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Attualità

Fondi pensione aperti e omessi versamenti del datore di lavoro

Un passo avanti verso il corretto inquadramento delle relative dinamiche processuali

31 Maggio 2023

Antonio Cacciato, Socio, Carbone D’Angelo Portale Purpura

Giulia Colombo, Carbone D’Angelo Portale Purpura

Di cosa si parla in questo articolo

Il presente contributo analizza il tema dell’omesso versamento da parte del datore di lavoro delle quote di TFR di spettanza del lavoratore destinate a confluire in fondi pensione aperti alla luce recente sentenza del Tribunale di Torino 16 marzo 2023 in materia.


1. La recente sentenza n. 68/2023 del Tribunale di Torino

Con la recente sentenza n. 68/2023, pubblicata in data 16 marzo 2023, il Tribunale di Torino, Sezione Lavoro, ha preso posizione circa le geometrie processuali che vengono a determinarsi in caso di omesso versamento da parte del datore di lavoro delle quote di TFR di spettanza del lavoratore destinate a confluire in un fondo di previdenza complementare, avuto particolare riguardo ai fondi pensione aperti. Nel pronunziarsi su un ricorso presentato da un lavoratore per ottenere il versamento delle quote di TFR non corrisposte dal datore di lavoro al fondo pensione aperto, il Tribunale di Torino si è espresso – in termini condivisibili e puntuali – in tema di legittimazione attiva del lavoratore (confermandola) e di litisconsorzio del gestore del fondo pensione convenuto in giudizio insieme al datore di lavoro (escludendolo). A fronte della domanda formulata dal lavoratore di condannare il datore di lavoro a versare al fondo di previdenza complementare i flussi TFR non versati e in accoglimento dell’eccezione di difetto di legittimazione passiva sollevata dal gestore del fondo, il Tribunale di Torino ha accertato la sussistenza di un credito del lavoratore nei confronti del datore di lavoro, rigettato la domanda di condanna del datore di lavoro a versare le quote di TFR direttamente al fondo pensione.

2. Il panorama giurisprudenziale di riferimento

L’arresto giurisprudenziale in commento si inserisce nel (e si ritiene possa concretamente contribuire a mettere ordine al) variegato panorama giurisprudenziale via via formatosi in argomento, una volta constata l’assenza di un chiaro dato normativo di riferimento: il decreto legislativo n. 252/2005 che disciplina il sistema della previdenza complementare, a differenza di quanto originariamente indicato nella legge delega 243/2004, nulla dice circa il soggetto legittimato ad esigere il pagamento dei flussi a carico del datore di lavoro destinati a confluire nei fondi pensione.

Se in tale contesto può considerarsi approdo ormai diffuso (seppur raggiunto sulla base di argomentazioni non univoche e non sempre condivisibili) quello di ritenere il lavoratore legittimato ad agire in giudizio (quanto meno fino a quando il datore di lavoro sia in bonis[1]), lo stesso non può dirsi circa l’individuazione del soggetto (lo stesso lavoratore o il gestore del fondo?) in favore del quale il datore di lavoro deve essere condannato a versare i flussi, con correlata necessità (o meno) di partecipazione al giudizio anche del gestore del fondo pensione.

Su quest’ultimo profilo possono individuarsi tre macro-indirizzi giurisprudenziali di merito, tra loro discordanti.

Un primo indirizzo giurisprudenziale[2] ritiene necessaria la presenza in giudizio del gestore del fondo pensione cui il lavoratore ha aderito, in quanto riconosce al lavoratore legittimazione ad agire nei confronti del datore di lavoro in via surrogatoria, ai sensi dell’art. 2900 c.c., per il caso di inerzia del gestore del fondo.

Anche un secondo indirizzo giurisprudenziale[3] ritiene necessaria la presenza in giudizio del gestore del fondo, delineando però un rapporto trilaterale tra le parti, nell’ambito del quale si ritiene, per un verso, che il lavoratore sia l’unico soggetto legittimato ad agire in giudizio per pretendere dal datore di lavoro il versamento dei flussi omessi (così da consentire al diretto interessato di tutelare il proprio diritto soggettivo all’integrità della posizione previdenziale) e, per altro verso, che il datore di lavoro possa essere condannato al versamento delle somme solo in favore del fondo di previdenza complementare (e non a mani del lavoratore). La presenza in giudizio del gestore del fondo pensione è così resa necessaria affinché la sentenza di condanna possa essere pronunziata “a favore di terzo” (il gestore del fondo) e possa fare stato anche nei confronti dello stesso.

