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La clausola compromissoria: tecniche redazionali e principi interpretativi

21 Aprile 2017

Avv. Vittorio Pisapia, Craca Di Carlo Guffanti Pisapia Tatozzi & Associati

Di cosa si parla in questo articolo

Sommario: I. – Premessa. II. – Le materie che possono essere oggetto di arbitrato. III. – I principi fondamentali per la redazione e interpretazione della clausola arbitrale.1. – Il principio dell’interpretazione della clausola secondo i criteri di interpretazione contrattuale (1362 e seguenti c.c.). 2. – Il principio del carattere – di regola – dispositivo delle norme del codice di procedura in materia di arbitrato. 3. – Il principio del favor per l’arbitrato. 4. – Segue: il favor per l’arbitrato rituale (di diritto) rispetto all’arbitrato irrituale. 5. –Segue: differenze tra arbitrato rituale e irrituale. 6. – Il favor (attenuato) per l’arbitrato di diritto rispetto all’arbitrato di equità. 7. – Il principio per cui la clausola compromissoria deve essere redatta per iscritto ad substantiam. 8. – Il principio per cui, nell’arbitrato rituale, l’impugnazione del lodo è ammessa solo per i motivi di cui all’art. 829 c.p.c., esclusa la violazione di legge – salvo che le parti non l’abbiano espressamente previsto. 9. – Il principio per cui la sede dell’arbitrato funge da criterio per: a) individuare la legge arbitrale applicabile (nazionale o estera) ove una delle parti abbia sede e/o residenza all’estero e b) in caso di arbitrato domestico, il giudice statuale competente a svolgere le diverse funzioni di ausilio in relazione al procedimento arbitrale. 10. – Il principio di uguaglianza delle parti nella nomina dell’arbitro e della imparzialità, indipendenza ed equidistanza dell’arbitro da ciascuna delle parti. IV. – La scelta se deferire o meno la vertenza agli arbitri. V. – Come redigere la clausola arbitrale (una volta fatta la scelta di inserirla nel contratto). VI. – Segue: cosa scrivere (o non scrivere) nella clausola.

 

I. – Premessa.

La clausola compromissoria è quella clausola attraverso la quale le parti stabiliscono che le controversie nascenti dal contratto al quale si riferiscono siano decise da arbitri[1].

Per una corretta ed efficace redazione di una (valida) clausola arbitrale occorre aver presenti alcuni principi fondamentali in materia di arbitrato.

Tali principi valgono quali linee guida per valutare anzitutto se stipulare una clausola arbitrale e, in caso affermativo, come redigerla.

I principali temi che è necessario porsi nella redazione di una clausola arbitrale sono i seguenti:

a) sede dell’arbitrato;

b) arbitrato rituale o irrituale;

c) arbitrato di diritto o di equità;

d) arbitrato amministrato o arbitrato ad hoc;

e) arbitrato multi-step;

f) arbitro unico o collegio arbitrale;

g) ambito oggettivo della clausola;

h) legge applicabile al merito della controversia;

i) regolamento arbitrale;

l) termine per il lodo;

m) possibilità di impugnare il lodo (anche) per violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto sostanziale;

n) disciplina della fase rescissoria in caso di impugnazione.

Naturalmente, perché si ponga la questione se e come redigere una clausola arbitrale la materia oggetto della clausola da redigere deve essere compromettibile, cioè deferibile in arbitrato.

II. – Le materie che possono essere oggetto di arbitrato.

1. – Il criterio per individuare le materie arbitrabili è un criterio negativo: ossia, sono arbitrabili tutte le controversie “che non abbiano per oggetto diritti indisponibili, salvo espresso divieto di legge” (art. 806, comma 1, c.p.c., richiamato, per la clausola compromissoria, dall’art. 808). (Il secondo comma dell’art. 806 stabilisce poi che “le controversie ex art. 409 c.p.c. possono essere decise da arbitri solo se previsto dalla legge o nei contratti collettivi di lavoro”).

Dunque, alla stregua dell’art. 806 c.p.c., l’arbitrabilità rappresenta la regola e la non arbitrabilità l’eccezione.

Non è agevole definire cosa si intenda per “diritti indisponibili” e quindi quali siano quelli “disponibili”[2].

In generale, si ritiene che siano disponibili i diritti rispetto ai quali il titolare abbia potere negoziale, cioè il potere di darsi regole di condotta.

E’ pacifico, in particolare, che questo potere negoziale non sussiste per i diritti inerenti la filiazione, il matrimonio, la separazione, il divorzio, per i quali vengono in gioco interessi che trascendono quelli del titolare del diritto.

Altri autori preferiscono porre l’accento sul concetto di disponibilità dell’azione, per cui la controversia è arbitrabile se la relativa azione è disponibile[3].

Ricordiamo alcune tipologie di controversie che, secondo la giurisprudenza, non sono arbitrabili:

a)controversie aventi per oggetto l’impugnativa delle delibere di bilancio e delle delibere nulle (Cass., 30 settembre 2015, n. 19546; Cass., 13 ottobre 2016, n. 20674);

b)controversie per le quali è obbligatorio l’intervento del Pubblico Ministero;

c)controversie relative all’impugnazione di delibere assembleari di società aventi oggetto illecito o impossibile, le quali danno luogo a nullità rilevabile anche d’ufficio dal giudice; a tali delibere sono equiparate, ai sensi dell’art. 2479 ter c.c., quelle prese in assoluta mancanza di informazione (Cass., 27 giugno 2013, n. 16265);

d)in materia amministrativa, le controversie aventi per oggetto interessi legittimi (ai sensi dell’art. 12 del codice del processo amministrativo sono invece arbitrabili le controversie devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo in materia di diritti soggettivi, ma solo a mezzo arbitrato rituale).

2. – Va poi ricordato che, a seguito della riforma del 2006 oggi gli arbitri possono decidere incidenter tantum questioni pregiudiziali che per legge non possono costituire oggetto di compromesso; essi sono tenuti invece a sospendere il procedimento solo se per legge tali questioni debbano essere decise per legge con efficacia di giudicato (cfr. art. 819 c.p.c.: “gli arbitri risolvono senza autorità di giudicato tutte le questioni rilevanti per la decisione della controversia, anche se vertono su materie che non possono essere oggetto di convenzione di arbitrato, salvo che debbano essere decise con efficacia di giudicato per legge”)[4].

3. – La clausola compromissoria avente per oggetto diritti indisponibili e il relativo lodo che venga emesso sulla base di tale clausola dovrebbero ritenersi inesistenti e/o comunque nulli (anche alla stregua del principio espresso, per la transazione, dall’art. 1966 c.c.).

Secondo parte della dottrina, si tratterebbe di nullità insanabile e/o non ratificabile e non sarebbe applicabile l’art. 817, comma 3, c.p.c. (secondo cui “la parte che non eccepisce nel corso dell’arbitrato che le conclusioni delle altre parti esorbitano dai limiti della convenzione arbitrale non può, per questo motivo, impugnare il lodo”)[5], mentre altra dottrina preferisce parlare di “inidoneità al giudicato”[6].

La clausola avente per oggetto diritti indisponibili pone il tema dell’esperibilità di un’autonoma actio nullitatis, distinta dalle azioni di cui all’art. 827 c.p.c., ossia di un’azione di accertamento che possa essere fatta valere al di fuori delle ipotesi di cui all’art. 827 c.p.c. avanti il giudice ordinario. Ciò in analogia con l’art. 161, c. 2 c.p.c. in tema di sentenza nulla del giudice statuale. Al riguardo si ritiene che, in caso di lodo su materia non compromettibile, la relativa inesistenza /e nullità insanabile possa essere fatta valere con un’ordinaria azione di accertamento, anche in concorso con le impugnazioni previste dall’art. 827 c.p.c.

4. – Fatte queste precisazioni, passiamo a esaminare (alcuni tra) i principi fondamentali da tener presente nella redazione e interpretazione della clausola.

Resta fermo che il principio cardine è che il ricorso all’arbitrato presuppone sempre la volontà delle parti (ossia esso trova fonte in un fatto privato), in quanto si tratta di una deroga alle previsioni degli articoli 24 e 25 della Costituzione.

III. – I principi fondamentali per la redazione e interpretazione della clausola arbitrale.

1. – Il principio dell’interpretazione secondo i criteri di interpretazione contrattuale (artt. 1362 e seguenti c.c.).

Il primo principio risponde alla domanda: come, ovvero secondo quali criteri, si interpreta la clausola arbitrale?

Il codice di procedura contiene una norma specifica rubricata “interpretazione della convenzione di arbitrato”, ossia l’art. 808-quater c.p.c.

Tuttavia questa norma non prevede un’elencazione delle regole di interpretazione della convenzione di arbitrato e si limita a indicare un solo criterio, ossia quello del favor arbitrati:

nel dubbio, la convenzione d’arbitrato si interpreta nel senso che la competenza arbitrale si estende a tutte le controversie che derivano dal contratto o dal rapporto cui la convenzione si riferisce”.

