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Approfondimenti

L’imposta sostitutiva sui finanziamenti alla luce degli ultimi orientamenti della Cassazione

6 Luglio 2015

Avv. Matteo Bascelli e Dott. Luca Pangrazzi, CBA Studio Legale e Tributario

Di cosa si parla in questo articolo

Come noto, il regime “sostitutivo” di tassazione dei finanziamenti bancari a medio e lungo termine, previsto dall’art. 15 e seguenti del D.P.R. n. 601/73 (i.e. imposta sostitutiva – di regola – dello 0.25%, calcolata sull’importo del finanziamento), è un regime fiscale alternativo rispetto a quello ordinario, che, al ricorrere di certi presupposti, consente l’esonero dal pagamento di tutti gli altri tributi indiretti (i.e. imposta di registro, imposta di bollo, imposta ipotecaria, etc.) che sarebbero altrimenti applicabili ai singoli atti posti in essere per effettuare tali operazioni (garanzie incluse).

In presenza di garanzie reali e/o di garanzie rilasciate da terzi soggetti (ad esempio dai soci del debitore), che richiedono in ogni caso la forma solenne (i.e. ipoteche, privilegi bancari, pegni di quote di s.r.l.), tale regime sostitutivo può risultare fiscalmente più conveniente per il debitore, posto che la tassazione ordinaria indiretta di tali garanzie dovrebbe risultare più onerosa rispetto all’imposta sostitutiva dello 0.25% calcolata sull’importo del finanziamento erogato. La garanzia ipotecaria richiede, infatti, il pagamento dell’imposta ipotecaria del 2% (per prassi bancaria calcolata sul doppio dell’importo del finanziamento erogato), mentre il pegno sulle quote del debitore, rilasciato dai suoi soci, richiede il pagamento dell’imposta di registro dello 0.5%.

Tenuto conto della perdurante crisi finanziaria che ha colpito il nostro Paese, il legislatore fiscale nazionale è recentemente intervenuto con varie misure volte ad agevolare i finanziamenti alle imprese e provare a porre rimedio al c.d. “credit crunch” bancario, modificandone sia la tassazione indiretta che quella diretta (i.e. modifica del regime di esonero dalle ritenute alla fonte previsto per i c.d. “mini-bond” e per i finanziamenti erogati da taluni soggetti esteri).

I recenti decreti legge n. 145/2013 e n. 91/2014 si sono mossi proprio in questa lodevole direzione (i) rendendo il regime dell’imposta sostituiva “opzionale”, e non più, al ricorrere dei presupposti di legge, obbligatorio come era in precedenza (facendo, pertanto, venire meno la consuetudine di ricorrere ai contratti di finanziamento firmati all’estero, al solo fine di evitare il pagamento dell’imposta sostitutiva, laddove più onerosa del regime fiscale ordinario), (ii) ampliando l’applicabilità di tale regime anche alle successive cessioni dei crediti e contratti (i.e. sindacazioni bancarie), (iii) nonché estendendo l’ambito soggettivo di applicabilità del regime sostitutivo anche alle società di cartolarizzazione, imprese assicurative e OICR esteri.

A fronte di una legislazione che sta finalmente intervenendo secondo chiare direttrici, non altrettanto è dato rilevare sul fronte della giurisprudenza tributaria. Ci si riferisce, in particolare, alle due recenti (e controverse) sentenze della Corte di Cassazione n. 695 del 16 gennaio 2015 e n. 2188 del 6 febbraio 2015, proprio in materia di (in)applicabilità del regime sostitutivo di cui all’art. 15 e seguenti del D.P.R. 601/73 a talune operazioni di finanziamento.

Come noto, il citato regime sostitutivo può trovare applicazione in presenza delle seguenti condizioni: (i) innanzitutto deve trattarsi di operazioni di “finanziamento” (requisito oggettivo); (ii) il finanziamento deve avere una durata contrattuale superiore a 18 mesi (requisito temporale); (iii) l’erogazione deve avvenire da parte di banche (e, post decreto legge n. 91/2014, anche da parte di società di cartolarizzazione, imprese assicurative e OICR – requisito soggettivo); (iv) l’atto di finanziamento deve essere stipulato/formato in Italia (requisito territoriale); (v) l’atto di finanziamento deve contenere un’esplicita opzione per l’applicazione di tale regime sostitutivo in luogo di quello ordinario (requisito introdotto con il decreto legge n. 145/2013).