Un terzo indirizzo giurisprudenziale[4], argomentando dalle peculiarità del sistema di previdenza complementare e dei fondi pensione aperti e sussumendo la fattispecie sotto la delegazione di pagamento, ritiene che il gestore del fondo pensione non debba essere evocato in giudizio e ciò in quanto sussiste esclusivamente in capo al lavoratore (delegante) la legittimazione a richiedere e ricevere il pagamento a proprie mani dei flussi non versati dal datore di lavoro (delegato) al fondo di previdenza complementare (delegatario), per contro non ritenendo che, da un lato, possa delinearsi un diritto di credito del gestore del fondo nei confronti del datore di lavoro che consenta al lavoratore di agire in via surrogatoria ex art. 2900 c.c. e che, dall’altro lato, possa individuarsi nel d.lgs. 252/2005 una norma che consenta di derogare al principio generale espresso dall’art. 81 c.p.c. per cui, al di fuori dai casi espressamente previsti dalla legge, nessuno può agire in giudizio per far valere in nome proprio un diritto altrui (situazione che, invece, si creerebbe quanto meno in executivis in caso di condanna a favore del terzo).

In tale contesto, non sono mancati i richiami a esaminare e pesare il tema in relazione alle concrete caratteristiche delle fattispecie in esame. La Corte Costituzionale, investita al riguardo, con sentenza n. 154 del 15 luglio 2021 ha sottolineato come occorra «accertare di volta in volta se il conferimento del TFR sottenda la cessione di un credito futuro (art. 1260 del codice civile) o una delegazione di pagamento (art. 1268 cod. civ.) …», poiché «tale qualificazione … incide sulla titolarità del diritto e sulla conseguente legittimazione a dedurlo in causa»[5].

A ben vedere, infatti, le sentenze di merito che ritengono necessaria la presenza in giudizio del gestore del fondo pensione mostrano di rapportarsi a categorie proprie dei fondi pensione negoziali e di natura associativa, nell’ambito dei quali, anche tramite l’adesione espressa del datore di lavoro al relativo statuto, vengono a crearsi in via negoziale rapporti obbligatori pure tra datore di lavoro e gestore del fondo. Diverse, invece, sono le peculiarità dei fondi pensione aperti. Si tratta di fondi a contribuzione libera, nell’ambito dei quali, per un verso, ad aderire al relativo regolamento è solo il lavoratore (e non il datore di lavoro) e, per altro verso, non sorge alcun obbligo in capo all’aderente stesso di versare periodicamente somme in favore del fondo.

3. L’approdo cui è giunto il Tribunale di Torino

Con la sentenza n. 63/2023, il Tribunale di Torino mostra di valorizzare le peculiarità strutturali dei fondi pensioni aperti, dando così motivato seguito al terzo orientamento sopra richiamato per cui, in caso di adesione a fondo pensione aperto, il lavoratore è legittimato ad esigere a mani proprie in sede giudiziale il versamento dei flussi che il datore di lavoro avrebbe dovuto versare al fondo pensione, senza necessità che il gestore del fondo sia convenuto in giudizio e, dunque, senza necessità di ricorrere a istituti (quali l’azione surrogatoria o la sentenza “a favore di terzo”) che mal si attagliano alle peculiarità dei fondi pensioni aperti ed al dato normativo.

Rileva così il Tribunale di Torino che «scegliendo un Fondo previdenziale aperto, [il lavoratore] costituiva un rapporto esclusivamente bilaterale, come descritto dal “Regolamento del Fondo Pensione Aperto …”, disponendo una semplice delegazione di pagamento ai sensi dell’art. 8, comma 7, d.lgs. n. 252/2005 a favore di quest’ultimo senza determinare una effettiva cessione del credito in ordine alle quote di TFR destinate alla previdenza complementare». E, dunque, «a causa dell’inesistenza di effetti obbligatori derivanti della dichiarazione resa dal lavoratore al datore sulla destinazione delle somme in oggetto, non si realizzava alcuna attribuzione al Fondo di esigerle in caso di mancato versamento da parte dell’impresa convenuta». Più nel dettaglio, non venendosi a creare alcun rapporto obbligatorio tra datore di lavoro e gestore del fondo pensione, ma sussistendo un rapporto obbligatorio di fonte contrattuale tra lavoratore e datore di lavoro, «nel caso in cui il datore di lavoro si sia reso inadempiente, è il lavoratore il solo titolare del diritto di richiedere il pagamento a proprie mani delle somme non versate al Fondo Pensione prescelto», sussistendo così in capo al lavoratore, quale titolare del diritto di credito nei confronti del proprio datore di lavoro, l’esclusiva legittimazione ad agire in giudizio per ottenere la soddisfazione del proprio diritto.

Il Tribunale di Torino ha pure precisato che, in conformità a quanto disposto dal regolamento del fondo pensione aperto cui aveva aderito il lavoratore, «neppure vi è un obbligo del lavoratore a contribuire al Fondo». Peraltro, sempre avuto riguardo alle previsioni del regolamento, «nel caso in cui si attribuisse al Fondo il diritto a conseguire direttamente dal datore di lavoro le somme non versate a titolo di contribuzione complementare, questo sarebbe onerato anche della procedura di esecuzione derivante dal mancato adempimento del precetto di condanna» e «il costo dell’esecuzione della sentenza sarebbe a carico di tutti i soggetti che hanno aderito al fondo», mentre «per sua natura e per il rapporto con i soggetti aderenti, non richiedendo alcun versamento per la gestione delle spese legali e giudiziarie e permettendo un’adesione tendenzialmente libera, il Fondo non può essere onerato della riscossione dei crediti maturati dal lavoratore, ma dallo stesso non conseguiti per causa imputabile al datore».