Sul principio del favor arbitrati torneremo tra breve. Qui occorre dire che alla domanda di cui sopra può rispondersi come segue:

a) la convenzione di arbitrato è un negozio giuridico privato (sostanziale) a rilevanza ed effetti processuali;

b) tali effetti consistono nella scelta del giudizio arbitrale e nella preclusione della possibilità di ricorrere alla giurisdizione ordinaria per la risoluzione delle controversie che ne sono oggetto (Cass., s.u., 27 aprile 1979, n. 2429).

Per effetto dell’art. 1324 c.c. (che prevede l’applicabilità delle norme che regolano i contratti agli atti unilaterali tra vivi), è pacifico che a tale negozio si applichino le regole di interpretazione di cui agli articoli 1362 e ss. c.c. e, in particolare, il principio dell’interpretazione secondo la comune intenzione delle parti (cfr., ad esempio, Cass., 27 gennaio 2015, n. 1498; Cass., 30 settembre 2105, n. 19546)[7].

2. – Il principio del carattere – di regola – dispositivo delle norme del codice di procedura in materia di arbitrato.

Il secondo principio è quello del carattere – di regola – dispositivo delle norme del codice di procedura civile in tema di arbitrato.

Perché “di regola” dispositivo?

Perché se, ad esempio, le parti si sono limitate a scrivere:

tutte le controversie derivanti e/o relative al presente contratto dovranno essere risolte mediante arbitrato, che avrà sede a Milano”,

ciò vorrà dire che troveranno applicazione una serie di norme che suppliscono alla mancata previsione delle parti e/o integrano la loro volontà.

Ad esempio, attraverso una clausola del genere, le parti hanno “scelto” un arbitrato rituale di diritto con un collegio composto da tre arbitri (con sede nella città di Milano).

Le parti possono derogare alle norme del codice di procedura civile: ad esempio, possono stabilire che l’arbitrato sia irrituale, di equità, devoluto a un arbitro unico, che il lodo sia impugnabile per motivi di nullità ulteriori rispetto a quelli di cui all’art. 829 c.p.c. etc.

Tuttavia vi sono alcune norme che sono inderogabili: ad esempio, l’azione di nullità per i motivi di cui all’art. 829 c.p.c. è (in via preventiva) irrinunciabile (così come la revocazione ex art. 831 c.p.c.); la clausola compromissoria deve essere stipulata per iscritto a pena di nullità; le parti non possono derogare al principio del contraddittorio (art. 816-bis); le modalità di nomina degli arbitri devono rispettare il principio di equidistanza dell’arbitro da ciascuna parte etc.[8]

E’ quindi fondamentale tenere a mente questi principi e quali siano le norme derogabili e quali no.

3. – Il principio del favor per l’arbitrato.

3.1. – Il terzo principio che viene in rilievo è, come si è accennato, il principio del favor per l’arbitrato e, in quest’ambito, del favor per l’arbitrato rituale (di diritto), di cui diremo tra breve.

Tale principio è espresso, oltre che nell’art. 806 c.p.c., nell’art. 808-quaterc.p.c., introdotto dalla riforma del 2006, secondo cui “nel dubbio, la convenzione d’arbitrato si interpreta nel senso che la competenza arbitrale si estende a tutte le controversie che derivano dal contratto o dal rapporto cui la convenzione si riferisce” (cfr. Cass., 20 giugno 2011, n. 13531; cfr. tuttavia Cass., 3 febbraio 2012, in materia di azione ex art. 1669 c.c.).

Tale previsione implica che oggi (a differenza del passato), ove vi siano dubbi, ad esempio, se la clausola arbitrale abbia per oggetto solo l’interpretazione e/o l’esecuzione del contratto ovvero anche, in ipotesi, la risoluzione, tali dubbi dovrebbero essere risolti nel senso che la clausola si applica anche alla risoluzione.

La regola è decisiva quando, ad esempio, venga formulata domanda riconvenzionale di risoluzione di un contratto di cui l’attore abbia chiesto l’adempimento.

Ove non esistesse tale regola, si potrebbe giungere al risultato – assurdo – per cui la domanda principale sarebbe oggetto di arbitrato, mentre la riconvenzionale resterebbe affidata alla cognizione del giudice statale.

E’ importante sottolineare che questo criterio di interpretazione è operante solo qualora vi siano dubbi sul significato da attribuire alla clausola: se la clausola è chiara, non sarà ammissibile alcuna interpretazione estensiva (ad esempio: se la clausola prevede che dovranno essere devolute in arbitrato esclusivamente le controversie in tema di esecuzione del contratto nel quale la clausola è apposta, dovranno ritenersi al di fuori della convenzione di arbitrato tutte le altre controversie, come quelle in tema di risoluzione e invalidità del contratto).

3.2. – Nell’ambito del tema in esame, una questione specifica è la seguente: nel dubbio possono ritenersi ricomprese nella clausola anche le liti extracontrattuali o precontrattuali comunque collegate al e/o occasionate dal contratto? Ad esempio, una lite in tema di responsabilità precontrattuale qualora il contratto sia comunque concluso[9].

Secondo alcuni, la questione dovrebbe essere risolta in senso affermativo: infatti la norma non prevede distinzioni; secondo altri, la materia extracontrattuale dovrebbe essere menzionata in modo espresso per rientrare nella convenzione arbitrale.

La Cassazione ha di recente affermato che “la clausola compromissoria riferita genericamente alle controversie nascenti dal contratto cui essa inerisce va interpretata, in mancanza di espressa volontà contraria, nel senso che rientrano nella competenza arbitrale tutte e solo le controversie aventi titolo nel contratto medesimo, con conseguente esclusione delle liti rispetto alle quali quel contratto si configura esclusivamente come presupposto storico, come nella specie, in cui la ‘causa petendi’ ha titolo extracontrattuale ai sensi dell’art. 2598 c.c. nonché dell’art. 1337 c.c.”(Cass., 13 ottobre 2016, n. 20763).

3.3. – Da un punto di vista di tecnica redazionale, è bene peraltro individuare nel modo più preciso possibile l’ambito oggettivo della clausola arbitrale, evitando cioè situazioni di incertezza.

In altre parole, se si vuole circoscrivere l’oggetto della clausola a determinate controversie (ad esempio, sull’interpretazione ed esecuzione del contratto) sarà opportuno – onde evitare dubbi (che verrebbe risolti in senso estensivo) – farlo in modo espresso (utilizzando, come nell’esempio precedente, l’avverbio “esclusivamente”).

Va tuttavia considerato che questa tecnica di redazione può dare adito a rilevanti complicazioni processuali, ossia a cause derivanti da un medesimo contratto, delle quali alcune (quelle in tema di esecuzione, per esempio) sono devolute alla competenza arbitrale e altre al giudice ordinario.

E’ quindi preferibile (salvo che – consapevolmente – non si voglia attuare una strategia volta a complicare un futuro quadro processuale) redigere la clausola nel modo più esteso possibile.

La clausola ideale, sotto questo profilo, recita: “tutte le controversie, nessuna esclusa, derivanti da e/o comunque relative al presente contratto…”.

Con questa clausola saranno deferite in arbitrato le controversie in materia di validità, esecuzione, risoluzione, annullamento etc.

Viceversa, introdurre specificazioni comporta sempre il rischio di un dubbio interpretativo: è vero che esiste l’art. 808–quater c.p.c., ma si tratta di norma di chiusura volta – in definitiva – a risolvere una situazione di incertezza e quindi una situazione comunque patologica.

3.4. – La norma, peraltro, viene – ancor prima – ritenuta espressione di un altro principio, sempre ispirato al favor per l’arbitrato, ossia il principio per cui, nel dubbio se le parti abbiano o no voluto deferire la controversia in arbitri, tale dubbio deve essere risolto a favore della scelta arbitrale.

La questione viene, ad esempio, in considerazione nel caso di clausola arbitrale che deferisce la controversia a un’istituzione arbitrale inesistente.

In questo caso la giurisprudenza formatasi con riferimento alla disciplina anteriore alla riforma del 2006 tendeva a ritenere nulla ovvero inefficace la clausola in quanto inattuabile.

Alla luce dei principio del favor, quale emerge dalla riforma del 2006, tale impostazione concettuale è stata rivista.

Pertanto si ritiene che, in tali ipotesi, “quando è chiara la volontà delle parti di devolvere eventuali future controversie ad arbitri, problematica essendo soltanto l’individuazione dell’istituzione arbitrale competente, deve farsi ogni sforzo interpretativo per sopperire ad eventuali imprecisioni, e ciò al fine di preservare la validità della clausola e salvaguardare il precipuo interesse dei contraenti, ossia quello di optare per l’esclusione della tutela, dinanzi al giudice ordinario, dei diritti nascenti dal contratto” (Lodo arbitrale Genova, 8 settembre 2014, in www.ilcaso.it; Cass., 4 febbraio 2011, n. 2750).