La sentenza della Corte di Cassazione n. 695/2015 è intervenuta scrutinando le finalità del “finanziamento”, facendo un deciso passo indietro sull’applicabilità del regime sostitutivo alle operazioni di “rifinanziamento” di precedenti esposizioni debitorie. In particolare i giudici hanno ritenuto che tali operazioni non possano beneficiare di tale regime di favore (come detto in precedenza, il beneficio fiscale si ha, di regola, in caso di garanzie reali), non trattandosi di finanziamenti destinati ad “investimenti produttivi”. Il tema della irrilevanza della destinazione dei finanziamenti sembrava ormai smarcato definitivamente dopo la Risoluzione n. 121/E del 13 dicembre 2011, con la quale la stessa Agenzia delle Entrate aveva ammesso l’applicabilità del regime sostitutivo anche alle operazioni di “rifinanziamento”, senza dare alcuna rilevanza allo scopo o destinazione del finanziamento (in effetti non menzionato tra i requisiti di legge), ma semmai evidenziando (come peraltro già fatto da alcune sentenze conformi [tra le altre Cassazione n. 4530 del 28 marzo 2002]) che le agevolazioni in parola potessero ben essere fruite in caso di effettiva erogazione di danaro, con creazione di nuova provvista a favore del debitore (distinguendosi, in tal modo, dalla diversa fattispecie della mera dilazione di pagamento ovvero dalla sola rinegoziazione dei tempi e delle modalità di ripianamento di un debito pregresso). Successivamente alla Risoluzione n. 121/E/2011, nessun operatore si era più posto particolari dubbi sulla legittimità dell’applicazione del regime sostitutivo dello 0.25%, sia ai “rifinanziamenti” attuati nell’ambito delle operazioni di leveraged buy-out che in quelli attuali nell’ambito delle operazioni di ristrutturazione del debito.

Con la sentenza n. 2188/2015, i giudici della Suprema Corte hanno invece (e, almeno all’apparenza, sorprendentemente) stabilito che le clausole contrattuali che concedono alle banche la facoltà di recedere dal contratto di finanziamento, per giustificati motivi, sono incompatibili con il regime sostitutivo per mancanza del requisito temporale. Anche tale aspetto si considerava ormai pacificamente definito, posto che sia gli orientamenti dell’amministrazione finanziaria (si vedano la Risoluzione 02.06.1980 n. 250220, la Risoluzione 06.07.1998 n. 68/T, la Circolare 24.09.2002 n. 8/T, la Risoluzione 24.02.2003 n. 1/T, la Risoluzione 24.03.2003 n. 2/T, la Circolare 05.12.2006 n. 6/T e la Circolare 14.06.2007 n. 6/T), che quelli delle associazioni di categoria e professionali (si vedano la Circolare ABI 03.08.1998 n. 36, la Circolare ABI 25.10.2002 n. 15, la Circolare ABI 27.05.2003 n. 14, lo Studio del Notariato 86/2005, la Circolare ABI 22.01.2007 n. 3 e la Circolare Assonime 15.06.2007 n. 36), avevano avuto modo di chiarire che le clausole di recesso per giustificato motivo o clausole di “salvaguardia” o “cautelative” (diverse da quelle di recesso ad nutum, sempre incompatibili con il regime sostitutivo se esercitabili prima del periodo temporale minimo indicato dalla legge) non erano ostative all’applicabilità dell’imposta sostitutiva.

Più in dettaglio, con particolare riferimento al requisito temporale, l’art. 15 comma 3 del D.P.R. n. 601/73 prevede che “si considerano a medio e lungo termine le operazioni di finanziamento la cui durata contrattuale sia stabilita in più di diciotto mesi”.Dalla lettura del dettato normativo si evince che ai fini della verifica del requisito temporale occorre rifarsi unicamente alle clausole contrattuali originariamente pattuite, indipendentemente dal successivo evolversi del rapporto, al fine di comprendere se in forza di esse il finanziatore abbia o meno assunto l’impegno “a fermo” per un periodo minimo di 18 mesi ed 1 giorno.

Tale requisito temporale non viene meno nel caso in cui il finanziamento (mutuo ovvero apertura di credito, di durata superiore a 18 mesi) viene estinto dal debitore prima che sia decorso il suddetto periodo minimo, a nulla rilevando la possibilità in capo allo stesso debitore di adempiere anticipatamente all’obbligazione (il principio di diritto è stato affermato dalla Corte di Cassazione nella sentenza 9931/2008).

Qualora, invece, l’atto di finanziamento includa clausole che conferiscono al finanziatore la possibilità di risolvere anticipatamente il contratto di finanziamento, occorre analizzare tali clausole da un punto di vista giuridico, ponendo attenzione sull’intrinseca natura delle stesse, al fine di appurare se possano qualificarsi come clausole di recesso per giusta causa ovvero si tratti di clausole di recesso ad nutum. Infatti, solo le clausole di recesso ad nutum, che consentono al creditore di recedere dal contratto in qualunque momento ed a suo insindacabile giudizio, risultano sempre incompatibili con il regime dell’imposta sostitutiva, in quanto impediscono al vincolo contrattuale di sorgere sin dall’origine in modo stabile per una durata almeno pari a quella minima (diciotto mesi e un giorno). Diversamente, le clausole c.d. “cautelative”, che consentono al creditore di recedere a causa di inadempimenti contrattuali del debitore (quali, a titolo esemplificativo, mancato rimborso del finanziamento o mancato rispetto dei covenants), si sono sinora ritenute compatibili con il regime dell’imposta sostitutiva. In tal caso, infatti, si è sempre ritenuto che l’azionamento dei diritti di tutela del credito da parte della banca non inficiassero il beneficio del trattamento tributario, conseguendo il termine del rapporto creditizio dall’applicazione delle ordinarie norme civilistiche in tema di inadempimento alla cui disciplina il negozio rimane pur sempre soggetto, sempreché la risoluzione sia collegata a circostanze di fatto obiettivamente accertabili (in tal senso, si è espressa la stessa Corte di Cassazione nella sentenza 4470/1983, peraltro in termini conformi con precedenti pronunce degli anni ‘70 della stessa Corte).

