta l’iscrizione di questi operatori in una “sezione speciale” del “registro dei cambiavalute”, dal 2015 tenuto dall’Organismo per la gestione degli elenchi degli agenti in attività finanziaria e dei mediatori creditizi, istituito dall’art. 128-undecies del Testo Unico Bancario [24]. Sono già registrati presso l’OAM: gli agenti in attività finanziaria, i mediatori creditizi, i money-transfer, i cambia-valute tradizionali, gli operatori compro oro.

Questa importante misura antiriciclaggio e di vigilanza nel campo dell’offerta di prestazioni, da considerare comunque a carattere finanziario, non è stata tuttavia sinora attuata. Pur essendo ampiamente scaduto il termine previsto, non è stato, infatti, ancora emanato il decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze che avrebbe dovuto disciplinare le modalità e la tempistica con cui i prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale dovranno comunicare al Ministero stesso la propria operatività sul territorio nazionale. Nel febbraio 2018 lo schema di detto decreto, che faceva seguito al d.lgs. 90/2017, era stato posto in pubblica consultazione come riferito agli exchange, senza che tuttavia ne seguisse l’emanazione [25]. Nuovamente, dal luglio 2020, si attende la pubblicazione del decreto, che dovrebbe ora anche prevedere le modalità e tempistiche di comunicazione a carico degli e-wallet. Il termine originario era stato individuato dal d.lgs. 90/2017 nel 5 luglio 2019, poi prorogato al 5 luglio 2020 dal successivo d.lgs. 125/2019 (“entro trentasei mesi dall’entrata in vigore” del d.lgs. 90/2017 ossia entro trentasei mesi dal 4 luglio 2017): un termine che non può più essere rimandato, sia per tutelare i prestatori di tali servizi che si sono correttamente iscritti al sistema di anagrafe dei segnalanti dell’Agenzia antiriciclaggio italiana, la Unità di Informazione Finanziaria – UIF della Banca d’Italia [26], sia per combattere le forme di abusivismo finanziario del settore.

2.2 La definizione dei beni che possono costituire condotte di riciclaggio

Ampio dibattito ha tuttora ad oggetto il secondo tema affrontato dalla direttiva n. 1673, ossia quello dell’art. 2 sulla necessità di qualificare come beni oggetto delle condotte di riciclaggio, quelli “di qualsiasi tipo…materiali o immateriali, e i documenti o gli strumenti giuridici in qualsiasi forma, compresa quella elettronica o digitale, che attestano il diritto di proprietà o altri diritti sui beni medesimi”.

Sinora le valute virtuali sono sempre state qualificate a seconda dell’angolo di prospettiva dei Regulators, delle agenzie fiscali o della (poca) giurisprudenza, e definite come rappresentazioni digitali di valore, mezzi di pagamento accettati in forma pattizia, divise estere, beni immateriali. Non vi è dubbio che – come autorevolmente osservato – le cripto-valute costituiscano materia nuova di “arduo inquadramento giuridico”, dove la problematicità nell’individuazione dei caratteri identitari, abbia connotato gli stessi per lo più rimarcando cosa esse non sono, ossia la moneta legale[27].

Già nel 2014 l’European Banking Authority – EBA, in un parere sulle valute virtuali finalizzato a favorire la convergenza regolamentare a livello europeo, le definiva “rappresentazioni digitali di valore, non emesse da banche centrali o da altre autorità pubbliche, che possono essere accettate da persone fisiche o giuridiche come mezzo di pagamento e che possono essere trasferite, archiviate o negoziate elettronicamente”, sottolineandone i rischi per gli utilizzatori, i partecipanti al mercato, gli intermediari e le autorità di regolamentazione, specie se utilizzate come strumenti di investimento [28]. Ancor prima della riforma antiriciclaggio, nella medesima linea si erano subito poste la Banca Centrale Europea [29] e la Banca d’Italia che, con la comunicazione del 30 gennaio 2015, in linea con l’EBA, tendeva a “scoraggiare” le banche e gli altri intermediari dall’acquistare, detenere o vendere valute virtuali, chiedendo al contempo ai vigilati di avvertire di tale orientamento i propri clienti operanti nel settore, prima di intraprendere operazioni della specie [30].