4. – Segue: il favor per l’arbitrato rituale (di diritto) rispetto all’arbitrato irrituale.

4.1. – Come si diceva, nell’ambito del principio del favor per l’arbitrato, viene in considerazione la regola – ora espressa dall’art. 808-ter c.p.c. – per cui, se le parti hanno voluto deferire la controversia in arbitri, si presume che abbiano voluto ricorrere a un arbitrato rituale.[10]

La norma – rubricata “arbitrato irrituale” – dispone che “le parti possono, con disposizione espressa per iscritto, stabilire che, in deroga a quanto disposto dall’art. 824-bis, la controversia sia definita dagli arbitri mediante determinazione contrattuale. Altrimenti si applicano le disposizioni del presente titolo” .

La norma risolve peraltro anche le tematiche sorte in passato circa i criteri per distinguere l’arbitrato rituale da quello rituale: oggi la regola è che, se le parti hanno voluto un arbitrato, questo è rituale, salvo che le parti medesime non abbiano voluto in modo espresso – per iscritto – l’arbitrato irrituale (si tratta di forma ad substantiam)[11].

In tal modo la norma indica anche l’espressione letterale da utilizzare per optare per la scelta dell’arbitrato irrituale: “determinazione contrattuale”.

4.2. – A questo riguardo si pone la seguente questione: ai fini della norma è equivalente scrivere “arbitrato irrituale”?

Anche considerata la rubrica della norma (“arbitrato irrituale”), la risposta dovrebbe essere affermativa.

Tuttavia questa soluzione non è pacifica.

Infatti vi è chi – pur in senso critico – ha sostenuto che le parti, se intendono deferire la vertenza ad arbitri irrituali, avrebbero l’onere di utilizzare esclusivamente l’espressione “determinazione contrattuale” di cui all’art. 808-ter c.p.c.[12]

Nella giurisprudenza arbitrale si è ritenuto, in particolare, che “la clausola compromissoria contenuta nello statuto di società a responsabilità limitata secondo la quale ‘il collegio arbitrale deciderà in via irrituale secondo equità’ non assolve ai requisiti di forma ai quali l’art. 808-ter codice di procedura civile condiziona la deroga all’art. 824-bis ed all’efficacia del lodo ivi disciplinata, non avendo le parti né esplicitato la volontà di derogare a tale ultima norma né comunque espressamente disposto che il collegio arbitrale debba provvedere con determinazione contrattuale e quindi comporre la controversia attraverso strumento negoziale ch’esse si siano impegnate a riconoscere a priori come estrinsecazione della loro volontà (Lodo arbitrale Mantova, 23 settembre 2009, in www.ilcaso.it)[13] [14].

5. – Segue: differenze tra arbitrato rituale e irrituale.

5.1. – A questo punto è opportuno riepilogare in sintesi le principali differenze tra arbitrato rituale e arbitrato irrituale.

Prescinderemo in questa sede dalla discussioni teoriche che hanno impegnato per anni la dottrina e la giurisprudenza.

Il tema può essere semplificato in base alla considerazione che oggi l’arbitrato irrituale è previsto in modo espresso anzitutto dall’art. 808-ter c.p.c.

Le differenze essenziali tra arbitrato rituale e irrituale sono le seguenti:

A)sia l’arbitrato rituale che quello irrituale danno luogo a un procedimento destinato a decidere una lite tra due o più soggetti.

B)Peraltro anzitutto, ai sensi dell’art. 824-bis c.p.c. (richiamato dall’art. 808-ter c.p.c.), solo il lodo rituale ha gli effetti di sentenza dalla data della sua ultima sottoscrizione ed è quindi suscettibile di passare in giudicato (a prescindere dalla richiesta di exequatur); viceversa, il lodo rituale, non potendo avere gli effetti della sentenza, non potrà mai passare in giudicato. Entrambi i lodi peraltro contengono un accertamento, che – in ipotesi – potrà essere fatto valere da ciascuna delle parti in un eventuale giudizio ordinario. Ad esempio, se un lodo dichiara risolto un contratto tra Tizio e Caio e poi Tizio agisce davanti al giudice (o a un arbitro) per ottenere l’esecuzione del contratto, Caio potrà eccepire l’accertamento contenuto nel lodo e ottenere il rigetto della domanda, a prescindere dal fatto che il lodo sia rituale o irrituale.

C)Inoltre solo il lodo rituale è suscettibile di esecuzione forzata ai sensi dell’art. 825 c.p.c., ossia può valere come titolo esecutivo.

Questa rappresenta un’altra importante differenza tra arbitrato rituale e irrituale, che va tenuta presente quando si stipula una clausola compromissoria.

Infatti, ove l’arbitrato sia rituale e il lodo venga munito di exequatur, la parte soccombente – che sia, ad esempio, condannata a pagare una somma di denaro – non potrà sottrarsi al pagamento ovvero all’esecuzione forzata, se non impugnando il lodo davanti alla corte d’appello competente e chiedendo (e ottenendo) la sospensione dell’esecutività del lodo medesimo.

Ove, invece, l’arbitrato sia irrituale la parte vittoriosa, in caso di mancato adempimento spontaneo, non potrà agire in via esecutiva, ma dovrà prima munirsi di un titolo esecutivo. Ad esempio, dovrà chiedere, sulla base del lodo, un decreto ingiuntivo (eventualmente esecutivo) o promuovere un giudizio ordinario per ottenere la condanna della parte soccombente in arbitrato a eseguire la prestazione prevista nel lodo.

Questa differenza è essenziale per valutare se inserire o meno una clausola per arbitrato irrituale: se la si inserisce, occorre essere consapevoli che la parte vittoriosa, avente diritto a una determinata prestazione dalla controparte (ad esempio, il prezzo di una compravendita), non potrà agire in via esecutiva sulla base del lodo favorevole; pertanto, in mancanza di adempimento spontaneo della controparte, essa dovrà proporre un’autonoma azione (anche, in ipotesi, monitoria) volta a ottenere la condanna della controparte in forza del lodo.

D) Sempre in tema di esecuzione forzata, attenta dottrina ha osservato che è peraltro configurabile un caso (anche se forse più teorico) in cui anche il lodo arbitrale potrebbe di per sé (e, anzi, senza la necessità di alcun exequatur) valere come titolo esecutivo: ossia quando il lodo abbia la forma del rogito notarile o scrittura privata autenticata ex art. 474, nn. 2 e 3 c.p.c.[15]

E)Altra differenza tra lodo rituale e lodo irrituale riguarda il regime di impugnazione: il lodo rituale va impugnato davanti alla Corte d’Appello per i motivi di cui all’art. 829, c. 1, c.p.c. e, se previsto dalle parti (come ora vedremo), può essere impugnato anche per errores in iudicando. Il tutto nei ristretti termini di cui all’art. 828 c.p.c. Il lodo irrituale può essere impugnato solo davanti al giudice ordinario per i cinque motivi di cui al secondo comma dell’art. 808-ter c.p.c. L’azione è di annullamento e va proposta nell’ordinario termine quinquennale. In dottrina vi è chi ha ritenuto che l’art. 1442 c.c. (in tema di prescrizione quinquennale dell’azione di annullamento) non sarebbe applicabile all’impugnativa del lodo irrituale. Secondo questa dottrina, sarebbe invece applicabile la norma di cui all’art. 828 c.p.c.[16]

5.2. – Un’utile sintesi delle differenze tra arbitrato rituale e irrituale è contenuta nella sentenza della Cassazione del 2 dicembre 2015, n. 24558 (anche se la sentenza riguarda una fattispecie anteriore alla riforma del 2006 e all’introduzione dell’art. 808-ter c.p.c. (di cui peraltro la sentenza tiene conto):

Posto che sia l’arbitrato rituale che quello irrituale hanno natura privata, la differenza tra l’uno e l’altro tipo di arbitrato non può imperniarsi sul rilievo che con il primo le parti abbiano demandato agli arbitri una funzione sostitutiva di quella del giudice, ma va ravvisata nel fatto che, nell’arbitrato rituale, le parti vogliono che si pervenga ad un lodo suscettibile di essere reso esecutivo e di produrre gli effetti di cui all’art. 825 cod. proc. civ., con l’osservanza delle regole del procedimento arbitrale, mentre nell’arbitrato irrituale esse intendono affidare all’arbitro (o agli arbitri) la soluzione di controversie (insorte o che possano insorgere in relazione a determinati rapporti giuridici) soltanto attraverso lo strumento negoziale, mediante una composizione amichevole o un negozio di accertamento riconducibile alla volontà delle parti stesse, le quali si impegnano a considerare la decisione degli arbitri come espressione della loro volontà. Ne consegue che ha natura di arbitrato irrituale quello previsto da una clausola compromissoria che enunci l’impegno delle parti di considerare il carattere definitivo e vincolante del lodo, al pari del negozio tra le parti concluso e, quindi, come espressione della propria personale volontà, restando, di contro, irrilevanti sia la previsione della vincolatività della decisione, anche se firmata solo dalla maggioranza degli arbitri, dato che pure l’arbitrato libero ammette tale modalità, in difetto di una contraria volontà delle parti, e sia la previsione di una decisione secondo diritto, senza il rispetto delle forme del codice di rito, ma nel rispetto del contraddittorio, attesa la sua compatibilità con l’arbitrato libero e il necessario rispetto anche in quest’ultimo del principio del contraddittorio, in ragione dello stretto collegamento esistente tra il principio di cui all’art. 101 cod. proc. civ. e gli artt. 2, 3 e 24 Cost. ed in consonanza con l’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo. (Cass. del 1 aprile 2011, n. 7574)”.

