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Note

La determinazione del valore delle quote sociali ai fini del tributo successorio: un orientamento discutibile

22 Marzo 2016

Luca Sabbi, Professore a contratto di Diritto tributario, Università degli studi di Bergamo

Cassazione Civile, Sez. V, 11 dicembre 2015, n. 25007

Di cosa si parla in questo articolo

Con la sentenza n. 25007 depositata il 11 dicembre 2015 la sez. V tributaria della Corte di Cassazione ha esaminato alcune questioni concernenti l’applicazione dell’imposta di successione scaturite dalla successione del noto stilista Gianni Versace.

La successione si era aperta il 15 luglio 1997 e aveva visto una unica erede universale.

Dal punto di vista giuridico la sentenza è interessante per due questioni, di cui la seconda per tre sottoprofili che, però, nella sentenza non saranno sviluppati completamente in quanto il secondo di essi è stato ritenuto assorbente rispetto agli altri due:

1) l’individuazione del corretto dies a quo per determinare il termine di decadenza dell’Agenzia delle Entrate per poter effettuare la rettifica della dichiarazione successoria liquidando in via complementare la maggiore imposta sulle successioni in presenza di un pagamento rateale dell’imposta principale già liquidata;

2) la modalità di determinazione del valore della quota di società non quotata ereditata ai fini dell’imposta sulle successioni:

  1. rilevanza delle operazioni compiute successivamente alla chiusura dell’ultimo bilancio approvato;
  2. effetti di un bilancio come quello infrannuale non approvato dall’assemblea e non pubblicato;
  3. diversità strutturale del bilancio infrannuale rispetto al bilancio previsto dal codice civile rilevante ai fini dell’imposta successoria.

Per quanto concerne la prima questione, su precisa eccezione preliminare dell’Agenzia delle Entrate che appellava la sentenza a sé sfavorevole, viene censurata l’interpretazione dell’art. 27 comma 3 del D.Lgs. n. 346/90 che così dispone:“Successivamente l’ufficio, se ritiene che la dichiarazione, o la dichiarazione sostitutiva o integrativa, sia incompleta o infedele ai sensi dell’art. 32, commi 2 e 3, procede alla rettifica e alla liquidazione della maggiore imposta a norma dell’art. 34. La rettifica deve essere notificata, mediante avviso, entro il termine di decadenza di due anni dal pagamento dell’imposta principale.” Il punto della decisione verte intorno alla precisa determinazione del dies a quo per calcolare il termine biennale di decadenza per la rettifica in via complementare della dichiarazione e, più precisamente, se in presenza di pagamento rateale dell’imposta principale liquidata dall’Agenzia il termine decorra dalla data del pagamento della prima rata oppure dal pagamento dell’ultima rata. Per la CTR il dies a quo andava individuato nel pagamento della prima rata “[…] stante la dilazione ottenuta dalla contribuente”.

La Suprema Corte, invece, richiamando un proprio recente precedente[1] – in un caso, però, dove il pagamento dell’imposta liquidata in via principale è avvenuto immediatamente e non è stato oggetto di rateizzazione – è giunta alla conclusione che è “[…] logico desumere che il decorso del termine presupponga, ai fini della complementare, l’effettivo adempimento dell’obbligazione detta; e che dunque debba essere computato a partire dalla data del versamento dell’ultima rata d’imposta.”

Il percorso logico attraverso il quale la Suprema Corte giunge a questa soluzione è ancorato al concetto di pagamento – che rappresenta il fatto rispetto al quale il provvedimento amministrativo tributario di determinazione dell’imposta complementare abbia a collocarsi “successivamente” ex art. 27, comma 3 – che evoca la funzione estintiva dell’obbligazione liquidata in base alla dichiarazione.

