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Editoriali

Decreto Curaitalia: se si sa spendere (e distinguere) non ci sono limiti

20 Marzo 2020

Raffaello Lupi

Professore ordinario di diritto tributario, Università di Roma “Tor Vergata”

Di cosa si parla in questo articolo

1. Qualunque classe politica avesse dovuto fronteggiare un’emergenza come quella del covid19 avrebbe probabilmente fatto cose simili, anche per quanto riguarda gli aspetti economici del recente decreto CuraItalia. Questa stessa definizione la dice lunga su quanto si siano aggiunte, all’inevitabile improvvisazione, esigenze di comunicazione politica e d’immagine istituzionale, che hanno reso più rigido il provvedimento. In buona misura si tratta, da parte della politica, di preoccupazioni difensive, verso attacchi mediatici e social dovuti alla ricerca di sensazionalismo, e di audience, da parte dei mezzi di comunicazione e in parte a strumentalizzazioni degli avversari politici. Un esempio di critica superficiale è quella alla brevità del rinvio nel pagamento dell’IVA, delle ritenute fiscali e dei contributi previdenziali del mese di febbraio, portato dal 16 al 20 marzo. Era infatti una brevità tecnica per metabolizzare le condizioni di una proroga più lunga -quasi bimestrale- concessa solo a una parte delle imprese. Incontriamo qui il filo rosso della gestione di questa crisi, cioè la difficoltà di differenziare e graduare gli interventi in relazione alle effettive priorità. Il governo doveva infatti fronteggiare istanze politiche favorevoli all’indiscriminata sospensione bimestrale di tutti i versamenti suddetti, a prescindere da condizioni dimensionali e settoriali. Si sarebbe trattato di miliardi di euro, un bagno di sangue per la finanza pubblica, spesso ingiustificato. Tutti sono stati danneggiati in qualche modo dall’epidemia, ma ci sono dimensioni aziendali indice di solidità finanziaria, se non investite dalla crisi per ragioni settoriali, come appunto per il turismo, i trasporti, la ristorazione, lo sport etc.. Giustamente il governo ha attuato un meccanismo combinato, secondo cui tutti i versamenti sono rinviati al 30 aprile per i contribuenti al di sotto di due milioni di euro di fatturato, mentre oltre quella soglia il rinvio è limitato solo agli operatori dei suddetti settori particolarmente danneggiati.

Si tratta di un sollievo finanziario, su imposte maturate a febbraio (anteriori alla crisi, nella maggioranza del paese pre-crisi), per fronteggiare la carenza di liquidità di marzo, col blocco di molte attività, per le quali continuano a decorrere spese fisse come i salari, gli affitti etc. A questa logica finanziaria si ispira anche la possibilità dei fornitori, soggetti a ritenuta alla fonte, di richiedere ai clienti di omettere l’effettuazione della ritenuta, che costituirebbe un’immobilizzazione fino alla dichiarazione a credito.

I debiti IVA di competenza del mese di marzo dovrebbero invece già diminuire, riflettendo l’andamento negativo delle attività sottostanti. Restano i debiti per ritenute e irpef dei lavoratori, in cui si inserisce la possibilità di chiedere la cassa integrazione anche per piccole imprese, in precedenza escluse. Le esigenze d’immagine sulla globalità della risposta per tutte le categorie, in modo da non esporsi alla critica politico-mediatica di aver lasciato fuori parti consistenti del mondo produttivo si trova nei 600 euro mensili per gli autonomi non mutuati, e le distinte provvidenze di sostegno al reddito dove invece sussistono le casse previdenziali.

2. Le esigenze politiche d’immagine hanno spinto insomma verso provvedimenti che consentissero di comunicare che per tutti c’è qualcosa. Proprio per questo, spesso si tratta di poco, con erogazioni difficili da gestire, e limiti di risorse (col rischio di richieste insoddisfatte e di click day dove solo i primi vengono soddisfatti).

Il tutto proprio perché gli apparati amministrativi, come si è già visto per altre iniziative come il reddito di cittadinanza e “quota 100” (penso al c.d. “ricalcolo contributivo”) sono fondamentalmente incapaci di gestire differenziazioni più articolate. Questo anche per una concezione totemica nel nostro ambiente giuridico, del principio di legalità, che impone rigidità e spesso impedisce di gestire distinzioni ispirate dal senso comune. Il decreto Curaitalia non poteva quindi che riproporre il vizio strutturale dell’intervento pubblico nel nostro paese, cioè la rigidità, riflesso di una serie di presupposti culturali che indeboliscono le politiche pubbliche del nostro paese. Si tratta dell’idea di burocrazia , da tutti criticata senza accorgersi che è la figlia degenere dell’ansia di regole e di legalità , manifestata in altre sedi dagli stessi critici. Questa rigidità si vede anche nel contenimento del contagio, dove alcune linee sono state difese per partito preso politico, dall’iniziale minimizzazione, alla sottovalutazione del contagio da asintomatici, alla diffidenza per la diagnostica preventiva e per il tracciamento del contagio. E’ comprensibilissimo che ci siano idee confuse sugli aspetti sanitari del problema, ma sarebbe onesto che la politica l’avesse detto, invece di cedere al desiderio di mostrarsi preparata e competente. Ritroviamo quest’incapacità di distinguere nella criminalizzazione di chi esce di casa da solo, mentre mezzo paese viene spinto a lavorare per mantenere i servizi essenziali, lo smaltimento dei rifiuti, le filiere produttive, le fabbriche, i supermercati, i trasporti, e cerca invano rimedi al rischio contagio. La necessità di distinguere e di ridiscutere le priorità, il rischio contagio e le esigenze sociali, percorre trasversalmente tutti i settori e non è gestibile ex ante per legge. Si parla giustamente di tanti medici-eroi, ma nella parte di sanità estranea al Covid19, dove restano solo le urgenze, tutto viene rinviato e mancano i pazienti, si bollano d’infamia come traditori i medici ospedalieri che restano a casa. Le fuorvianti retoriche mediatico-politiche dell’ è come una guerra , della diserzione e del sabotaggio, trascurano la capacità organizzativa di spostare risorse inutilizzate da un settore all’altro. Sono scelte che non possono essere fatte per legge, ma richiedono valutazione in concreto delle situazioni specifiche, delle esigenze, dei costi e dei benefici, e che andrebbero decentrate, senza seguire suggestioni mediatiche e rigidità burocratico-normative. Come per i sorveglianti di musei chiusi, che devono andare a timbrare il cartellino senza aver nulla da fare, prendendo i mezzi pubblici, mentre sindaci di grandi città italiane si fanno riprendere in video mentre intimano a passanti solitari di tornarsene a casa in nome della salute pubblica. E’ questa disorganizzata schizofrenia a mettere a repentaglio l’economia Italiana, e a compromettere gli equilibri del bilancio pubblico. Al di là dei semplicistici paragoni secondo cui lo stato è come una famiglia il debito pubblico si paga in immagine politico-amministrativa, agli occhi dell’Europa e dei mercati. Dove il credito è potenzialmente illimitato per chi sa spendere in modo razionale. Sono le modalità della spesa, le capacità di individuare correttamente i bisogni, soddisfacendoli con pragmatismo ed efficienza, a determinare le possibilità di credito. Che non hanno limiti per chi, appunto, è credibile perchè sa spendere bene.

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