6. – Il favor (attenuato) per l’arbitrato di diritto rispetto all’arbitrato di equità.

6.1. – Si è accennato che esiste inoltre un favor per l’arbitrato (rituale o irrituale che sia) di diritto, invece che di equità.

Tale favor peraltro è espresso in modo meno forte rispetto alla previsione dell’art. 808-ter c.p.c.

Infatti l’art. 822 c.p.c. (norme per la deliberazione) stabilisce che “gli arbitri decidono secondo le norme di diritto, salvo che le parti abbiano disposto con qualsiasi espressione che gli arbitri pronunciano secondo equità”.

Ciò significa che non occorre – a differenza di quanto previsto dall’art. 808-ter c.p.c. – una disposizione espressa per iscritto, ma è sufficiente che le parti abbiano manifestato che gli arbitri pronunciano secondo diritto.

La norma dice: “con qualsiasi espressione”. Il che significa: a) anzitutto che occorre indagare la reale volontà delle parti in conformità ai criteri interpretativi di cui sopra; b) che non occorrono formule sacramentali; c) che, peraltro, è necessario che vi sia una volontà espressa comunque per iscritto.

6.2. – In tema di arbitrato di equità si pongono due questioni fondamentali, alle quali qui faremo un rapido accenno:

a)la prima questione è in base a quali criteri (ove le parti non facciamo riferimento in modo espresso all’equità) si può stabilire se l’arbitrato sia di equità o di diritto: si ritiene che non siano dirimenti formule quali: “il lodo sarà inimpugnabile” o “inappellabile”; “amichevoli compositori” “vincolati alle norme sostanziali”. Al contrario possono deporre nel senso di un arbitrato di equità formule come “secondo gli usi” o “giusto giudizio”[17];

b) la seconda questione è come funziona l’arbitrato di equità: gli arbitri saranno tenuti a segnalare alle parti la regola di giudizio che sarà poi applicata al caso concreto; diversamente, le parti dovrebbero difendersi “al buio” e sarebbe violato il principio del contraddittorio.

6.3. – Gli arbitri possono poi anche solo essere autorizzati a decidere secondo equità; tuttavia, ove l’arbitrato sia di equità, se le parti non hanno previsto ciò, gli arbitri dovranno decidere secondo equità.

6.4. – Se gli arbitri decidono secondo diritto, mentre avrebbero dovuto decidere secondo equità, il lodo sarà impugnabile ex art. 829, n. 4 c.p.c.

7. – Il principio per cui la clausola compromissoria deve essere redatta per iscritto ad substantiam.

La convenzione arbitrale richiede la forma scritta ad substantiam (art. 807 c.p.c., richiamato, per la clausola compromissoria, dall’art, 808 c.p.c.).

Si ritiene che sia ammissibile manifestare la volontà compromissoria tramite “relatio” a un documento contenente la clausola compromissoria, ma ciò sempre che la clausola sia richiamata in modo specifico o risulti in maniera inequivocabile la volontà di compromettere (“relatio perfecta”).

8. – Il principio per cui, nell’arbitrato rituale, l’impugnazione del lodo è ammessa solo per i motivi di cui all’art. 829 c.p.c., esclusa la violazione di legge – salvo che le parti non l’abbiano espressamente previsto.

8.1. – L’art. 829 c.p.c. individua 12 motivi di nullità per i quali il lodo può essere impugnato davanti alla corte d’appello.

Come si vede, tutti questi motivi sono relativi a casi di errores in procedendo, ossia nessuno di essi riguarda eventuali errores in iudicando, ovvero la conformità del lodo alle regole di diritto sostanziale.

Al riguardo occorre distinguere gli errores in iudicando de facto dagli errores in iudicando de iure.

I primi si verificano quando gli arbitri errano nell’accertamento dei fatti storici (ad esempio, gli arbitri hanno ritenuto che il bene venduto fosse difettoso, mentre non lo era).

Tali errori, salvo che non ricorra una delle nullità di cui all’art. 829, c. 1, c.p.c., non sono sindacabili.

8.2. – Gli errores in iudicando de iure sono sindacabili solo se le parti lo hanno previsto in modo espresso nella convenzione di arbitrato.

E’ questa la regola dell’art. 829, comma 3, c.p.c., la quale prevede che “l’impugnazione per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia è ammessa se espressamente disposta dalle parti o dalla legge. E’ ammessa in ogni caso l’impugnazione delle decisioni per contrarietà all’ordine pubblico”[18] (si prevede poi al quarto comma che tale impugnazione è sempre ammessa : 1) nelle controverse di cui all’art. 409 c.p.c.; 2) se la violazione delle regole di diritto concerne la soluzione di questioni pregiudiziali su materia che non può essere oggetto di convenzione di arbitrato).

La violazione delle regole di diritto a cui si riferisce la norma coincide con la violazione e falsa applicazione di norme di diritto di cui al n. 3 dell’art. 360 c.p.c.

8.3. – In materia societaria, ai sensi dell’art. 36 D.Lgs n. 5/2003, si prevede che “anche se la clausola compromissoria autorizza gli arbitri a decidere secondo equità ovvero con lodo non impugnabile, gli arbitri debbono decidere secondo diritto, con lodo impugnabile anche a norma dell’articolo 829, secondo comma, del codice di procedura civile quando per decidere abbiano conosciuto di questioni non compromettibili ovvero quando l’oggetto del giudizio sia costituito dalla validità di delibere assembleari”.

8.4. – Dunque, la regola dell’art. 829, c. 3, c.p.c. va attentamente considerata in sede di stipula della clausola compromissoria: se non si inserisce questa previsione, il lodo non sarà impugnabile per violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto sostanziale.

8.5. – In questa materia sono intervenute di recente le Sezioni Unite della Cassazione, le quali hanno risolto un importante questione di diritto intertemporale.

L’art. 27 d.lgs n. 40/2006 ha previsto che l’art. 829, c. 3 c.p.c., come riformulato dall’art. 24, si applicasse “ai procedimenti arbitrali, nei quali la domanda di arbitrato è stata proposta successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto” (2 marzo 2006). Da qui la questione: il nuovo art. 829, c. 3. c.p.c. si applica ad arbitrati promossi dopo il 2 marzo 2006, basati però, su convenzione anteriore al 2 marzo 2006? La risposta positiva è sembrata a molti ingiusta perché comportante un mutamento delle regole del gioco. Parte della giurisprudenza ha però ritenuto dirimente il dato letterale della norma (art. 27), che prevede l’applicabilità dell’art. 829, c. 3, c.p.c. senza distinguere se la convenzione arbitrale sia anteriore o posteriore all’entrata in vigore del decreto (cfr. Cass., 17 settembre 2013, n. 21205).

In tale contesto la Cassazione, con la sentenza citata, ha affermato il seguente principio: “l’art. 24 del d.lgs. n. 40 del 2006, si applica, ai sensi della disposizione transitoria di cui all’art. 27 del d.lgs. n. 40 cit., a tutti i giudizi arbitrali promossi dopo l’entrata in vigore della novella, ma, per stabilire se sia ammissibile l’impugnazione per violazione delle regole di diritto sul merito della controversia, la legge – cui l’art. 829, comma 3, c.p.c., rinvia – va identificata in quella vigente al momento della stipulazione della convenzione di arbitrato”.

Dunque, se la convenzione è anteriore al 2 marzo 2006, ossia all’entrata in vigore del d.lgs n. 40/2006, e le parti nulla hanno previsto, il lodo sarà impugnabile anche per violazione di regole sostanziali (cfr. Cass, S.U., 9 maggio 2016, n. 9341, 9284 e 9285).

9. – Il principio per cui la sede dell’arbitrato funge da criterio per: a) individuare la legge arbitrale applicabile (nazionale o estera) ove una delle parti abbia sede e/o residenza all’estero e b) in caso di arbitrato domestico, il giudice statuale competente a svolgere le diverse funzioni di ausilio in relazione al procedimento arbitrale.

9.1. – La norma di riferimento è l’art. 816 c.p.c., che stabilisce tre regole:

a) le parti possono determinare la sede dell’arbitrato nel territorio della Repubblica; altrimenti provvedono gli arbitri;

b) se né le parti né gli arbitri determinano la sede, questa è nel luogo in cui è stata stipulata la convenzione arbitrale;

c) se tale luogo non si trova nel territorio nazionale, la sede è a Roma.

