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Il concetto di “cessione di crediti pecuniari” nella nuova conversione delle DTA del Decreto Cura Italia

7 Aprile 2020

Giulio Andreani e Roberta Moscaroli, Dentons

Di cosa si parla in questo articolo

1. Premessa: la nuova fattispecie di conversione delle “DTA” introdotta dal Decreto Cura Italia

L’articolo 55 del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18 (“Decreto Cura Italia”) introduce nel nostro ordinamento una disciplina temporanea, volta ad incentivare la cessione di crediti deteriorati delle imprese, con l’obiettivo di sostenerle sotto il profilo della liquidità nel corrente contesto di incertezza economica[1].

La nuova fattispecie è stata inserita attraverso l’integrale sostituzione dell’articolo 44-bis del decreto-legge 30 aprile 2019, n. 34 e reca, quale meccanismo incentivante, la possibilità, per le imprese, di trasformare in credito d’imposta una quota di attività per imposte anticipate (“DTA”) riferibili alle perdite fiscali pregresse ed alle eccedenze di ACE, in misura proporzionale ai crediti ceduti entro il 31 dicembre 2020.

Ne discende che la cessione dei crediti entro il 31 dicembre 2020 costituisce sia il presupposto per poter accedere all’agevolazione, sia la base di commisurazione della stessa.

Il riformulato articolo 44-bis, tuttavia, non chiarisce il significato da attribuire al concetto di «cessione [di crediti pecuniari] a titolo oneroso» contenuta nel suo primo comma, ponendosi al riguardo una rilevante questione interpretativa.

2. (Segue) La questione controversa

Il dubbio interpretativo sopra citato si pone, innanzitutto, per i soggetti cosiddetti “IAS adopter” ed “OIC adopter” diversi dalle micro-imprese, che, in virtù del principio della “derivazione rafforzata”, ove non ricorrano i presupposti per l’eliminazione contabile del credito, non possono considerare ceduto l’asset neppure ai fini della determinazione del reddito[2] [3]. Per i predetti soggetti, infatti, l’articolo 83 del TUIR[4] dispone che, ai finidella determinazione del reddito d’impresa, «valgono, anche in deroga alle disposizioni dei successivi articoli della presente sezione, i criteri di qualificazione, imputazione temporale e classificazione in bilancio previsti dai rispettivi principi contabili»[5].

Il richiamato principio di “derivazione rafforzata”, in particolare, implica che, (anche) ai fini della determinazione del reddito, le operazioni di cessione dei crediti che non comportano il sostanziale trasferimento di rischi e benefici siano qualificate – non già come operazioni di cessione di crediti, appunto, bensì – come operazioni di finanziamento[6].

Il dubbio interpretativo di cui sopra, tuttavia, ha una portata più ampia (e cioè riguarda anche le micro-imprese), perché, per quanto si spiegherà infra, in funzione della conclusione a cui si perviene, può essere data diversa soluzione al tema della “eleggibilità”, ai fini della disposizione agevolativa in commento, delle cessioni di crediti pro solvendo.

Così delineata la problematica, pertanto, si tratta di comprendere se:

la “cessione dei crediti” di cui al riformulato articolo 44-bis debba “trovare riscontro”, per così dire, nelle rappresentazioni civilistico-contabili del soggetto cedente (e quindi, in pratica, tenendo conto delle risultanze civilistiche dello stesso);

ovvero, sotto altro profilo, (se) il “continuing involvment” rilevato dall’impresa cedente (tale da impedire la “derecognition” degli asset dal bilancio) sia di per sé un elemento tale da “snaturare” la cessione dei crediti.

Al riguardo, si ritiene innanzitutto che alla prima questione debba darsi senz’altro soluzione negativa. Dovrebbe infatti ritenersi che la rappresentazione in bilancio della cessione non possa essere, di per sé (i.e., da sola), elemento rilevante.

Diversa – e più complessa –, invece, è la questione di cui al secondo punto, posto che in effetti essa richiede di comprendere se, (anche) ai fini dell’applicazione della disposizione agevolativa in commento, un’operazione di cessione dei crediti vada valutata sotto un profilo sostanziale, anziché giuridico-formale.