4. Qualche ulteriore spunto di riflessione

L’assunto del Tribunale di Torino per cui, in ipotesi di adesione a fondi pensione aperti, il rapporto di contribuzione nasce e si sviluppa esclusivamente tra lavoratore-aderente e fondo, senza che si crei un qualche rapporto tra il fondo (e il suo gestore) e il datore di lavoro si mostra condivisibile e adeguatamente motivato.

Infatti, il datore di lavoro, non aderendo al regolamento del fondo, altro non è che il destinatario della dichiarazione resa dal lavoratore, nell’ambito del distinto rapporto di lavoro, di destinare le quote di TFR a un fondo pensione aperto. Tale dichiarazione unilaterale – rispetto alla quale il gestore del fondo rimane estraneo – costituisce il mezzo con cui il lavoratore indica al proprio debitore/datore di lavoro il soggetto terzo cui corrispondere il pagamento dei flussi maturandi. Detta dichiarazione dispiega i suoi effetti all’interno del rapporto negoziale bilaterale corrente tra il lavoratore e il datore di lavoro, non essendo di per sé idonea a creare effetti obbligatori nei confronti di terzi soggetti (quale è, in particolare, il gestore del fondo) né ad interferire nel distinto rapporto di previdenza complementare corrente esclusivamente tra il lavoratore-aderente e il fondo. Gli indicati tratti strutturali di un fondo pensione aperto hanno portato il Tribunale di Torino a qualificare la fattispecie quale delegazione di pagamento.

L’auspicio è che questa pronunzia possa contribuire a portare a sostanziale unità un quadro giurisprudenziale ancora oggi composito e non univocamente orientato. In tal senso, un contributo potrebbe essere portato da un supplemento di riflessione teso a guardare la fattispecie anche da un distinto, per quanto prossimo, angolo visuale: considerando che il ruolo del fondo (e del suo gestore) assume forti tratti di prossimità con quello del c.d. indicatario ex art. 1188 c.c., ossia quel soggetto che è (e rimane) estraneo al rapporto obbligatorio corrente tra datore di lavoro e lavoratore ma che viene legittimato dal lavoratore (sino a quando quest’ultimo lo ritenga) esclusivamente a ricevere (e non ad esigere) il pagamento da parte del datore di lavoro, con effetto solutorio, mediante dichiarazione ex art. 8, comma 7, d.lgs. n. 252/2005 indirizzata dal lavoratore al datore di lavoro.

In estrema sintesi, l’indicazione di pagamento, al pari (e ancor più) della delegazione di pagamento, assume funzione meramente solutoria e, dunque, si ritiene non determini alcun trasferimento di titolarità in capo al gestore del fondo pensione del diritto di credito del lavoratore-aderente, non legittimi il gestore del fondo ad esigere il versamento di somme da parte del datore di lavoro né richieda che il pagamento sia ricevuto necessariamente dal gestore del fondo pensione; conclusioni, queste, che si mostrano in linea con il recente approdo cui è giunto il Tribunale di Torino.

 

[1] V. infra nota 5.

[2] Cfr., tra le altre, Trib. Palermo, sez. lav., 16 febbraio 2023, n. 491.

[3] Cfr., tra le altre, Trib. Roma, sez. lav., 7 marzo 2023, n. 2320.

[4] Cfr., tra le altre, Trib. Milano, sez. lav., 9 marzo 2016, n. 764; Trib. Napoli, 11 aprile 2017, n. 2939.

[5] Nello stesso senso anche Cass., 15 febbraio 2019, n. 4626 che, pronunciandosi incidenter tantum, ha ritenuto che «per una tale qualificazione della posizione individuale del lavoratore rispetto al fondo cui prestata la propria adesione, liberamente negoziabile tra le parti, occorre accertare la natura e la funzione del mezzo di volta in volta utilizzato: se una delegazione di pagamento, con incarico conferito dal lavoratore al datore di versare le quote di T.f.r. al fondo, ovvero di loro cessione, quale credito futuro, direttamente dal lavoratore al fondo, o strumenti ad essi assimilabili. E ciò comporta evidenti effetti diversi, in ordine alla titolarità del credito nei confronti del datore fallito (da insinuare allo stato passivo della procedura concorsuale), a seconda dell’opzione negoziale adottata». Più di recente, si segnalano in senso conforme anche tre ordinanze gemelle della Corte di Cassazione, nn. 17699, 17700 e 17704 del 31 maggio 2022, che, pur interrogandosi sulla questione della legittimazione attiva ai fini dell’insinuazione al passivo del fallimento del datore di lavoro in caso di omesso versamento delle quote di TFR di spettanza del lavoratore, ritengono «condivisibile l’impostazione (in precedenza sostenuta dalla stessa sezione lavoro) che impone di verificare se il “conferimento” del t.f.r. si sia in concreto esplicato mediante una vera e propria cessione, ovvero mediante delegazione di pagamento ai sensi dell’art. 1270 c.c.».

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