9.2. – E’ importante ricordare che per sede non si intende il luogo materiale dove si svolge l’arbitrato (che, salvo diversa previsione della convenzione di arbitrato, può svolgersi in luogo diverso dalla sede).

Infatti la sede rileva:

a) anzitutto, ove una delle parti abbia sede o residenza all’estero, per determinare quale sia la legge arbitrale applicabile (ma la questione è comunque controversa); in tal modo essa funge da criterio di collegamento tra un determinato procedimento arbitrale e un ordinamento statale (il che rileva ai fini della individuazione della lex arbitri)[19];

b) in caso di arbitrato domestico, per individuare il giudice statuale competente a svolgere le diverse funzioni di ausilio in relazione al procedimento arbitrale (ad esempio: l’impugnativa del lodo arbitrale (artt. 827 e ss. c.p.c.); nomina e sostituzione degli arbitri (artt. 810, 811, 813-bis c.p.c.) ricusazione degli arbitri (art. 815 c.p.c.); liquidazione compensi arbitri (art. 814 c.p.c.); ordine di comparizione dei testimoni (art. 816-ter c.p.c.); concessione esecutorietà del lodo (art. 825 c.p.c.).

In altre parole, la sede rappresenta una mera “finzione giuridicae “non è un mero luogo di svolgimento del procedimento, ma è invece il primo requisito della sua identità”[20].

10. – Il principio di uguaglianza delle parti nella nomina dell’arbitro e della imparzialità, indipendenza ed equidistanza dell’arbitro da ciascuna delle parti.

Questo principio implica che ciascuna parte ha diritto a un trattamento uguale alle altre parti nella nomina degli arbitri.

Il che non vuol dire che ogni parte abbia diritto di nominare un proprio arbitro, ma solo che ha diritto di farlo se è previsto che le altre parti possano farlo.

Il principio è quindi rispettato anche quando tutte le parti siano private del potere di nominare un proprio arbitro perché, ad esempio, la nomina è stata deferita a un terzo.

In altre parole, ciascuna parte ha diritto a che vi siano modalità di nomina in forza delle quali ciascuna parte sia trattata in modo uguale rispetto alle altre.

Il mancato rispetto di questo principio comporta l’invalidità della convenzione arbitrale.

Ad esempio, è nulla la clausola arbitrale che attribuisca a una sola parte il diritto di nominare l’arbitro unico o l’intero collegio arbitrale.

IV. – La scelta se deferire o meno la vertenza agli arbitri.

Alla luce di questi principi, occorre quindi, di volta in volta, valutare se sia opportuno o no deferire la vertenza in arbitri.

Al riguardo si possono fare le seguenti considerazioni:

A) anzitutto può essere opportuno, e anzi consigliabile, prevedere una clausola compromissoria ove la controparte contrattuale sia straniera; infatti, in caso di mancato inserimento, troveranno applicazione le ordinarie regole di diritto internazionale privato per individuare il giudice che dovrà risolvere la lite, giudice che potrebbe, appunto, essere un giudice straniero.

B) Al di fuori di queste ipotesi, l’inserimento di una clausola arbitrale può essere opportuno qualora l’operazione economica dalla quale potrebbe scaturire la lite sia di notevole complessità e/o rilevante valore e si ritenga preferibile che sia decisa – in tempi di regola più brevi rispetto al processo ordinario – da giudici privati di propria espressione, sia pure con costi più alti.

C) L’opportunità di stipulare o meno una clausola arbitrale dipende, inoltre, anche dalla posizione contrattuale della parte. Al riguardo occorre considerare, ad esempio, che, se è vero che l’arbitrato ha di regola tempi più rapidi rispetto al processo ordinario, tuttavia l’esistenza di una clausola arbitrale precluderà – in linea di principio – la possibilità di ricorrere al procedimento monitorio e quindi – in ipotesi – di ottenere un decreto ingiuntivo immediatamente esecutivo. E’ vero che l’esistenza della clausola dovrà poi essere eccepita dall’altra parte con l’opposizione al decreto e che ciò potrebbe anche non avvenire. Peraltro, ove ciò avvenisse, tra l’altro, la mancata adesione all’eccezione di compromesso arbitrale sollevata dall’opponente (ove l’eccezione sia fondata), potrebbe esporre l’opposto a responsabilità per lite temeraria ex art. 96 c.p.c. [21].

D) Come si è anticipato, altro aspetto da considerare, per valutare se inserire o meno una clausola arbitrale, è rappresentato dai costi.

Ed invero l’arbitrato è infatti, di regola, più costoso di un giudizio ordinario: infatti le parti devono far fronte, non solo ai costi dei propri legali, ma anche a quelli degli arbitri.

Occorre, per altro verso considerare, che, ove si optasse per un arbitrato amministrato (su cui torneremo tra breve) i compensi degli arbitri sono di regola calmierati rispetto a quelli che potrebbero derivare dai parametri forensi.

V. – Come redigere la clausola arbitrale (una volta fatta la scelta di inserirla nel contratto).

Fatta la scelta di inserire la clausola in contratto, occorre a questo punto valutare come formularla.

A tal fine vengono in rilievo i principi che abbiamo fin qui riepilogato e, in particolare, quelli del carattere dispositivo delle norme in tema di arbitrato, del favor per l’arbitrato e in particolare per l’arbitrato rituale (di diritto), della forma scritta e in tema di impugnazione.

Se si tengono a mente questi principi, saremo in grado di valutare se sia più opportuno formulare la clausola in un modo o in un altro.

Sappiamo, ad esempio, che:

a) se le parti non prevedono in modo espresso che l’arbitrato sia irrituale, l’arbitrato sarà rituale;

b) se le parti non prevedono che gli arbitri decidano secondo equità (“con qualsiasi espressione”), l’arbitrato sarà di diritto;

c) se la clausola non è sottoscritta da entrambe le parti, essa sarà nulla;

d) se la clausola è stipulata con modalità telematica potrebbe essere non valida e/o contestata;

e) se le parti non optano per l’arbitrato amministrato, l’arbitrato sarà regolato solo dalle norme del codice di procedura e da quelle eventualmente inserite nella convenzione arbitrale;

f) se le parti non individuano la sede dell’arbitrato, questa sarà stabilita dagli arbitri, ovvero, in subordine, soccorreranno gli altri criteri dell’art. 816 c.p.c.;

g) se la clausola non prevede in modo espresso la possibilità di impugnare il lodo anche per violazione di norme di diritto sostanziale, il lodo non sarà impugnabile per questo motivo; il che significa che, in questo caso, il lodo avrà una stabilità maggiore di quella di una sentenza (cfr. Cass., 25 settembre 2015, n. 19075).

VI. – Segue: cosa scrivere (o non scrivere) nella clausola.

Come si diceva, i principi in sintesi illustrati sono già di per sé idonei a fungere da linea guida nella scelta del contenuto della clausola arbitrale.

Riprendendo l’elencazione, di cui al paragrafo I, dei principali temi che vanno esaminati in sede di redazione della clausola arbitrale, possiamo ora tirare le fila come segue:

A) sede dell’arbitrato: come si è visto, la scelta della sede è fondamentale se una delle parti sia residente all’estero perché la sede diventa un elemento per agganciare l’arbitrato a un determinato ordinamento. Se la sede viene stabilita in Francia, ad esempio, la legge che governerà l’arbitrato sarà quella francese (con la conseguenza che il lodo sarà impugnabile davanti al giudice francese). Se entrambe le parti sono residenti o hanno sede in Italia, la sede dell’arbitrato sarà rilevante, non per individuare quale sia la legge applicabile all’arbitrato (che sarà quella italiana), ma, ad esempio, per individuare il giudice davanti al quale sarà impugnabile il lodo, ovvero per individuare il tribunale al cui presidente chiedere la nomina degli arbitri ai sensi dell’art. 810 c.p.c., ovvero formulare istanza di ricusazione etc. Se le parti non individuano la sede, vi provvedono gli arbitri. Se neanche gli arbitri provvedono, soccorrono i criteri di cui all’art. 816 c.p.c. (luogo in cui è stata stipulata la convenzione; se è stata stipulata all’estero, la sede è a Roma). La fissazione della sede in Italia rappresenta il parametro per qualificare l’arbitrato e il relativo lodo come interni. La sede dell’arbitrato che qui rileva non ha nulla a che vedere con la sede dove materialmente viene svolto l’arbitrato: ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 816 c.p.c., se la convenzione di arbitrato non dispone diversamente, gli arbitri possono decidere di svolgere l’arbitrato anche in luoghi diversi dalla sede e anche all’estero.

B) Arbitrato rituale o irrituale: come si è visto, l’arbitrato rituale è quello in grado di assicurare che il procedimento si conclusa con un lodo idoneo, oltre che a passare in giudicato, a fondare – previo ottenimento dell’exequatur – un’esecuzione forzata, ossia a costituire titolo esecutivo.