L’auspicio di chi scrive è che la sentenza 2188/2015 possa invero avere una diversa esegesi rispetto a quella prima facie rinvenibile, ossia analoga a quella di altre sentenze della stessa Corte di Cassazione la cui maggiore ampiezza nel riportare i fatti di causa consente un’interpretazione più coerente con la ratio stessa della norma fiscale de qua. In particolare, la sentenza 2188/2015 ha avuto ad oggetto il recupero delle maggiori imposte in relazione ad un “contratto di apertura di credito in conto corrente” con garanzia ipotecaria e potrebbe essere accaduto che, analogamente alla vicenda di cui si è occupata la sentenza 28879/2008, il suddetto contratto richiamasse (ed eventualmente recasse in allegato al medesimo) le “condizioni generali del contratto di conto corrente”, alla stregua di quelle predisposte dall’ABI, che contengono tra l’altro la facoltà per la banca di recedere in qualsiasi momento dall’apertura di credito, anche se a tempo determinato. Nel caso giudicato dalla Corte di Cassazione nel menzionato precedente del 2008, il richiamo alla suddetta disciplina negoziale aveva indotto il giudice a ritenere prevalente nella volontà delle parti la libera recedibilità della banca rispetto all’impegno “a fermo” (pur in presenza di clausole “di salvaguardia”) assunto dalla stessa nel contratto di apertura di credito, privando in tal modo il finanziamento della necessaria caratteristica temporale richiesta dalla norma agevolativa. Pur con il “beneficio di inventario” di cui sopra, la grave incertezza in punto di interpretazione di norme fiscali così importanti rende quanto mai opportuno che il legislatore intervenga nuovamente e questa volta, forse più opportunamente, in maniera organica (o, comunque, con una norma di interpretazione autentica, in modo tale da sanare anche gli atti/contestazioni passate) ponendo fine (anche) ai dubbi interpretativi sollevati dalle citate sentenze.

Diversamente, si rischia di ingenerare i seguenti effetti di segno diametralmente opposto rispetto ai recenti interventi del legislatore a supporto dell’economia nazionale, con uno sguardo attento sia verso gli operatori domestici, che nei confronti di quelli esteri:

(i) negare in nuce la ratio stessa sottesa al regime sostitutivo, concepito sin dall’origine – e, di recente, con l’introduzione della relativa opzionalità, adeguato – proprio con l’intento di rendere l’imposta sostitutiva sempre e solo “virtuosa” in termini di legittimo risparmio fiscale. Peraltro tale negazione colpirebbe, in maniera del tutto incomprensibile e con effetti paradossali, contesti che invece necessiterebbero di poter usufruire di un regime di minore tassazione. Con riferimento alle questioni trattate nelle sentenze della Corte di Cassazione di cui sopra, si pensi, quanto alla asserita rilevanza della “finalità produttiva” (nella ristretta concezione della Suprema Corte), alle operazioni di ristrutturazione del debito attuate con “rinegoziazioni” delle esposizioni in essere che vengono “chiuse” mediante l’erogazione di nuovi finanziamenti concessi a condizioni più favorevoli (in termini di tassi di interesse e di tempi di rimborso) per il debitore in crisi. Altrettanto incoerente appare l’effetto che consegua dalla negazione del regime sostitutivo per via dell’azionamento delle clausole di “salvaguardia” a fronte dell’inadempimento del debitore: alla banca finanziatrice spetterà non solo subire l’inadempimento, ma anche sostenere rilevanti oneri economici per escutere le garanzie acquisite (apparendo inverosimile che vi provveda la parte inadempiente);

(ii) incrementare il già rilevante contenzioso fiscale in materia di imposta sostitutiva (in aggiunta a quello relativo, ad esempio, alla “territorialità” dei contratti di finanziamenti firmati all’estero e all’imposta di registro del 3% richiesta sugli share deal preceduti da conferimenti d’azienda), peraltro in relazione ad operazioni di finanziamento sinora strutturate e poste in essere sulla scorta di orientamenti consolidati, in spregio ai principi fondanti lo “statuto del contribuente” in attuazione degli artt. 3, 23, 53 e 97 della Costituzione in quanto “principi generali dell’ordinamento tributario”, ai quali deve essere orientata l’emanazione e l’interpretazione delle norme vigenti;

(iii) inopportunamente confermare l’incertezza che regna sovrana in Italia, soprattutto (ma non solo) per quanto concerne le regole fiscali rivolte agli operatori economici, con buona pace degli investitori esteri che in tal modo dirotteranno altrove i relativi capitali.

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