I connotati delle valute virtuali – declinati in senso anzitutto negativo – che i Regulators avevano subito individuato, ossia la “rappresentazione digitale di valore”, la non emissione o garanzia da parte di banca centrale o ente pubblico, la mancanza di status giuridico o di moneta, nonché la loro accettazione su base pattizia come mezzo di scambio, sono tutti alla base della loro regolamentazione antiriciclaggio. Ci si riferisce, anzitutto, a quella – come abbiamo visto –anticipatrice della legislazione europea di riferimento, operata dal d.lgs. 90/17 [31], seguita – poco dopo – dalla definizione che finalmente ne dà la quinta direttiva: “una rappresentazione digitale di valore che non è emessa o garantita da una banca centrale o da un ente pubblico, non è necessariamente legata a una valuta istituita, non possiede lo status giuridico di valuta o moneta, ma è accettata da persone fisiche e giuridiche come mezzo di scambio e può essere trasferita, memorizzata e scambiata elettronicamente” [32].

Se l’attenzione delle autorità di vigilanza e del legislatore antiriciclaggio è, per ovvi motivi, nell’ottica di rimarcare cosa le valute virtuali non sono, ossia valute a corso legale in primis, non lo stesso può dirsi sotto altri profili, quali la loro imponibilità fiscale o la valutazione della liceità della loro offerta finanziaria.

Per la relativa qualificazione sotto il profilo tributario, costituisce base fondamentale la sentenza emessa nel 2015 dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea[33] – in tema di applicazione della direttiva sul sistema comune d’imposta sul valore aggiunto – che stabilisce che le esenzioni previste dall’articolo 135, paragrafo 1, lettera e) della direttiva IVA non possono applicarsi solo a “le operazioni relative alle sole valute tradizionali” in quanto “si risolverebbe nel privarla di parte dei suoi effetti”; le attività di cambio di bitcoin in moneta tradizionale e viceversa rientrano pertanto a pieno titolo tra le attività esenti dall’applicazione dell’Iva per le transazioni compiute all’interno del territorio europeo. La sentenza aggiunge che la possibilità di inserire l’attività tra le cessioni di beni debba essere esclusa in quanto i bitcoin non sono da considerarsi un “bene materiale” nel senso fatto proprio dall’articolo 14 della direttiva in questione. La Corte afferma che, nel caso al suo esame, la moneta virtuale non trasferisce alcun diritto di proprietà e viene utilizzata unicamente per il cambio fra vari mezzi di pagamento che costituiscono prestazioni di servizi effettuate a titolo oneroso. Ne ha fatto seguito la Risoluzione dell’Agenzia delle Entrate[34] “Trattamento fiscale applicabile alle società che svolgono attività di servizi relative a monete virtuali” che, prendendo spunto dalla giurisprudenza europea, assimila le operazioni in cripto-valute a quelle in divise estere. Da questa assimilazione, l’Agenzia fa discendere la conferma dell’esenzione IVA ma – riprendendo l’identificazione fatta dalla Corte dell’attività di intermediazione nella compravendita come una “prestazione di servizi” – ne fa al contempo derivare la tassazione diretta, a carico delle imprese, delle relative componenti reddituali nonché a carico delle persone fisiche, per le cessioni a termini, la tassazione delle plusvalenze come redditi diversi di natura finanziaria.