C) Arbitrato di diritto o di equità: in linea di principio l’arbitro di equità può dar luogo a esiti non prevedibili: nell’arbitrato di equità gli arbitri devono enunciare la regola di equità che essi ritengono applicabile e poi farne applicazione al caso concreto.

D) Arbitrato amministrato o arbitrato ad hoc: le parti possono decidere di ricorrere a un arbitrato ad hoc, nel quale la regolamentazione della procedura è lasciata alla totale determinazione delle parti medesime e degli arbitri. Le parti possono, invece, decidere di rimettere la totale gestione dell’arbitrato a un’istituzione arbitrale, che assume, tra l’altro, il ruolo di garante della procedura e interviene in alcune situazioni (ad esempio, in materia di ricusazione o sostituzione degli arbitri). L’arbitrato amministrato è governato dal regolamento in vigore dell’istituzione arbitrale; le parti possono prevedere disposizioni differenti, le quali prevalgono sul regolamento arbitrale. Tuttavia, in questi casi, ai sensi dell’art. 832 c.p.c., l’istituzione arbitrale può rifiutare di amministrare l’arbitrato. I vantaggi dell’arbitrato amministrato sono essenzialmente i seguenti: a) esiste un organismo che svolge un servizio di segreteria: in particolare, forma il fascicolo, riceve gli atti, li trasmette alle parti, partecipa alle udienze e redige i verbali, mette a disposizione i locali per lo svolgimento del procedimento; b) vigila in generale sulla gestione dell’arbitrato e coordina i vari organi dell’istituzione, nomina e sostituisce gli arbitri, provvede ai loro compensi; in particolare, il ruolo dell’istituzione è rilevante nella fase iniziale dell’arbitrato, ossia in sede di verifica dei requisiti di imparzialità e indipendenza degli arbitri; b) pur essendovi costi aggiuntivi (relativi alle spese amministrative dell’istituzione), come si è detto, le tariffe degli arbitri sono di solito calmierate rispetto a quelle che, in base ai parametri vigenti, sarebbero applicabili per l’arbitrato non amministrato; c) inoltre l’istituzione arbitrale esegue, di regola, un controllo, oltre che sul procedimento, anche sulla regolarità formale del lodo, prima che questo venga depositato.

Occorre poi distinguere l’arbitrato amministrato in senso proprio da quello secondo regolamenti precostituiti: in questo secondo caso vi sarebbe un mero richiamo al regolamento, ma non l’amministrazione di un arbitrato da parte di un’istituzione terza. L’opzione è tuttavia sconsigliabile in quanto il mero rinvio a un regolamento potrebbe comportare problemi di applicabilità di alcune norme del medesimo.

E) Arbitrato multi-step:le parti possono inoltre prevedere un arbitrato multi step, ossia stabilire che, prima dell’avvio dell’arbitrato, sia condotto in buona fede un tentativo di conciliazione. In questo caso, per volontà delle parti, l’esperimento del tentativo di conciliazione diventa una condizione di procedibilità dell’arbitrato, nel senso che, ove questo tentativo non sia esperito, l’arbitrato non può essere iniziato né tantomeno proseguito. Al riguardo viene in rilievo la norma dell’art. 5 del D.lgs n. 28/2010, secondo cui “se il contratto, lo statuto ovvero l’atto costitutivo dell’ente prevedono una clausola di mediazione o conciliazione e il tentativo non risulta esperito, il giudice o l’arbitro, su eccezione di parte, proposta nella prima difesa, assegna alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione e fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine di cui all’articolo 6. Allo stesso modo il giudice o l’arbitro fissa la successiva udienza quando la mediazione o il tentativo di conciliazione sono iniziati, ma non conclusi. La domanda è presentata davanti all’organismo indicato dalla clausola, se iscritto nel registro, ovvero, in mancanza, davanti ad un altro organismo iscritto, fermo il rispetto del criterio di cui all’articolo 4, comma 1. In ogni caso, le parti possono concordare, successivamente al contratto o allo statuto o all’atto costitutivo, l’individuazione di un diverso organismo iscritto”.

F) Arbitro unico o collegio arbitrale: le parti possono prevedere che la lite sia risolta da un arbitro unico. In tal caso o è previsto che l’arbitro sia nominato da un terzo oppure, se le parti non concordano sulla nomina dell’arbitro, occorrerà rivolgersi al presidente del tribunale. E’ comunque opportuno individuare nella clausola i criteri per la nomina dell’arbitro. La scelta dell’arbitro unico ha il vantaggio di comportare costi più contenuti e può essere opportuna per arbitrati di valore non alto e che non presentano particolari aspetti di complessità. E’ raro che nelle clausole arbitrali sia indicato il nome dell’arbitro. In questa eventualità si può porre la seguente questione: che cosa succede se tale arbitro, per qualsiasi motivo (morte, sopravvenuta incapacità) non possa o non voglia accettare l’incarico? La soluzione preferibile va ricercata alla stregua dei principi generali: il favor arbitrati impone di ritenere che l’arbitro possa essere sostituito, salvo che l’insostituibilità non risulti in modo chiaro dal testo della clausola. In altre parole: o, ricercando la comune intenzione delle parti, si arriva alla conclusione che le parti abbiamo voluto l’arbitrato solo a condizione che le liti venissero decise da uno o più arbitri nominativamente individuati, oppure, nel dubbio, va preferita l’opzione della sostituibilità dell’arbitro.

G) Ambito oggettivo della clausola (confini della competenza degli arbitri): è poi importante definire l’ambito oggettivo della clausola, ossia i confini della competenza degli arbitri. Al riguardo vanno tenuti presenti i principi che abbiamo sopra illustrato in tema di favor arbitrati (cfr. in particolare 808-quater c.p.c.). In generale, se si vogliono evitare contestazioni e/o incertezze in ordine all’ambito oggettivo della clausola, è bene evitare di inserire eccessive delimitazioni nella clausola.

La giurisprudenza ha affermato che “nell’arbitrato rituale la questione relativa alla determinazione dell’ambito oggettivo della clausola compromissoria – ossia all’individuazione delle controversie, nascenti dal contratto, che le parti (…) hanno inteso compromettere in arbitri (…) integra non già una questione di competenza di questi ultimi, ma di merito” (Cass., 27 gennaio 2015, n. 1498).

H) Legge applicabili al merito della controversia: le parti sono libere di decidere la legge applicabile al merito della controversia.

I) Regolamento arbitrale: possibilità di inserire regole di procedura che gli arbitri devono osservare a pena di nullità: le parti sono libere di determinare le regole di procedura, ossia le regole del gioco (in quanto tali, per espressa previsione della norma, esse vanno fissate prima dell’inizio del procedimento arbitrale. Le regole possono essere modificate anche nel corso del procedimento, ma in questo caso occorre il consenso degli arbitri: cfr. Cass., 4 maggio 2011, n. 9761). In caso di mancata determinazione provvedono gli arbitri. Essi devono in ogni caso attuare il principio del contraddittorio (cfr. art. 816 bis). E’ importante qui segnalare che, ai sensi dell’art. 829, comma, 1, n. 7, c.p.c. le parti possono prescrivere determinate forme relative al procedimento sotto pena di nullità. In caso di mancata osservanza di tali regole, il lodo sarà impugnabile ai sensi del n. 7 del comma 1 dell’art. 829 c.p.c. (sempre che la nullità non sia stata sanata, anche ai sensi dell’art. 829, c. 2, c.p.c.). Ad esempio, le parti possono prevedere, a pena di nullità del lodo, che sia applicabile la disposizione di cui all’art. 183, comma 6, c.p.c. convenendo quindi anche la perentorietà dei relativi termini, oppure possono derogare, prevedendo anche qui la sanzione di nullità di cui al n. 7, al principio di cui all’art. 816 c.p.c. per cui gli arbitri sono liberi di determinare, anche di volta in volta, il luogo della sede effettiva.

L’inserimento di regole procedimentali nella clausola arbitrale (o in un atto successivo, purché anteriore all’inizio del procedimento arbitrale) può avere l’inconveniente di rendere più difficile l’adattamento della procedura al caso concreto.

Del resto, la tutela per entrambe le parti in merito alle modalità di svolgimento del procedimento arbitrale è già assicurata dal fatto che gli arbitri sono in ogni caso vincolati dal principio del contraddittorio.

Ad esempio, il richiamo in blocco alle norme del codice di procedura civile può dar luogo a rilevanti problemi pratici. In particolare, la Cassazione ha affermato che, perché il rinvio sia operante, le parti devono individuare in modo espresso le norme del codice che vogliono rendere applicabili al procedimento arbitrale (Cass., S.U., 5 maggio 2011, n. 8939).

L) Termine per il lodo: le parti possono poi stabilire un determinato termine per la decisione. In mancanza di previsione trova applicazione l’art. 820 c.p.c., per cui il lodo deve essere pronunciato entro 240 giorni dall’accettazione della nomina.