In proposito, pur nell’incertezza derivante dall’assenza di qualsivoglia chiarimento ufficiale al riguardo, ci sembrerebbe che anche la risposta a questo secondo quesito debba essere negativa, in virtù delle regole di interpretazione della norma tributaria di seguito brevemente richiamate e commentate.

3. Criteri di interpretazione della norma tributaria (cenni)

I criteri legali di interpretazione delle norme giuridiche sono stabiliti dall’articolo 12, comma 1, delle disposizioni preliminari al Codice civile.

Secondo tale disposizione, il senso da attribuire alle norme giuridiche è quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse (criterio letterale) e della intenzione del legislatore (criterio della ratio legis e/o logico funzionale).

Si discute se i due criteri legali appena menzionati siano posti in un rapporto alternativo o preferenziale (i.e., di priorità del primo rispetto al secondo)[7] ovvero in un rapporto di pari rango e di reciproca complementarietà[8]. Va da sé, ovviamente, che nulla quaestio sussiste se i due criteri portano a soluzioni interpretative coerenti.

Ancora, si ricorda brevemente che, ai fini dell’applicazione di detti criteri, dottrina e giurisprudenza hanno elaborato alcuni canoni ausiliari, in grado di aiutare l’attività dell’interprete ed anche di far dirimere le incertezze che si presentano in ordine ai risultati della stessa.

In tal senso, ci si limita a ricordare – tra gli altri – i seguenti strumenti esegetici sussidiari:

quello dell’interpretazione l’interpretazione sistematica, che tiene conto delle connessioni esistenti all’interno del corpo normativo e mira all’armonizzazione della singola disposizione nel complessivo tessuto legislativo in cui questa si cala;

quello dell’interpretazione adeguatrice, secondo cui, nell’interpretare un testo normativo, si deve privilegiare l’interpretazione conforme al testo gerarchicamente sovraordinato (ad esempio, la Costituzione).

Le suddette regole ermeneutiche valgono anche per la norma tributaria, sia pur con una serie di peculiarità e di questioni ulteriori, tra le quali, innanzitutto, quella relativa a come interpretare, da un punto di vista letterale, locuzioni, termini tecnici e riferimenti ad istituti presenti anche in altri settori del diritto[9].

4. Spunti per una possibile soluzione interpretativa

Ora, tornando alla questione controversa enunciata in premessa, a noi sembra che la nozione di “cessione dei crediti” contenuta nel riformulato articolo 44-bis del decreto-legge 30 aprile 2019, n. 34 vada intesa quale locuzione tecnica mutuata dal Codice civile (cfr. gli articoli 1260 e ss.), mancando in effetti un riferimento alternativo rilevante ai fini fiscali.

Con riferimento a quest’ultimo profilo, invero, il fatto che nel nostro ordinamento tributario manchi un’autonoma nozione di “cessione dei crediti” pare indubbio, come dimostra il fatto che le locuzioni «cessioni che hanno per oggetto … crediti in denaro», «negoziazione, anche a titolo di cessione pro-soluto, di crediti» e «cessioni di crediti», indicate, rispettivamente, dagli articoli 2 e 3 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 in materia di IVA e dall’articolo 6 della Tariffa, Parte I, del D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, in materia di imposta di registro, fanno chiaro rinvio alla cessione dei crediti disciplinata dagli articoli 1260 e ss. del Codice civile.

Un dubbio, piuttosto, si pone nuovamente rispetto alla necessità di riqualificare di talune operazioni di cessione dei crediti in virtù del principio della “derivazione rafforzata” ai fini della determinazione del reddito d’impresa, secondo quanto indicato al precedente § 2.

Al riguardo, tuttavia, vale sottolineare che il principio della derivazione rafforzata – e quindi, indirettamente, quello della qualificazione sostanziale delle fattispecie – opera ai fini della determinazione del reddito d’impresa dei soggetti (“IAS adopter” ed “OIC adopter”) diversi dalle micro-imprese, mentre la disposizione sulla conversione delle DTA presuppone il possesso di un reddito d’impresa ma si colloca in un ambito diverso, che è quello dell’estinzione dell’obbligazione tributaria (e quindi della riscossione)[10].