A parere di scrive la soluzione adottata dalla Suprema Corte si palesa ineccepibile in ragione del fatto che il dies a quo è proprio connaturato al momento in cui l’obbligazione tributaria si estingue. Pertanto, se è vero che il pagamento del debito d’imposta estingue l’obbligazione, è logica conseguenza che il medesimo effetto si ottenga al momento del pagamento dell’ultima rata. Diversamente ragionando si anticiperebbe l’estinzione dell’obbligazione tributaria – in presenza di un debito ancora esistente – senza che alcuna disposizione normativa lo preveda. Del resto anche negli istituti deflattivi quali l’accertamento con adesione e la conciliazione giudiziale l’obbligazione tributaria si estingue con il pagamento dell’ultima eventuale rata e non con il perfezionarsi delle procedure deflattive (attraverso il pagamento della prima rata) che sono istituti ben diversi e che non interferiscono con l’obbligazione tributaria a monte se non in termini di eventuale ridefinizione della medesima.

Con riferimento alla seconda questione concernente la modalità di determinazione del valore da attribuire alla quota di società non quotata ai fini dell’imposta sulle successioni occorre svolgere qualche premessa.

Occorre ricordare che le modalità di determinazione del valore delle quote di società non quotate, ai fini dell’imposta sulle successioni, sono definite dall’art. 16, comma 1, lett. b) del D.Lgs. n. 346/90[2], a norma del quale il valore della partecipazione al capitale di società non quotate deve essere definito con riferimento al “valore proporzionalmente corrispondente al valore, alla data di apertura della successione, del patrimonio netto dell’ente o della società risultante dall’ultimo bilancio pubblicato o dall’ultimo inventario regolarmente redatto e vidimato, tenendo conto dei mutamenti sopravvenuti”.

Proprio sull’inciso “tenendo conto dei mutamenti sopravvenuti” si fonda la questione esaminata dalla Cassazione.

Nel caso in esame il valore della quota ai fini successori era stato determinato tenendo conto di un bilancio infrannuale, non approvato in assemblea (e redatto il medesimo giorno di apertura della successione) recettivo di quanto emergente da pregresse delibere, tutte antecedenti al decesso del de cuius, che avevano comportato una riduzione delle attività, per effetto della distribuzione di utili e di dividendi, imputati alle riserve. Il valore della partecipazione risultante dal bilancio approvato alla fine era stato ridotto tenendo conto delle successive operazioni di distribuzione di utili e dividendi.

L’Agenzia delle Entrate non ha condiviso questa operazione in quanto il valore delle quote avrebbe dovuto essere determinato con riferimento al valore del patrimonio netto indicato nell’ultimo bilancio approvato; ciò senza che alcun rilievo si potesse attribuire alle successive operazioni di distribuzione di dividendi, nonché al bilancio infrannuale non pubblicato che le recepiva.

Le Commissioni tributarie provinciale e regionale, condividendo l’impostazione del contribuente relativa alla valorizzazione della partecipazione operata in sede di dichiarazione di successione hanno rispettivamente annullato l’atto impugnato e rigettato l’appello ma la Corte di Cassazione ha ribaltato il giudizio accogliendo il ricorso dell’Agenzia e cassando con rinvio la sentenza della CTR.

Per la Suprema Corte, ai fini della determinazione della base imponibile per l’imposta sulle successioni e donazioni relativamente ad azioni o quote di società comprese nell’attivo ereditario, occorre avere riguardo al valore del patrimonio netto delle stesse risultante dall’ultimo bilancio regolarmente approvato o dall’ultimo inventario regolarmente redatto e vidimato che è vincolante sia per l’Amministrazione finanziaria sia per il contribuente, sicché non possono essere utilizzate risultanze tratte da documenti diversi (nella specie, l’ulteriore “bilancio infrannuale” non regolarmente approvato), né può rilevare, alla stregua di un mutamento sopravvenuto, idoneo a limitare la valorizzazione in base all’ultimo bilancio, la distribuzione di utili e dividendi avvenuta in violazione dell’art. 2433, comma 2, c.c..