M) Impugnazione del lodo per violazione e/o falsa applicazione di norme di legge sostanziale: come si è visto, le parti possono prevedere che il lodo rituale sia impugnabile per violazione di regole di diritto relative al merito della controversia. Secondo la giurisprudenza, la scelta delle parti per l’impugnazione anche per violazione di norme di diritto deve essere “chiara ed inequivocabile (…) non potendosi ritenere sufficiente la mera previsione, ivi contenuta, di una decisione secondo diritto, sostanzialmente riproduttiva dell’art. 822 c.p.c. ed astrattamente riconducibile pertanto alla volontà di escludere il potere degli arbitri di decidere secondo equità”. L’esigenza di una maggiore stabilità del lodo rispetto a una sentenza, di regola, può essere apprezzata solo all’esito dell’arbitrato. Quando si stipula un contratto è molto difficile prevedere se sia più conveniente poter impugnare il lodo anche per violazione di regole di diritto o no. Pertanto, salvo situazioni particolari, appare preferibile prevedere nella clausola la possibilità di impugnare il lodo anche per violazione di norme di diritto. In tal modo – fatte le debite differenze – il giudizio di impugnazione del lodo sarà molto più vicino all’appello di una sentenza, con maggiori chanche quindi di rimettere in discussione l’operato del primo giudice anche sotto il profilo del rispetto delle regole sostanziali.

N) Disciplina della fase rescissoria in caso di impugnazione: l’art. 830 c.p.c. stabilisce i casi in cui, una volta annullato il lodo da parte della corte d’appello (fase rescindente), la decisione sul merito è attribuita alla corte d’appello o agli arbitri. Ad esempio, se il lodo è annullato perché è stato pronunciato dopo la scadenza del termine stabilito o se è stato violato il principio del contraddittorio, della fase rescissoria si occuperà la corte d’appello. Ciò salvo che le parti non abbiano previsto diversamente nella convenzione di arbitrato o con atto successivo. Così, ad esempio, le parti possono prevedere che, ove il lodo venga annullato per violazione della regola del contraddittorio, la fase rescissoria sia demandata agli arbitri. La norma aggiunge peraltro che, se alla data della sottoscrizione della convenzione di arbitrato, una delle parti ha sede o residenza all’estero, la corte d’appello decide il merito della controversia solo se le parti hanno così stabilito nella convenzione di arbitrato o ne fanno concorde richiesta. In questo caso vale, quindi, la regola esattamente opposta.

 


[1] La letteratura in tema di clausola arbitrale è molto vasta. In argomento – oltre agli ulteriori riferimenti di cui infra – si vedano anche, tra gli altri: Zucconi Galli Fonseca, in Arbitrato, Commentario diretto da Federico Carpi, sub art. 808 c.p.c., Bologna, 2016, 169 e ss. Zucconi Galli Fonseca, Diritto dell’arbitrato, Bologna, 2016; Galletto, Arbitrato e conciliazione nei contratti dei consumatori, Torino, 2013; Bruzzone-Dominici-Galletto-Riccomagno-Righetti, Arbitrato e Imprese, 10 anni di sentenze e statistiche della Corte d’Appello di Genova, a cura di Tomaso Galletto, Genova, 2016; Festi, La clausola compromissoria, Milano, 2001; La China, L’arbitrato. Il sistema e l’esperienza, Miano, 2011; Punzi, Disegno sistematico dell’arbitrato, I, II e III, Padova, 2012.

[2] Cfr. in argomento: Zucconi Galli Fonseca, in Arbitrato, commentario diretto da Federico Carpi, sub art. 806 c.p.c., Bologna, 2016, 26 e ss.

[3] AA.VV., Arbitrato, a cura di Bonelli Erede Pappalardo, Milano, 2012. Un tema specifico attiene all’arbitrabilità o meno delle controversie che originano dalla stipulazione e/o esecuzione di accordi di ristrutturazione del debito omologati. In argomento cfr. Galletto, Arbitrato e accordi di ristrutturazione: una convivenza possibile?, in Riv. Arb., fasc. I, 2014, 215 e ss. Cfr. sempre Galletto, Linee evolutive dell’arbitrato societario, in NGCC, 2010, 10, 20483, in tema di limiti all’arbitrabilità delle controversie societarie.

[4] Si ritiene che debbano essere decise con efficacia di giudicato le questioni in materia di stato e capacità delle persone e i giudizi di querela di falso e verificazione di scrittura privata.

[5] Luiso, Diritto processuale civile, V, Milano, 2015.

[6] Salvaneschi, in Commentario a cura di Chiarloni, Bologna, 2014, 844.

[7] Vengono, in particolare, in considerazione l’art. 1362 c.c., relativo all’interpretazione secondo il tenore letterale della clausola e alla comune intenzione delle parti, e l’art. 1363 c.c., che esprime il principio per cui le clausole del contratto vanno interpretate le une per mezzo delle altre, ascrivendo a ciascuna il significato che risulta dal complesso dell’atto. Ciò significa che, ad esempio, la clausola compromissoria potrebbe essere interpretata anche alla luce delle premesse contenute nel contratto in cui è inserita (cfr. in questo senso Confortini, La clausola compromissoria, in Arbitrato. Profili di diritto sostanziale e processuale, a cura di Guido Alpa e Vincenzo Vigoriti, Torino, 2013, 726 e ss. Cfr. sull’applicabilità dell’art. 1363 c.c. alla clausola arbitrale: Cass., 8 ottobre 2014, n. 21215). Sotto questo profilo va considerato che, qualora le parti, avvalendosi della previsione di cui all’art. 808 c.p.c., stipulino una clausola compromissoria con atto separato, ciò potrebbe porre un problema in sede di interpretazione della clausola, nel senso che la norma dell’art. 1363 c.c. non sarebbe applicabile, con la conseguenza che sia il contratto che la clausola dovrebbero essere interpretati ciascuno in modo autonomo. Le altre clausole del contratto possono venire in considerazione ai fini dell’interpretazione della clausola arbitrale qualora, ad esempio, il contratto come, spesso accade, contenga un elenco di definizioni e una o più di tali definizioni siano utilizzate dalla clausola arbitrale (cfr. Confortini, Op. cit., 726 e ss.).

[8] Una questione particolare è la seguente: è possibile derogare alla norma dell’art. 810 c.p.c., che attribuisce al presidente del tribunale nel cui circondario ha sede l’arbitrato (o, in mancanza di indicazione della sede, a quello da individuarsi secondo gli altri criteri indicati dalla norma)? In particolare: possono le parti indicare un presidente di tribunale diverso (quanto alla competenza territoriale) da quello derivante dall’applicazione dei criteri di cui all’art. 810 c.p.c.? Secondo un primo, prevalente, orientamento, il procedimento di cui all’art. 810 è di volontaria giurisdizione; la relativa competenza è pertanto inderogabile ex art. 28 c.p.c. e rilevabile anche d’ufficio entro la prima udienza (art. 38 c.p.c.). Il vizio della nomina potrebbe dar luogo a un’ipotesi di nullità del lodo ex art. 829, n. 2, c.p.c. Secondo altro orientamento, la scelta di un giudice diverso nella convenzione arbitrale sarebbe espressione di un potere delle parti di natura sostanziale, con conseguente derogabilità dell’art. 810 c.p.c. (cfr. Salvaneschi, Op. cit., 232)

[9] Si ricorda che è ormai pacifico il seguente principio: “la violazione dell’obbligo di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, previsto dagli artt. 1337 e 1338 c.c., assume rilievo in caso non solo di rottura ingiustificata delle trattative e, quindi, di mancata conclusione del contratto o di conclusione di un contratto invalido o inefficace, ma anche di contratto validamente concluso quando, all’esito di un accertamento di fatto rimesso al giudice di merito, alla parte sia imputabile l’omissione, nel corso delle trattative, di informazioni rilevanti le quali avrebbero altrimenti, con un giudizio probabilistico, indotto ad una diversa conformazione del contratto stesso” (Cass., 23 marzo 2016, n. 7562).

[10] Cfr. peraltro in senso contrario: Trib. Bari, 29 febbraio 2012, n. 745: in caso di dubbio “si dovrebbe comunque optare per l’irritualità dell’arbitrato”. In questa sentenza peraltro non è chiaro se la clausola arbitrale fosse stata stipulata prima della riforma dell’arbitrato del 2006. In dottrina si è osservato che “non c’è nessun dubbio che l’intenzione del legislatore nel formulare questa norma non fosse quella di dettare una regola sulla forma (…), quanto piuttosto quella di sovvertire la convinzione giurisprudenziale per la quale, in caso di dubbio sulla natura dell’arbitrato prescelto dalle parti, l’arbitrato doveva considerarsi irrituale” (Salvaneschi, Op. cit., 160).