La soluzione interpretativa appena offerta, del resto, troverebbe conferma nell’interpretazione logico-sistematica del menzionato articolo 44-bis: al riguardo, infatti, si ricorda che, come chiaramente indicato dalla Relazione illustrativa al Decreto Cura Italia, la ratio sottesa alla disposizione medesima è l’obiettivo del sostegno finanziario alle imprese mediante incentivazione di operazioni di monetizzazione dei crediti, di talché l’interpretazione testuale sopra prospettata non confliggerebbe – ed anzi sarebbe pienamente coerente – con un’interpretazione che consideri “eleggibile”, ai fini dell’operatività della disposizione, qualsiasi operazione di cessione del credito.

La soluzione interpretativa prospettata, inoltre, avrebbe il pregio di non creare discriminazioni tra IAS adopter e OIC adopter, da un lato, e “micro-imprese”, dall’altro; discriminazioni, che – in effetti – non dovrebbero trovare giustificazione alcuna rispetto alla finalità della norma, già ricordata, di aiutare il sostegno finanziario delle imprese stesse.

Con riferimento a quest’ultimo aspetto, anzi, per connessione di argomento, torna utile richiamare i chiarimenti forniti dall’Agenzia delle entrate sull’ambito di applicazione temporale di un investimento agevolato (i.e., dell’individuazione del momento di effettuazione dell’investimento), da parte di un soggetto IAS adopter.

Ci si riferisce, innanzitutto, ai chiarimenti forniti a commento della cosiddetta “Tremonti-ter”, quando l’Agenzia delle entrate ebbe a ritenere che, «tenuto conto della finalità agevolativa della disciplina in esame e della modalità di fruizione della stessa, che non incide sulle ordinarie modalità di determinazione del reddito d’impresa, non rilevano i diversi criteri di qualificazione, imputazione temporale e classificazione in bilancio previsti per i soggetti che redigono il bilancio in base ai principi contabili internazionali di cui al regolamento (CE) n. 1606/2002 del Parlamento europeo e del Consiglio del 19 luglio 2002» (circolare n. 44/E/2009).

Più di recente, l’Agenzia delle entrate ha ribadito lo stesso principio con riferimento alla disciplina agevolativa del “super-ammortamento”, ai fini dell’individuazione dell’ambito temporale di applicazione dell’agevolazione medesima (circolari n. 23/E/2016 e n. 4/E/2017).

Se ne desume (rectius: se ne trae la conferma) che i criteri ordinari in materia di qualificazioneimputazione temporale classificazione in bilancio non rilevano in toto, ma solo ai fini della determinazione del reddito d’impresa e che viceversa, nell’interpretazione di disposizioni agevolative, ragioni sistematiche (nonché di semplificazione) delle stesse inducono a ricercare regole comuni, indipendenti dai principi contabili utilizzati per la redazione del bilancio[11].

5. Riflessioni conclusive

L’articolo 44-bis del decreto-legge n. 34 del 2019, come riformulato dall’articolo 55 del Decreto Cura Italia, pone una serie di questioni interpretative, tra cui quella della corretta individuazione del concetto di «cessione [di crediti pecuniari] a titolo oneroso», esaminata nel presente contributo.

Il permanere di una situazione di incertezza circa la corretta interpretazione di detto concetto, così come un’interpretazione restrittiva dello stesso da parte dell’Agenzia delle entrate, limiterebbero fortemente l’applicabilità della disposizione, vanificandone di fatto la portata agevolativa.

Al contrario, un’interpretazione di detto concetto, da parte dell’Agenzia delle entrate, che rinviasse alle disposizioni del Codice civile favorirebbe l’applicazione della disposizione, andando incontro alle esigenze delle imprese.

A parere di chi scrive la norma dovrebbe peraltro già ora essere interpretata attribuendo alla locuzione “cessione dei crediti” il significato che essa ha sulla base delle disposizioni del Codice civile e non dei principi contabili IAS od OIC; dovrebbe inoltre essere riferita sia alle cessioni di crediti pro-soluto sia a quelle pro-solvendo, in quanto entrambe utili rispetto all’obbiettivo della creazione di liquidità per l’impresa.

 

[1] Per un approfondimento dell’argomento, cfr. G. Andreani – A. Tubelli, La nuova fattispecie di conversione delle “DTA” introdotta dal Decreto “Cura Italia”, in dirittobancario.it, marzo 2020.

