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Editoriali

A dieci anni dal crac Lehman, tra lezioni e domande rimaste

17 Settembre 2018

Mario Comana

Professore Ordinario di Economia degli intermediari finanziari, Università LUISS Guido Carli di Roma

Di cosa si parla in questo articolo

Quasi tutti si ricordano dove erano l’11 settembre 2001 quando, intorno alle 15 ora italiana, hanno appreso dell’attacco alle Torri Gemelle. Pochi sono in grado di dire dove erano la mattina del 15 settembre 2008 quando, da poco risvegliati, si è saputo che un altro simbolo dell’America finanziaria era crollato. Fra questi pochi ci siamo io e probabilmente buona parte dei miei lettori. Poi però anche il vasto pubblico, quello dei non specialisti (si può ancora menzionare la casalinga di Voghera?), ha imparato ad associare a quell’evento simbolico l’inizio di un periodo molto difficile. La crisi finanziaria, così viene chiamata per semplicità, ha avuto conseguenze così diffuse e profonde che anche le persone comuni sanno datarne l’inizio.

Dopo dieci anni, non tutti se la sentono di dire che la crisi è finita, chissà se più per pigrizia mentale o perché alla fine è comodo lamentarsi e avere un capro espiatorio (vi ricordate Malausséne di Daniel Pennac, l’impiegato dei grandi magazzini pagato per essere sgridato davanti ai clienti che reclamavano?). A me pare proprio che oggi dobbiamo avere il coraggio di chiudere questo capitolo, ma comunque rimane il fatto che la crisi è stata molto lunga, forse quanto lunga è stata la sua incubazione. Già, perché le sue radici affondano nelle politiche economiche e monetarie di tanti anni addietro, forse addirittura nelle manovre espansive attuate in America per contrastare la recessione che poteva innescarsi nel 2001 anche in virtù del panico terroristico.

Ma davvero fu una crisi finanziaria? O solo una crisi finanziaria? Il fallimento di Lehman Brothers, ma anche di Northern Rock e i salvataggi di tante altre banche, portano a ritenere che gli unici responsabili siano stati i banchieri, i gestori dei fondi, gli speculatori, gli esosi investitori mai paghi dei loro guadagni. E con loro sono stati colpevoli coloro che erano preposti alla vigilanza. È vero, gli eccessi ci furono, l’abbaglio di un arricchimento smodato e senza fine c’è stato, l’illusione che i modelli matematici e la sofisticatezza degli algoritmi potesse governare ogni rischio ha catturato un po’ tutti. Compreso chi doveva vigilare, che sull’onda di un periodo di stabilità relativamente lungo e, di nuovo, con un eccesso di fiducia nei meccanismi automatici di valutazione dei rischi, ha allentato la presa proprio su quegli strumenti finanziari che più necessitavano di essere sotto stretta osservazione.

Se poi sono seguiti almeno 5 anni di recessione profonda, che ha toccato due picchi di contrazione della ricchezza, non possiamo credere che sia solo un fenomeno finanziario. La restrizione creditizia che è seguita al 2008 è stata mitigata solo in parte e con ritardo dalle politiche monetarie espansive, anche negli Usa dove pure la reazione è stata immediata. Ma il crollo della produzione e dei consumi ha segnalato che esisteva uno squilibrio strutturale nell’economia reale, cioè che i Paesi occidentali, America in testa, consumavano troppo, molto più di quanto producevano. Il gap era mascherato dai deficit gemelli, bilancia commerciale e bilancio statale, allegramente finanziati da una generosa creazione monetaria. Non dimentichiamo che il sogno di dare una casa a tutti gli americani fu una delle leve usate da Clinton per ottenere il suo secondo mandato e che basava questo progetto sulla concessione di mutui subprime garantiti dalle non dimenticate Fannie Mae e Freddie Mac. Certo, questo non prevedeva esplicitamente le cartolarizzazioni squared e cube dei mutui insolventi e la loro diffusione nei portafogli di ignari (ma esosi?) risparmiatori in giro per il mondo, ma in qualche modo ne è stato il presupposto.

Su queste tendenze insane dell’economia reale si sono innescati i limiti, già richiamati, del mondo finanziario e la frittata è fatta. Oggi, a dieci anni di distanza, le domande che ci interessano sono essenzialmente due: che cosa abbiamo imparato, e se rischiamo di ricadere.

Le lezioni apprese sono tante e i molti editoriali di questi giorni ne sono pieni. Sotto il profilo tecnico il bagaglio di esperienza si è arricchito di molto: abbiamo emendato una legislazione che si è rivelata essere solo di facciata (ma forse abbiamo pure esagerato); abbiamo capito che bisogna mettere sotto controllo le contrattazioni dei derivati, visto che sono la maggior parte del volume degli scambi (ma sfugge al radar ancora un pezzo crescente del sistema finanziario, il cosiddetto shadow banking); abbiamo migliorato il coordinamento fra le istituzioni nazionali e fra queste e le istituzioni nazionali; ci è diventato chiaro quanto sia importante reagire con tempestività e prontezza ai primi scricchiolii e come spesso gli annunci contino come e più dei fatti (“whatever it takes”).

Ma l’aver continuato a definire finanziaria la crisi del 2008, senza evidenziare il suo lato reale, ci impedisce di comprenderla fino in fondo e quindi di apprestare i migliori rimedi. E veniamo alla seconda domanda: “could it happen again”? Tutti sappiamo che le crisi finanziarie (ma non solo, anche quelle coniugali) arrivano periodicamente, con una cadenza classica fra sette e dieci anni. Dunque ci siamo, anche perché i fattori di pericolo non mancano: l’enorme liquidità alimenta il rischio bolla speculativa, il livello di debito nel mondo è gigantesco, una parte crescente delle attività finanziarie è al di fuori del perimetro dei controlli, i bassi tassi di interesse favoriscono leverage altissimi. Siamo attrezzati per affrontare lo scoppio di un’altra crisi? A voler essere ottimisti si potrebbe dire che l’esperienza degli ultimi dieci anni ci aiuterà, ogni turmoil si presenta con connotati nuovi, difficili da riconoscere precocemente e quindi da arrestare tempestivamente. Starà ai responsabili delle istituzioni finanziarie e politiche porre in essere il giusto mix di risposte fra quelle tradizionali e quelle innovative per rispondere alle nuove sfide.

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