[11] Al riguardo occorre peraltro considerare che è ricorrente anche nella giurisprudenza di merito l’affermazione per cui nell’arbitrato irrituale la forma scritta non sarebbe prescritta ad substantiam, ma solo ad probationem ex art. 1967 c.c. Tuttavia è preferibile ritenere che anche per l’arbitrato rituale sia prescritta la forma ad substantiam, e ciò alla stregua di quanto segue: a) anzitutto la lettera dell’articolo depone nel senso della forma ad substantiam, non essendo previsto (come fa, ad esempio, l’art. 1967 c.c.) che la forma scritta sia prescritta solo ai fini della prova (“per questa parte l’art. 808-ter è dunque norma autosufficiente, che non richiede specifica integrazione con le disposizioni di cui ai precedenti art. 807 e 808 cod. proc. civ.(Salvaneschi, Op. cit., 160); b) inoltre la forma scritta ad substantiam è prescritta, in generale, dall’art. 806 c.p.c. (in tema di arbitrato rituale) quale “avvertimento” circa l’importanza della scelta compiuta dalle parti; a maggior ragione la medesima ratio sussiste in tema di arbitrato irrituale, che rappresenta l’eccezione rispetto all’arbitrato rituale e che è destinato a concludersi con una determinazione la quale non ha neanche gli effetti di cui all’art. 824-bis c.p.c. Inoltre si ritiene che l’art. 807 c.p.c. abbia carattere di “norma generale” in tema di arbitrato e, come tale, quindi, sarebbe applicabile anche all’arbitrato irrituale (cfr. Salvaneschi, Op. cit., 67).

[12] Punzi, Disegno sistematico dell’arbitrato, II, Padova, 2012, 630, che osserva: “si deve però rilevare che la nuova norma appare eccessivamente restrittiva nella misura in cui sembra ricollegare necessariamente alla dizione testuale di ‘determinazione contrattuale’ la scelta in favore dell’irritualità”.

[13] In ogni caso deve ritenersi che, alla stregua della formulazione della norma, non siano più indici idonei a qualificare una clausola come contemplante un arbitrato irrituale epressioni quali “amichevoli compositori”, “senza formalità di procedura” (cfr. in questo senso Salvaneschi, Op. cit., 161).

[14] Altro tema importante in materia di arbitrato irrituale è se ad esso siano applicabili le disposizioni del codice in materia di arbitrato. La questione è controversa: a) secondo un primo orientamento, tali disposizioni sarebbero tutte inapplicabili; b) secondo altro orientamento, esse sarebbero applicabili in quanto compatibili con l’arbitrato irrituale (cfr. Salvaneschi, Op. cit., 161 e ss.). In particolare, l’interprete dovrebbe prima ricercare la disciplina all’interno dell’art. 808-ter e, ove la ricerca abbia esito negativo, potrebbe applicare, in quanto compatibili, le altre norme. Ad esempio, si è posto il tema – in materia di interpretazione della clausola compromissoria per arbitrato irrituale – dell’applicabilità dell’art. 808-quater (quanto all’estensione oggettiva della clausola). Al riguardo si è affermato che la norma deve ritenersi applicabile, “però prima (…) dovranno trovare applicazione le norme generali che regolano l’interpretazione del contratto, onde l’indagine sulla comune intenzione delle parti avrà comunque la prevalenza su ogni altro criterio” (Salvaneschi, Op. cit., 164 e ss.). Peraltro, il criterio di cui alla norma è l’unico che consente di individuare in modo chiaro l’ambito oggettivo della clausola arbitrale, a pena di addivenire a risultati paradossali: “si immagini (…) la domanda riconvenzionale che abbia ad oggetto un tipo di lite non espressamente ricompresa nell’elenco di quelle devolute alla cognizione degli arbitri irrituali e che si vada a innestare sulla lite iniziata sulla base di una domanda che abbia elementi oggettivi che vi sono invece ricompresi. In questo caso”, se l’art. 808-quater non fosse applicabile, “si rischierebbe di dover concludere che la domanda principale deve essere risolta con lodo contrattuale, mentre quella riconvenziomnale deve essere devoluta ad altro collegio arbitrale, che giudichi in via rituale, salva l’inevitabile alternativa, comunque fonte di analoghi problemi, che la devoluzione debba avvenire invece a favore del giudice dello Stato” (Salvaneschi, Op. cit., 165).

[15] Cfr. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile. Profili generali, Padova, 2008, 207 e Villa, in Arbitrato, a cura di Bonelli Erede Pappalardo, 2012, 253.

[16] D’Ambrosio, La determinazione contrattuale ex art. 808-ter cpc quale espressione di potere dispositivo ex lege, in Rivista dell’arbitrato, 2014, 485. Cfr. di recente Corte Cost., 20 luglio 2017, n. 196, la quale ha affermato che “èmanifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 808-ter c.p.c., censurato, per violazione degli artt. 3, 24, 101 e 111 Cost., nella parte in cui limita l’impugnabilità del lodo, reso all’esito dell’arbitrato irrituale, ai casi di gravame in esso previsti, tra i quali non figurano i vizi del consenso, l’incapacità e l’omessa motivazione. In primo luogo, il giudice a quo ha del tutto omesso la descrizione della fattispecie concreta sottoposta al suo esame, senza chiarire se, nel caso di specie, le parti hanno impugnato il lodo per vizi della volontà, incapacità o difetto di motivazione. Le lacune nella ricostruzione della fattispecie concreta si riflettono nel difetto di motivazione sulla necessità di fare applicazione della disposizione censurata e, quindi, sulla rilevanza della questione rispetto al giudizio a quo. Inoltre, il giudice a quo, nel lamentare l’impossibilità di impugnativa del lodo arbitrale irrituale per vizi del consenso e incapacità, ha omesso di considerare l’orientamento consolidato della Corte di cassazione, fondato sui principi della disciplina contrattuale, in base al quale il lodo irrituale è soggetto al regime delle impugnative negoziali in ragione della sua natura di negozio di accertamento.

[17] Salvaneschi, Op. cit., 745 e ss.

[18] Per ordine pubblico, si deve qui intendere il complesso dei principi fondamentali dell’ordinamento giuridico di carattere sostanziale. L’ordine pubblico processuale è già contemplato dal primo comma dell’art. 829 c.p.c.

[19] Cfr. Salvaneschi, Op. cit., 368: “la sede diviene elemento di localizzazione dell’arbitrato, capace di fungere da criterio di collegamento tra un dato procedimento arbitrale e un ordinamento statale, le cui conseguenze giuridiche hanno rilievo fondamentale, in quanto elemento di identificazione della lex arbitri”.

[20] Salvaneschi, Op. cit., 364. I criteri suppletivi di cui all’art. 816 c.p.c. sono destinati a operare solo in quanto sia comunque possibile desumere, in base all’interpretazione del contratto e della clausola, che le parti abbiano comunque voluto un arbitrato interno, e non estero. Al riguardo la dottrina ha rilevato che “i criteri discriminanti da valutarsi complessivamente e in relazione al singolo caso, secondo le regole ermeneutiche tradizionali che consentono di indagare la volontà delle parti, potranno essere quello dell’indicazione esplicita di un certo ordinamento nazionale; il riferimento espresso all’arbitrato rituale o agli art. 806 e seg. cod. proc. civ., o, al contrario, pattuizioni compromissorie palesemente incompatibili con le norme da ultimo richiamate; la nazionalità o localizzazione italiana di entrambe le parti; l’esecuzione contrattuale destinata a svolgersi prevalentemente in Italia pur quando una delle parti sia localizzata all’estero; la precedente scelta dell’arbitrato italiano o estero in relazione ad altra controversia regolata dal medesimo accordo compromissorio e ogni ulteriore indice, comprensivo del canone per cui, riguardando un dato arbitrato nella prospettiva della scelta tra arbitrato nazionale ed estero, nel permanere del dubbio dovrebbe comunque prevalere il canone ‘in dubio pro arbitrato interno(cfr. anche Briguglio, La dimensione transazione dell’arbitrato, in Riv. Arb., 2005. 705).

Una questione particolare attiene alla possibilità per le parti di modificare la sede fissata dagli arbitri. In dottrina si è ritenuto al riguardo che debba sempre prevalere la volontà delle parti (Salvaneschi, Op. cit., 385).

[21] Cfr. Trib. Verona, 22 novembre 2012, in Rivista dell’Arbitrato, 2013, 2, 443. Cfr. in argomento anche Cass., S.U., 30 settembre 2016, n. 19473, che ha affermato che “la questione della improponibilità della domanda conseguente alla previsione di una clausola compromissoria per arbitrato irrituale, da sollevarsi su eccezione di parte e non rilevabile d’ufficio, non osta alla emissione di un decreto ingiuntivo essendo facoltà dell’intimato eccepire la improponibilità della domanda dinanzi al giudice della opposizione e ottenere la relativa declaratoria. Tale eccezione, peraltro, non può ritenersi né equipollente, né sovrapponibile a quella di difetto di giurisdizione, a sua volta eccezione di rito, tipizzata nei suoi effetti predeterminati dalle norme applicabili e che non appare surrogabile da comportamenti più o meno concludenti della parte.

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