[2] I presupposti necessari ad effettuare l’eliminazione contabile (di seguito, anche, la “derecognition”) delle attività finanziarie oggetto di cessione sono contenuti nel principio contabile internazionale IFRS 9 “Strumenti finanziari” ai paragrafi 3.2.1 – 3.2.23 e B3.2.1 –B3.2.17 e nel documento OIC 15, in particolare al paragrafo 71.

[3] Può accadere, così, che una determinata operazione di cessione di crediti pro soluto, che dal punto di vista giuridico-formale comporta il trasferimento della titolarità dei crediti stessi a titolo definitivo, ai fini civilistico-contabili sia purtuttavia rappresentata come cessione pro-solvendo (i.e., con mantenimento dei crediti ceduti nell’attivo dello stato patrimoniale ed indicazione del corrispettivo incassato tra i debiti finanziari), perché – appunto – l’entità ha mantenuto il controllo sui crediti ceduti o l’operazione non ha determinato un passaggio sostanziale dei rischi e dei benefici.

[4] D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, recante l’approvazione del «Testo Unico delle Imposte sui Redditi» (“TUIR”).

[5] Principio, appunto, della “derivazione rafforzata”. Per un approfondimento, ci si permette di rinviare a G. Andreani – G. Ferranti, Testo unico imposte sui redditi, Wolters Kluwer, 2017, pagg. 1003e ss.

[6] Cfr., inter alia, la circolare n. 7/E/2011 dell’Agenzia delle entrate, che analizza il principio della derivazione rafforzata rispetto ad una serie di fattispecie in cui il dato giuridico-formale diverge dalla qualificazione sostanziale, incluse le operazioni di cessioni di asset (come ad esempio le cartolarizzazioni) rispetto alle quali sono mantenuti taluni (e significativi) rischi e benefici.

[7] Come di recente affermato, inter alia, dalla Cassazione (sentenza n. 29162 del 12 novembre 2019, ud. 25 giugno 2019, della Cassazione Civile, Sez. V), di cui si riporta uno stralcio: «Nell’ipotesi in cui l’interpretazione letterale di una norma di legge o di una norma secondaria sia sufficiente ad individuarne, in modo chiaro e univoco, il relativo significato e la connessa portata precettiva, l’interprete non deve ricorrere al criterio ermeneutico sussidiario costituito dalla ricerca, mercé l’esame complessivo del testo, della “mens legis”, specie se, attraverso siffatto procedimento possa pervenirsi al risultato di modificare la volontà della norma sì come inequivocabilmente espressa dal legislatore. Soltanto qualora la lettera della norma medesima risulti ambigua (e si appalesi altresì infruttuoso il ricorso al predetto criterio ermeneutico sussidiario), l’elemento letterale e l’intento del legislatore, insufficienti in quanto utilizzati singolarmente, acquistano un ruolo paritetico in seno al procedimento ermeneutico, sicché il secondo funge da criterio comprimario e funzionale ad ovviare all’equivocità del testo da interpretare (cfr. Cass. n. 24165/2018; n. 5128/2001). D’altronde l’art. 12 preleggi enuncia tutti i criteri ermeneutici della legge, primo tra essi quello dell’interpretazione letterale, in ossequio al principio “in claris non fit interpretatio”, in base al quale nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse e dall’intenzione del legislatore. Sono invece strumenti esegetici sussidiari sia quello dell’interpretazione estensiva, che consente l’utilizzazione di norme regolanti casi simili (e non già identici), sia quello dell’interpretazione analogica (analogia legis), che permette l’utilizzazione di norme che disciplinano materie analoghe, ossia istituti diversi aventi solo qualche punto in comune con il caso da decidere (in senso conforme: Cass. 24/07/1990, n. 7494)».

[8] Come sostenuto, ad esempio, da una parte della dottrina: cfr., in tal senso, E. Nuzzo, L’interpretazione della legge nella definizione del regime impositivo del servizio di telefonia satellitare, in “Rassegna tributaria” n. 5 di settembre-ottobre 1999, pag. 1309, che al riguardo osserva: «La norma in esame, difatti, ha consacrato l’abbandono del dogma della lettera della legge che portava, addirittura, ad escludere la necessità dell’operazione interpretativa, in presenza della (almeno apparente) inequivocità dell’enunciato legislativo (in claris non fit interpretatio). Per effetto di ciò, la portata di qualsiasi disposizione deve, e non può che essere, in ogni caso, individuata attraverso il necessario e concorrente impiego dall’uno e dall’altro criterio. In specie, e concretamente, il ricorso al criterio della ratio legis deve soccorrere non soltanto in ipotesi di dubbia formulazione in grado di dare adito ad una pluralità di significati possibili, ma è anche rilevante per cogliere le inadeguatezze espressive idonee da comportare un divario fra le reali intenzioni del legislatore e i termini in cui dette intenzioni sono state tradotte in formula scritta, così pervenendo alla cosiddetta interpretazione estensiva o restrittiva».Cfr. anche E. Betti, L’interpretazione della legge e degli atti giuridici, Milano, 1949, pagg. 174 e seguenti.