Dunque, secondo i giudici di legittimità, le delibere di distribuzione di utili intervenute non configurerebbero “mutamenti sopravvenuti” suscettibili di essere considerati nella determinazione del valore delle partecipazioni, a norma dell’art. 16, comma 1, lett. b) del D.Lgs. n. 346/90.

Questa posizione è in netto contrasto rispetto a precedenti orientamenti della giurisprudenza di legittimità e alla circolare dell’Agenzia delle Entrate[3], sia in merito ai poteri dell’Amministrazione sia, conseguentemente, all’individuazione dei “mutamenti sopravvenuti” di cui è possibile e doveroso tener conto.

In verità, la norma dettata dall’art. 16 del D.Lgs. n. 346/90, ove impone di tenere conto dei “mutamenti sopravvenuti” all’approvazione del bilancio, pare dettata proprio dallo scopo di tenere conto di elementi che, intervenendo nel lasso di tempo intercorrente tra l’approvazione del bilancio e la morte del socio, rendano il bilancio stesso inadeguato a rappresentare fedelmente il patrimonio della società al momento della morte del socio[4].

Per quanto si tratti di donazione e non di successione – seppur in presenza di un bilancio redatto ma non ancora pubblicato – con riferimento all’individuazione dei “mutamenti sopravvenuti” la Suprema Corte (sentenza n. 17062/13) ha statuito che: “Il valore del patrimonio netto della società risultante dall’ultimo bilancio può essere incrementato, o ridotto, in ragione dei mutamenti sopravvenuti tra la data di chiusura dell’esercizio al quale il bilancio si riferisce e la data della donazione, potendosi anche utilizzare le risultanze di un successivo bilancio, antecedente alla data della donazione, ancorché approvato in epoca successiva.”.

Tuttavia, leggendo attentamente il testo della sentenza qui in commento sorgono alcune perplessità sul fatto che la Corte, senza prendere espressamente posizione, abbia temuto che l’operazione di redigere un bilancio infrannuale il giorno di apertura della successione fosse mossa da un intento elusivo. Ciò sembra trasparire dalla consapevolezza che “Tale dettagliata disciplina è stata enucleata al fine di evitare elusioni d’imposta e di determinare il valore dell’attivo prevenendo tentativi di artata riduzione dell’asse”. Inoltre sarebbe “un criterio normativo che non ammette correttivi foranei non altrettanto normativamente supportati”.

Se questa fosse una operazione elusiva, a parere di chi scrive, a nulla varrebbe poi – diversamente da quanto sostiene la Suprema Corte – l’ulteriore considerazione secondo cui: “Né possono rilevare alla stregua di “mutamenti sopravvenuti”, suscettibili di essere considerati come limite alla valorizzazione in base all’ultimo bilancio, le circostanze evidenziate in sentenza circa la previsione di distribuzione di utili e dividendi, determinativa di una riduzione delle attività imputate a riserva. È sufficiente al riguardo osservare che l’art. 2433 c.c., comma 2, vieta, nella società per azioni, il pagamento di dividendi se non per utili “risultanti dal bilancio regolarmente approvato”. E ciò conferma l’irrilevanza, nell’ottica delle ordinarie regole civilistiche come anche nei riflessi che ne conseguono nel campo fiscale, di documenti diversi tesi a legittimare un’attività distributiva del tipo di quella evocata.”.

L’apodittica funzione antielusiva dell’art. 16, in verità, si scontra prima di tutto con la reale funzione della disposizione laddove, come conferma la stessa Cassazione con la sentenza n. 23462/07, l’attualizzazione delle poste espresse nel bilancio medesimo si rende necessaria – in ragione dei possibili mutamenti intervenuti nel lasso di tempo intercorso tra l’approvazione del bilancio e la morte del socio – in quanto le stesse si rivelino inadeguate a rappresentare fedelmente il patrimonio attuale della società. Si tratta, dunque, di una norma con l’esclusiva finalità di pervenire ad una determinazione della base imponibile nel modo più aderente possibile alla reale ed effettiva economicità dell’operazione; finalità che non può, quindi, né essere confusa con quella tipica di una norma antielusiva né tantomeno se ne può ad essa attribuire una tale portata in totale assenza di una espressa previsione normativa e di un qualsivoglia riferimento teleologico altrove rinvenibile.