Nel tentativo giurisprudenziale di fornire una qualificazione giuridica della natura, fortemente tecnicistica, delle cripto-valute, prima sentenza italiana sul tema è quella del Tribunale Civile di Verona [35] su una richiesta di restituzione fatta dall’attore, per il denaro corrisposto ad una società di servizi informatici che avrebbe dovuto aprire un conto in bitcoin ma che, pur avendo ricevuto i soldi necessari in valuta legale, non aveva eseguito la sua prestazione. Il Tribunale, facendo riferimento alla citata Risoluzione dell’Agenzia delle Entrate ed al richiamo di questa alla sentenza della Corte di Giustizia Europea, definisce la criptovaluta come “uno strumento finanziario utilizzato per compiere una serie di particolari forme di transazioni online”, facendone discendere natura contrattuale alla loro vendita, in quanto qualificabile come “attività professionale di prestazione di servizi a titolo oneroso, svolta in favore di consumatori”, inquadrabile in una “offerta al pubblico di prodotti finanziari” o di “servizi di investimento in valori mobiliari”. Più specificamente: l’operazione on line di cambio valuta va inquadrata nella ”offerta al pubblico di prodotti finanziari» ovvero in quella dei «servizi e attività di investimento in valori mobiliari”, come regolamentati dal Testo Unico della Finanza (d.lgs. 58/1998). Nel 2019 fa seguito una sentenza del Tribunale di Firenze [36], chiamato ad esprimersi sul fallimento di una piattaforma exchange online di scambio e deposito di criptovalute che erano state fatte sistematicamente confluire in unico e-wallet centrale, per cui non era più possibile distinguere quali cripto, gestite dalla piattaforma, appartenessero ai singoli utenti, se non sulla base della contabilità interna. La sentenza – dopo ampio excursus sulla legislazione antiriciclaggio e sulla decisione della Corte di Giustizia Europea del 2015 – considera il bitcoin come “una digitalizzazione di valore” che può essere considerata un bene ai sensi dell’art. 810 del codice civile, un bene fungibile in quanto “unità monetaria simile alla valuta che tuttavia non è qualificata come moneta legale…un bene oggetto di trasferimenti e transazioni”. Si aggiunge che “la criptovaluta è sia consumabile, in ragione del suo uso (quando viene speso) sia fungibile…perché della stessa natura e della stessa quantità, in quanto appartenente allo stesso protocollo informatico, a soggetti alla medesima ratio di altri beni che permettono di effettuare pagamenti”. La asserita fungibilità della criptovaluta consente quindi al Tribunale di dichiarare il fallimento della società che gestiva l’exchange, considerando la natura negoziale di deposito irregolare del rapporto tra l’utente e il gestore della piattaforma e l’insolvenza dell’imprenditore.

Recentemente, la Cassazione penale [37], in un procedimento per riciclaggio, ha classificato le valute virtuali alla stregua di prodotti finanziari, assoggettando l’offerta della loro compravendita alle disposizioni del Testo Unico sulla Finanza – TUF. La Corte era chiamata ad esprimersi sul ricorso della difesa in tema di provvedimenti cautelari reali, dovendosi occupare degli aspetti di legittimità di un’ordinanza del Tribunale del riesame di Milano, che aveva confermato un decreto di sequestro preventivo di fondi e altri beni emesso dal giudice per le indagini preliminari a carico di un indagato che, in concorso con altri, era chiamato a rispondere dei reati di cui agli articoli: 648 bis c.p. “riciclaggio”, 166 comma 1) lett. c) “abusivismo” del TUF e 493 ter c.p. “indebito utilizzo e falsificazione di carte di credito e di pagamento”. La vicenda sottostante prendeva spunto da denunce per furti di identità digitali e truffe online nel settore delle venite immobiliari; i denuncianti dichiaravano che, una volta versato l’acconto, non erano riusciti a concludere l’acquisto, mentre nel frattempo i siti venivano chiusi e il denaro, dopo numerosi giri, sarebbe infine stato investito in bitcoin. Soffermandosi sulla valutazione dell’attività di compra-vendita di valute virtuali svolta dagli indagati, che l’ordinanza impugnata affermava essere stata svolta su apposito sito internet e pubblicizzata tramite l’omonima pagina del social network Facebook, la Cassazione considera correttamente motivata l’ordinanza impugnata, in quanto “sottolinea che la vendita di bitcoin veniva reclamizzata come una vera e propria proposta di investimento, tanto che sul sito ove veniva pubblicizzata si davano informazioni idonee a mettere i risparmiatori in grado di valutare se aderire o meno all’iniziativa, affermando che “chi ha scommesso in bitcoin in due anni ha guadagnato più del 97%“. Tale attività deve essere perciò considerata come soggetta agli adempimenti previsti dal TUF, negli articoli 91 e seguenti, la cui omissione integra appunto la sussistenza del reato di abusivismo finanziario, di cui al successivo art. 166 comma 1, lett. c) [38].