[9] Senza pretesa di esaustività, sul tema dell’interpretazione della norma tributaria, cfr. per tutti: M.S. Giannini, L’interpretazione e l’integrazione delle leggi tributarie, in “Riv. dir. fin. sc. fin.”, 1941, I, pag. 197; A.D. Giannini, I concetti fondamentali del diritto tributario, Torino, 1956, pagg. 38 e seguenti; E. Vanoni, Natura e interpretazione delle leggi tributarie, in “Opere Giuridiche”, Milano, 1962, vol. I, pagg. 3 e seguenti; Amatucci, L’interpretazione della legge tributaria, in Trattato di diritto tributario, diretto da Amatucci, Padova, 1994, I, 2, 547 ss.. Per la trattazione delle problematiche inerenti la scelta e l’utilizzo dei canoni ermeneutici nel diritto tributario cfr. G. Melis, L’interpretazione nel diritto tributario, Padova, 2003.

[10] Peraltro, per completezza si ricorda anche che, a commento della c.d. “Tremonti-ter” e dell’individuazione del momento di effettuazione dell’investimento, l’Agenzia delle entrate ebbe a ritenere che, «tenuto conto della finalità agevolativa della disciplina in esame e della modalità di fruizione della stessa, che non incide sulle ordinarie modalità di determinazione del reddito d’impresa, non rilevano i diversi criteri di qualificazione, imputazione temporale e classificazione in bilancio previsti per i soggetti che redigono il bilancio in base ai principi contabili internazionali di cui al regolamento (CE) n. 1606/2002 del Parlamento europeo e del Consiglio del 19 luglio 2002.» (cfr. circolare dell’Agenzia delle entrate n. 44/E/2009). Analogo principio è stato più di recente ribadito in materia di super-ammortamento (cfr. la circolare dell’Agenzia delle entrate n. 23/E/2016).

[11] Cfr., sul punto, G. Andreani – A. Tubelli (Valore degli investimenti agevolati e momento di effettuazione della «Tremonti-ter», in Corriere Tributario, n. 45/2009, p. 3652): «La conclusione cui è giunta l’Agenzia delle entrate, sebbene non espressamente motivata, va condivisa. Vero è che con la legge 24 dicembre 2007, n. 244, il legislatore fiscale, cambiando rotta rispetto al passato, ha inteso differenziare il regime fiscale dei soggetti IAS da quello delle altre imprese, attribuendo rilevanza fiscale alle diverse regole previste dai principi contabili internazionali se in contrasto con i criteri ordinari in materia di qualificazione, imputazione temporale e classificazione in bilancio. Tuttavia, tale «disciplina speciale» non opera in toto, ma solo ai fini della determinazione del reddito d’impresa, per la quale è espressamente prevista. Dall’assenza di specifiche regole per la determinazione del momento di effettuazione dell’investimento agevolato non può, per evidenti ragioni sistematiche (nonché di semplificazione), derivare una diversità di regole a seconda dei principi contabili utilizzati per la redazione del bilancio, dovendo su tali aspetti dell’agevolazione essere fissate regole comuni, così come per quelli espressamente disciplinati dall’art. 5 del D.L. n. 78/2009. L’assenza di norme ad hoc sul punto deve, quindi, essere giustamente colmata mediante il rinvio ai criteri previsti per la generalità dei contribuenti, ovverosia a quelli fissati dall’art. 109 del T.U.I.R. Se così non fosse, verrebbe a crearsi una disparità di trattamento (probabilmente priva di giustificazione) per i soggetti effettuanti investimenti che, sulla base degli IAS, ricadrebbero fuori dal periodo agevolato, mentre vi rientrerebbero in base ai criteri ordinari fissati dall’art. 109».

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