Se l’approvazione di un bilancio il giorno stesso dell’apertura della successione fosse stato elusivo, quantomeno avrebbe dovuto essere soddisfatto l’onere della prova a carico dell’Agenzia di dimostrare la sussistenza della condotta elusiva – non rilevabile d’ufficio, cosa che “furbescamente” la Cassazione non fa ma lascia intendere – ovvero che si trattasse di operazioni prive di sostanza economica inidonee a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali; ovvero più precisamente che la distribuzione di utili era avvenuta in contrasto con i principi giuridici dell’ordinamento e non fosse determinata da ragioni non marginali extrafiscali.

Stride, altresì, il rapporto con l’art. 2433, comma 2, del c.c. laddove un atto vietato (quale però, si badi bene, il pagamento di dividendi e non la loro previsione di distribuzione che è però quella che effettivamente incide sulla determinazione dell’imponibile) non potrebbe avere conseguenze che si riflettono sulle determinazioni tributarie ponendosi, dunque, il problema in termini di evasione d’imposta e non di elusione. Ciò perché si tradurrebbe in una mera dichiarazione deliberatamente infedele determinata da indicazioni di poste attive inferiori in conseguenza di valutazioni civilistiche nulle o irrilevanti. In questo caso non vi sarebbe alcun aggiramento di norme tributarie ma la loro violazione diretta rispetto al dovere di una corretta e fedele dichiarazione dell’imponibile.

Comunque sia questa interpretazione, lo si ribadisce, vanifica la portata dell’art. 16, comma 1, lett. b) del D.lgs. n. 346/90 restringendola, dunque, a chissà quali atti o fatti che possano costituire un mutamento sopravvenuto. In realtà, l’ultima pronuncia del 2013 (in scia ad un orientamento costante) aveva, invece, correttamente interpretato il senso della disposizione – che di antielusivo non possiede nulla – dando rilevanza in termini di mutamento sopravvenuto alle risultanze di un bilancio antecedente alla successione per atto tra vivi ed approvato successivamente alla medesima.

 

[1] Cass. Civ., sez. V, n. 9960 del 15 maggio 2015.

[2] Sulla legittimità di questa disposizione con riferimento al principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 della Carta Costituzionale si era già pronunciata la Corte Costituzionale con l’ordinanza n. 250 del 2012 dichiarandone la manifesta infondatezza. In particolare secondo la Corte: “[…] per quanto riguarda le partecipazioni azionarie non quotate, il riferimento al valore risultante dal bilancio o dall’inventario appare tutt’altro che irragionevole, considerata la mancanza di un valore di mercato della quota e la evidente impossibilità, per l’acquirente mortis causa, di procedere ad una autonoma valutazione degli elementi attivi e passivi del patrimonio sociale; ferma sempre restando la possibilità, da parte dell’amministrazione finanziaria, di contestare il mancato rispetto dei criteri legali di redazione del bilancio o dell’inventario”. Altresì, la norma impugnata “…soddisfa il criterio direttivo, fissato dall’art. 8, numero 2), della citata L. n. 825 del 1971, secondo il quale l’imposta è commisurata al valore netto dei beni caduti in successione, essendo il bilancio della società e l’inventario dei beni ad essa appartenenti gli strumenti funzionalmente destinati a rappresentare il valore netto della stessa società e, di conseguenza, quello delle singole quote di partecipazione”.

[3] n. 58/E/2003.

[4] Sul punto e condividendo questa posizione si vedano le sentenze della C. Cass., sez. trib., nn. 17062/13, 23462/07, 6915/03. In dottrina si vedano Gaffuri, G., L’imposta sulle successioni e donazioni, Cedam, 2008, pp. 264-265; Ghinassi, S., La fattispecie impositiva del tributo successorio, Pacini Editore, 2014, p. 228.

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