In proposito, dottrina e giurisprudenza hanno spesso considerato le valute virtuali nel novero dei beni di cui all’art. 810 c.c., per via della loro riconducibilità a un’essenza economico-finanziaria, intendendo per bene un’entità utile, cioè adatta a soddisfare un bisogno umano di appropriazione e di utilizzo e che, perciò, possa avere un valore[39]. La riconducibilità a un’essenza economico-finanziaria è certamente compatibile con i tratti essenziali delle valute virtuali, che possono essere considerate come un bene giuridico, meritevole di tutela per gli interessi economici che sottende: tema di dibattito è se questo strumento tecnologico possa qualificarsi nella categoria dei “beni immateriali”. Così si definiscono quei beni che non hanno materialità corporea e non sono quindi percepibili dai sensi umani: vi appartengono ad esempio le invenzioni e le opere dell’ingegno, gli strumenti finanziari, i diritti che possono essere oggetto di negoziazione, marchi e brevetti e – più recentemente – i programmi per elaboratore o software[40]; tra i beni immateriali rientrano in dottrina anche i valori mobiliari e gli strumenti e i prodotti finanziari[41]. La recente sentenza della Suprema Corte che assoggetta agli adempimenti previsti dal TUF l’attività di offerta di compravendita delle valute virtuali – considerate come prodotti finanziari – è pertanto in linea con la dottrina sul tema. Proprio in tema di riciclaggio e quindi nell’ottica della direttiva penale, la Cassazione – pur senza fornire specifiche statuizioni – sembra considerare pacifico che i bitcoin o altre criptovalute rientrino nella condotta materiale del reato, che considera denaro, beni o altre utilità. La Suprema Corte si era già espressa sul reato di cui al 648 ter “Impiego di denaro, beni ed altre utilità di provenienza illecita” [42], stabilendo che “la nozione di attività economica o finanziaria è desumibile dagli artt. 2082, 2135 e 2195 c.c. e fa riferimento non solo all’attività produttiva in senso stretto, ossia a quella diretta a creare nuovi beni o servizi, ma anche a quella di scambio e di distribuzione dei beni nel mercato del consumo, nonché ad ogni altra attività che possa rientrare in una di quelle elencate nelle menzionate norme del codice civile” [43].

Al fine, tuttavia, di non lasciare – per l’ennesima volta – il compito definitorio alla giurisprudenza in una materia così importante ed in presenza di una specifica richiesta che la direttiva penale n. 1673 (art. 2) fa agli stati dell’Unione, anche sulla qualificazione giuridica delle criptovalute come “beni”, sarebbe quanto mai opportuna una precisazione di carattere normativo in sede di emanazione del decreto legislativo di attuazione[44].

 


[*] Il paragrafo 1 è stato curato da Marco A. Morabito mentre il paragrafo 2 è stato curato da Nicola Mainieri.

[1] L’unico riferimento è contenuto nella scheda di lettura del disegno di legge S.1721 alle pagine 221 e 222 dove vengono riassunti i principi della direttiva in oggetto, ma non nelle premesse, a pag. 12 e ss., dove vengono dettagliati principi e criteri direttivi di delega per molte altre direttive europee in via di recepimento.

[2] Un estratto del presente contributo è stato recentemente proposto da AssoAML alla commissione delle politiche europee della Camera al fine di considerare l’opportunità di tenere conto – nel processo di valutazione dell’adeguatezza della normativa interna – degli importanti principi e obblighi contenuti nella direttiva n. 1673/2018.

[3] Articolo 3 (Reati di riciclaggio) 1. Gli Stati membri adottano le misure necessarie per garantire che le condotte seguenti, qualora poste in atto intenzionalmente, siano punibili come reati: a) la conversione o il trasferimento di beni, effettuati essendo nella consapevolezza che i beni provengono da un’attività criminosa, allo scopo di occultare o dissimulare l’origine illecita dei beni medesimi o di aiutare chiunque sia coinvolto in tale attività a sottrarsi alle conseguenze giuridiche della propria condotta; b) l’occultamento o la dissimulazione della reale natura, della provenienza, dell’ubicazione, della disposizione, del movi­mento, della proprietà dei beni o dei diritti sugli stessi nella consapevolezza che i beni provengono da un’attività criminosa; c) l’acquisto, la detenzione o l’utilizzazione di beni nella consapevolezza, al momento della loro ricezione, che i beni provengono da un’attività criminosa. 2. Gli Stati membri possono adottare le misure necessarie per garantire che le condotte di cui al paragrafo 1 siano punibili come reato se l’autore sospettava o avrebbe dovuto essere a conoscenza che i beni provenivano da un’attività criminosa.

[4] Cons. 13). La presente direttiva è volta a qualificare come reato il riciclaggio qualora sia commesso intenzionalmente e con la consapevolezza che i beni derivano da un’attività criminosa.(…).

[5] Art. 3 (Elemento soggettivo) 1. Nelle violazioni cui è applicabile una sanzione amministrativa ciascuno è responsabile della propria azione od omissione, cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa.
2.Nel caso in cui la violazione è commessa per errore sul fatto, l’agente non è responsabile quando l’errore non è determinato da sua colpa.

[6] v. Cass., SS.UU., 6.10.1995, n. 10508 e recentemente, Cass. civ., 4.11.2019, n. 28287.

[7] Sul dolo eventuale vedasi l’insegnamento della nota sentenza Cass. Sez. Un. 24.04.2014, n. 38343,Espenhahn – Thyssenkrupp.

[8] Sul punto, F. MUCCIARELLI, Diritto Penale Contemporaneo, n.2/2015)

[9] Art.3. 3. Gli Stati membri adottano le misure necessarie per garantire che: a) l’esistenza di una condanna precedente o simultanea per l’attività criminosa da cui provengono i beni non sia un requisito essenziale per una condanna per i reati di cui ai paragrafi 1 e 2; b) una condanna per i reati di cui ai paragrafi 1 e 2 sia possibile qualora si accerti che i beni provengono da un’attività criminosa, senza che sia necessario determinare tutti gli elementi fattuali o tutte le circostanze relative a tale attività criminosa, compresa l’identità dell’autore; c) i reati di cui ai paragrafi 1 e 2 si estendano ai beni provenienti da una condotta che ha avuto luogo nel territorio di un altro Stato membro o di un paese terzo, qualora tale condotta costituisca un’attività criminosa se posta in atto nel territorio nazionale.

[10] Cass., sez. II, n. 546/2011; Cass. sez. V, n. 36940/2008; Cass., sez. VI, n. 495/09.

[11] Art. 10 (Giurisdizione) 1. Ciascuno Stato membro adotta le misure necessarie per stabilire la propria competenza giurisdizionale per i reati di cui agli articoli 3 e 4 nei seguenti casi: a) il reato è commesso, anche solo parzialmente, nel suo territorio; b) l’autore del reato è un suo cittadino.2. Uno Stato membro informa la Commissione in merito alla decisione di estendere la propria giurisdizione ai reati di cui agli articoli 3 e 4 commessi al di fuori del suo territorio quando: a) l’autore del reato risiede abitualmente nel suo territorio; b) il reato è commesso a vantaggio di una persona giuridica stabilita nel suo territorio.

[12] L’art. 11 c.p. prevede poi il rinnovamento del giudizio in Italia: nel caso dell’art. 6 c.p. il cittadino italiano è giudicato nello Stato anche se sia stato (già) giudicato all’estero; nei casi di cui agli art. 7, 8, 9 e 10 c.p., solo se vie è richiesta del ministro della giustizia.

[13] Art. 7 (Reati commessi all’estero). E’ punito secondo la legge italiana il cittadino o lo straniero che commette in territorio estero taluno dei seguenti reati:

1) delitti contro la personalità dello Stato italiano;

2) delitti di contraffazione del sigillo dello Stato e di uso di tale sigillo contraffatto;

3) delitti di falsità in monete aventi corso legale nel territorio dello Stato, o in valori di bollo o in carte di pubblico credito italiano;

4) delitti commessi da pubblici ufficiali a servizio dello Stato, abusando dei poteri o violando i doveri inerenti alle loro funzioni;

5) ogni altro reato per il quale speciali disposizioni di legge o convenzioni internazionali stabiliscono l’applicabilità della legge penale italiana.

[14] Art. 9 cod.pen, (delitto comune dei cittadini all’estero). 1.Il cittadino, che, fuori dei casi indicati nei due articoli precedenti, commette in territorio estero un delitto per il quale la legge italiana stabilisce la pena di morte (1) o l’ergastolo, o la reclusione non inferiore nel minimo a tre anni, è punito secondo la legge medesima, sempre che si trovi nel territorio dello Stato.

[15] Art. 9 cod.pen. comma 2. Se si tratta di delitto per il quale è stabilita una pena restrittiva della libertà personale di minore durata, il colpevole è punito a richiesta del ministro della giustizia ovvero a istanza, o a querela della persona offesa.

[16] Le condizioni di procedibilità attualmente previste all’art. 4 d.lgs. 231/2001 non si pongono, tuttavia, in antitesi con il dettato della direttiva 1671/2018, giacché questa, all’art. 10 comma 2 lett. b, prevede solo comefacoltativa e non come obbligatoria l’estensione della giurisdizione dello Stato membro al di fuori del proprio territorio quando “il reato è commesso a vantaggio di una persona giuridica stabilita nel suo territorio”.

[17] Vedasi l’art. 3 della Convenzione di Palermo per la definizione del carattere transnazionale dell’attività criminosa.

[18] Cons. 1) (…) Al fine di affrontare tali problemi e integrare e rafforzare l’applicazione della direttiva (UE) 2015/849 del Parlamento europeo e del Consiglio (2), la presente direttiva mira a contrastare il riciclaggio mediante il diritto penale, consentendo una cooperazione tran­sfrontaliera fra le autorità competenti più efficiente e più rapida.

Cons. 9). Nei procedimenti penali per riciclaggio gli Stati membri dovrebbero prestarsi la massima assistenza reciproca e garantire uno scambio di informazioni efficace e tempestivo, conformemente al diritto nazionale e al quadro giuridico dell’Unione in vigore. Le differenze tra le definizioni di reato-presupposto del diritto nazionale non dovrebbero ostacolare la cooperazione internazionale nei procedimenti penali per riciclaggio. È opportuno raffor­zare la cooperazione con i paesi terzi, in particolare incoraggiando e sostenendo l’introduzione di misure e meccanismi efficaci per contrastare il riciclaggio e garantendo una migliore cooperazione internazionale in questo settore.

[19] La block-chain consiste in una sorta di database di operazioni crittografate conservate su una rete di computer (chain) composta da blocchi, una specie di libro contabile aperto e verificabile dagli utenti, distribuito in modo tale che i record non possano essere modificati senza alterare tutti i blocchi successivi. Le transazioni avvengono in totale anonimato: ogni utente sulla blockchain è infatti identificato tramite una chiave crittografata privata, che rende impossibile l’individuazione delle controparti

[20] I dati aggiornati sono reperibili sul sito www.coinmarketcap.com

[21] Si fa riferimento al d.lgs. 231/2007 come modificato sia dal d.lgs. 90/2017 di recepimento della Quarta direttiva che dal d.lgs. 125/2019 che ha recepito la Quinta direttiva.

[22] Rispettivamente definiti dal d.lgs. 231/2007 all’art. 1 lett ff) come “prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale: ogni persona fisica o giuridica che fornisce a terzi, a titolo professionale, anche online,servizi funzionali all’utilizzo, allo scambio, alla conservazione di valuta virtuale e alla loro conversione da ovvero in valute aventi corso legaleo in rappresentazioni digitali di valore, ivi compresequelle convertibili in altre valute virtuali nonché i servizi di emissione, offerta, trasferimento e compensazione e ogni altro servizio funzionale all’acquisizione, alla negoziazione o all’intermediazione nello scambio delle medesime valute” e lett. ff-bis) come “prestatori di servizi di portafoglio digitale: ogni persona fisica o giuridica che fornisce a terzi, a titolo professionale, anche online,servizi di salvaguardia di chiavi crittografiche private per conto dei propri clienti, al fine di detenere, memorizzare e trasferire valute virtuali”.

[23] L’articolo 8 “Modifiche a disposizioni vigenti” riporta ora che “Al decreto legislativo 13 agosto 2010, n. 141, come modificato dal decreto legislativo 14 dicembre 2010, n. 218, e dal decreto legislativo 19 settembre 2012, n. 169, all’articolo 17-bis, dopo il comma 8, sono aggiunti i seguenti: «8-bis. Le previsioni di cui al presente articolo si applicano, altresì, ai prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale, come definiti nell’articolo 1, comma 2, lettera ff) e ff-bis), del decreto legislativo 21 novembre 2007, n. 231, e successive modificazioni tenuti, in forza della presente disposizione, all’iscrizione in una sezione speciale del registro di cui al comma 1. 8-ter”.

[24] Per maggiori dettagli cfr: N. Mainieri “Quinta direttiva europea antiriciclaggio: il decreto di recepimento 125/2019 entra in vigore” in Diritto Bancario, 5 novembre 2018.

[25] Il testo di allora è disponibile sul sito del MEF all’url http://www.dt.mef.gov.it/modules/documenti_it/regolamentazione_bancaria_finanziaria/consultazioni_pubbliche/31.01.18_bozza_DM_prestatori_val_virtuale_.pdf

[26] Secondo quanto riportato nel Rapporto annuale 2019, disponibile sul sito, la UIF ha ricevuto 729 segnalazioni riguardanti virtual asset, principalmente da banche e Poste, ma anche da prestatori di relative attività di cambio.

[27] F. Di Vizio “Lo statuto penale delle valute virtuali: le discipline e i controlli”, relazione al corso “Criptocurrency e blockchain: profili civilistici e penalistici” – Scuola superiore della Magistratura, Caltanisetta, 6 giugno 2019

[28] E.B.A. Opinion on ‘virtual currencies’, 4 luglio 2014

[29] European Central Bank “Virtual currency schemes – a further analysis”, 12 febbraio 2015

[30] In pari data, la UIF con la sua comunicazione sull’“Utilizzo anomalo delle valute virtuali” richiamava l’attenzione dei destinatari degli obblighi antiriciclaggio, in particolare degli intermediari finanziari e degli operatori di gioco, sulla necessità di monitorare le operatività connesse con valute virtuali e individuarne gli eventuali elementi di sospetto, a fini di prevenzione del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo

[31] D.lgs. 90/17 che, modificando il d.lgs. 231/07, inserisce una loro definizione in tal senso all’art. 1 comma 2, lett qq)

[32] Direttiva (UE) n. 2018/873 che modifica l’art. 3 della quarta direttiva, di carattere definitorio, aggiungendo il nuovo punto 18)

[33] Corte di Giustizia dell’Unione europea – sentenza del 22 ottobre 2015, sez. V (causa C‑264/14) – emessa in tema di applicazione della direttiva 2006/112/CE del Consiglio del 28 novembre 2006

[34] Ris. 72/E del 2 settembre 2016

[35] Tribunale Civile di Verona, sentenza n. 195 del 24 gennaio 2017

[36] Tribunale di Firenze, sez. fallimentare, sent. n. 18 del 21 gennaio 2019

[37] Cassazione Penale, sez. II, sent. n. 26807 del 17 settembre 2020

[38] Che punisce con la reclusione da uno a otto anni e con la multa da euro quattromila a euro diecimila chiunque, senza esservi abilitato offre fuori sede, ovvero promuove o colloca mediante tecniche di comunicazione a distanza, prodotti finanziari o strumenti finanziari o servizi o attività di investimento

[39] Enciclopedia del diritto, voce “Beni”. Milano 1959; F. Santoro-Passarelli in “Dottrine generali del diritto”, 1971

[40] In tal senso anche F. Di Vizio che valorizza “il significato sistematico delle prime esperienze di regolamentazione del fenomeno (in materia di antiriciclaggio, di monitoraggio fiscale e nella prospettiva normativa, ancora non completata, della riserva di attività), che muovono dall’esistenza di un tal diritto (di proprietà) sul bene immateriale, elemento attivo del patrimonio individuato in una prospettiva economica e sociale, nonché tecnologicamente voluta”, op. cit, pagg. 21 e segg.

[41] Tra gli altri, M. Cian “Strumenti finanziari” in Treccani, Diritto online, 2015 “la nozione di strumenti finanziari si fonda eminentemente sul concetto di relazione di investimento: essi rappresentano beni economici non in senso materiale (non sono ‘cose corporali’, nonostante in alcuni casi possano essere rappresentati da certificati) e neppure costituiscono l’oggetto immateriale di diritti assoluti al pari delle privative industriali; si sostanziano invece in rapporti bilaterali, costruiti attorno all’allocazione di risorse finanziarie tra due parti”.

[42] Che punisce “chiunque, fuori dei casi di concorso nel reato e dei casi previsti dagli articoli 648 e 648 bis, impiega in attività economiche o finanziarie denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto”.

[43] Cass. pen., sez. II, n.33076 del 14 luglio 2016.

[44] Si tratta di un tema di particolare rilievo che recentemente è stato oggetto di un’importante iniziativa della Commissione Europea. Il 24 settembre 2020 la Commissione – questa volta scegliendo lo strumento legislativo del regolamento, come tale dotato di self-executing ossia di diretta applicazione una volta approvato e senza bisogno di misure di recepimento da parte degli Stati membri – ha varato un “pacchetto per la finanza digitale” articolato su più fronti. Tra i temi principali quello di una “prima regolamentazione europea sulle cripto-attività per sfruttare le possibilità offerte dalle stesse, mitigando i rischi per gli investitori e la stabilità finanziaria”(Commissione europea, 24 settembre 2020, Digital finance package, disponibile all’ url https://ec.europa.eu/info/publications/200924-digital-finance-proposals_it).

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